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Il Consiglio del Comune a Siena

    

L’evoluzione del governo comunale

Alla fine dell’XI secolo vennero create le condizioni socio-culturali che permisero nell’Italia centro-settentrionale - insieme con la Provenza – di raggiungere l’autogoverno delle città. L’elemento base del Comune, quello da cui si sarebbero sviluppate tutte le articolazioni successive, era costituito dall’assemblea, che è indicata (secondo le città e i momenti) con vari nomi: consilium, concio, colloquium, arengum. In genere era convocato al rintocco della campana, o per voce di un banditore e si teneva nella piazza principale. Il consiglio deliberava sugli affari di maggiore importanza: guerra e pace, alleanze, tributi, destinazione dei beni del Comune. Inoltre, nominava le magistrature e provvedeva ai singoli uffici. Con il crescere della popolazione cittadina e il complicarsi della legislazione, l’assemblea venne sostituita da Consigli meno affollati, eletti con i sistemi più vari. Normalmente erano due: uno più ristretto (detto dei Savi, degli Anziani, di Credenza), un secondo più largo, che arrivava a comprendere anche seicento persone (Maggiore, Generale, della Campana).

Si fa risalire la nascita di questo nuovo ente politico alle associazioni giurate che già da tempo esistevano nel mondo medievale. Il Comune nasce come coniuratio, come, cioè, patto privato all’interno dell’aristocrazia cittadina, che si consorzia per gestire la città secondo i propri interessi di gruppo. I magistrati collegialmente incaricati di governare, i consoli, venivano infatti scelti tra i principali rappresentanti delle famiglie magnatizie. Soltanto dopo un lungo braccio di ferro i ceti emergenti (i popolares), a loro volta organizzati in associazioni professionali (le corporazioni), riuscirono gradualmente a partecipare al governo cittadino. Nelle città più dinamiche erano presenti delle figure politiche titolate boni homines, cioè persone di fiducia che svolgevano particolari commissioni e che decadevano nel momento in cui avevano assolto al loro compito. A seguito delle modificazioni sociali ed economiche dei secoli XI e XII e con lo sviluppo dei traffici commerciali, si avvertì una necessità sempre maggiore di avere delle persone di fiducia, testimoni ed arbitri (bonus stava ad indicare una persona degna di fiducia). È presumibile quindi che l’origine di questa nuova figura sociale sia da ascriversi all’esigenza pressante di organizzare la vita sociale che si andava facendo sempre più articolata e complessa: una magistratura stabile come quella consolare, sia pure a tempo limitato, era necessaria per curare gli interessi cittadini e coordinare l’azione collettiva.

Mentre i Consigli erano depositari del potere legislativo, il potere esecutivo e il potere giudiziario erano affidati alla magistratura consolare, magistratura collegiale e designata per elezione. I Consoli (nome che si rifaceva direttamente ai governanti dell’antica Repubblica di Roma), che prestavano giuramento, si occupavano del bene della città, di provvedere alla difesa dei suoi diritti, della sua sicurezza, della pace e della giustizia. Insieme ai loro collaboratori, restavano in carica per un periodo determinato, in genere mai più di un anno, per garantire un’ampia rotazione contro il pericolo dell’affermarsi di un regime personale o dittatoriale. La comparsa dei Consoli nella documentazione è solitamente considerata come prova di una piena affermazione dell’istituzione comunale. Ciò avvenne a Pisa nel 1081-1085, ad Asti nel 1095, ad Arezzo nel 1098, a Genova nel 1099, a Pistoia, Lucca e Ferrara nel 1105, a Cremona nel 1112, a Piacenza e a Bologna nel 1123, a Perugia nel 1130, a Firenze nel 1138.

Ci vorranno comunque decenni prima che i Comuni acquistino la piena consapevolezza di se stessi. Mai però rivendicarono una totale indipendenza dichiarandosi formalmente Stato sovrano. Si limitarono sempre a ricercare un’autonomia più ampia e maggiori diritti che potessero inserirlo nella struttura statale con una dignità pari a quelle delle altre realtà feudali. Spesso, infatti, il Comune nasceva dallo scontro delle antiche famiglie comitali venute in città, dotate di ampi poteri feudali, soprattutto nelle zone marginali e montuose del contado, con il potere ecclesiastico. Tutti questi gruppi familiari, tranne alcune eccezioni, erano legati a ceppi di origine germanica o longobarda, che, grazie alla frammentazione dei beni avvenuta nella fase carolingia, avevano portato al diffuso fenomeno dell’incastellamento dei secoli precedenti. L’assenza di grandi feudatari rispetto a altre aree europee insieme alla dinamicità dei ceti mercantili e urbani contribuì non poco allo sviluppo delle precoci realtà comunali e alle tendenze autonomistiche delle nuove realtà urbane (la presenza dell’autorità centrale, regia o marchionale, divenne del tutto insignificante nell’Italia centro-settentrionale soprattutto dopo la morte della contessa Matilde, avvenuta nel 1115).

Il Comune continuava comunque a esercitare e conservare caratteristiche feudali, anche quando incominciò ad annoverare tra i suoi membri alcuni esponenti della classe mercantile (il potere era ancora inteso come un potere personale, fondato sul privilegio, e il limite fra ciò che era pubblico e ciò che era privato fu sempre molto incerto e labile). In questa prima fase storica, il Comune non era ancora un’autorità civile dotata di una certa giurisdizione sulla popolazione e sul territorio, ma era ancora in pratica un’istituzione privata in cui le parti impegnate giuravano semplicemente di rispettare le norme convenute e liberamente accettate (è stato calcolato che erano al massimo il 20-25% coloro che godevano dei diritti politici, legati a requisiti come la maggiore età, il sesso maschile, il possesso della cittadinanza, talvolta la proprietà di una casa in città; dall’insieme della popolazione adulta vanno, infatti, sottratti i servi, le donne, i poveri impossibilitati a pagare la tassa di cittadinanza o ad acquistare una proprietà in città, i lavoratori salariati, i senza fissa dimora, gli ebrei, eccetera).

Al di fuori dell’Italia, il Comune si affermò nelle Fiandre, nella Germania renana, nella Provenza e in Francia, ovvero in quelle regioni dove più intenso era lo sviluppo economico. I Comuni transalpini si distinsero per la limitazione del loro potere all’interno delle mura urbane. Sul territorio circostante alle città, infatti, continuarono a dominare le aristocrazie rurali, che rimasero in gran parte estranee alla vita cittadina. Le autonomie cittadine furono il risultato, quasi esclusivamente, dell’iniziativa dei ceti mercantili senza un significativo concorso delle famiglie signorili del territorio. In Francia la nascita dei Comuni fu favorita anche dai privilegi e dalle franchigie concesse dai sovrani alla borghesia mercantile e artigiana. Nell’Europa centro-orientale lo sviluppo dei governi comunali fu invece debole poiché su queste regioni il controllo dell’Impero, della Chiesa e della feudalità era più stretto era il controllo. Analogamente nella penisola iberica, nell’Italia meridionale e in Scandinavia, dove più marcata era l’autorità dei regimi monarchici. In Inghilterra, dove pure esistevano numerosi centri commerciali e manifatturieri, il movimento comunale fu quasi inesistente. Soltanto Londra ottenne dai sovrani alcuni privilegi.

   

Il Comune va alla guerra

Una volta consolidata l’autocoscienza comunale, i principali Comuni cercarono di affermare e di allargare il proprio dominio su un territorio più vasto, i cui confini tendevano a coincidere quasi sempre con quelli diocesani, anche con la forza delle armi. In questo modo era possibile ingrandire l’area di influenza e quella in cui poteva esigere tributi e balzelli e garantirsi la sicurezza dei traffici commerciali sulle strade più importanti. Il conflitto tra i grandi Comuni si fece inevitabile. Il “vicino” divenne un avversario da battere. Limitare il più possibile l’area di influenza dei Comuni vicini, si rivelò una scelta fondamentale così come eliminare l’autonomia dei centri minori del contado, in maniera tale da far gravitare nell’orbita comunale un numero sempre maggiore di borghi e assicurarsi i castelli e punti di osservazione principali per il controllo delle vie di comunicazione. Tra il XIII e XIV secolo si assiste quindi a una lunga serie di campagne militari che ad ogni primavera davano luogo a guerre di difesa e a guerre di conquista contro altri Comuni o contro le piccole signorie locali riottose a riconoscere l’autorità comunale (anche perchè occupare i castelli vicini significava esercitare un importante ruolo nella difesa e nel controllo del territorio comunale circostante).

Quando, a partire dalla seconda metà del Duecento, ai Comuni viene concesso il diritto di conferire il titolo di cavaliere, o di miles (esercizio che trovava il suo fondamento giuridico nella Constitutio Costantiensis di Federico I in cui veniva attribuito ai Comuni il diritto di heribanno, di creare cioé una propria cavalleria), l’autorità comunale giunge, in pratica, a sostituire il sistema feudale. Arrogarsi il diritto di “fare cavalieri” era, infatti, uno dei gesti più importanti ed esclusivi della società feudale. Non era soltanto un’affermazione formale, ma un chiaro segno che il potere era saldamente nelle mani del Comune. I privilegi cavallereschi potevano essere concessi non solo ai nobili, ma anche ai borghesi. Essere “creato” cavaliere era motivo di aspirazione dei cittadini più in vista. Ancora in piena epoca comunale, infatti, la cavalleria svolgeva un importante ruolo ed essere cavalieri era un ottimo espediente di promozione sociale.

Essenzialmente possiamo distinguere due figure di cavalieri comunali: miles nobilis e miles pro communi. La militia comunale era la risultante di più componenti, per certi versi in concorrenza tra di loro. Da un lato la militia di origine e di tipo feudale, prerogativa delle famiglie aristocratiche; dall’altro una militia intesa soprattutto come ottemperanza di una misura fiscale imposta dal Comune ai cittadini più facoltosi, che potevano permettersi il lusso di accudire uno o più cavalli ed armarsi dell’equipaggiamento militare necessario (in molti casi questo significava anche l’esenzione da alcune gabelle particolari).

La creazione di nuove figure militari durante l’epoca comunale si rese necessaria anche da motivazioni di sicurezza interna. In tutte le città comunali, forte era la divisione politica e numerose le occasioni di scontri tra le fazioni avversarie. La consorteria ed il senso di appartenenza ad una ristretta cerchia di persone o amici erano molto sentiti. La passione politica era assai di frequente fonte di violenza e di offese lavate con il sangue della vendetta. Tutto ciò riguardava l’azione politica era frammentario, instabile, con una sequenza indistricabile di fatti d’arme e violenti tra le fazioni avversarie.

Anche gli stemmi indicavano aggregazione od esclusione. I loro segni figurativi e cromatici permettevano di visualizzare immediatamente l’appartenenza a una casata o a un’altra fazione. Erano importanti fattori di coesione che rinsaldavano la solidarietà dei vari aggregati (non dobbiamo comunque credere che le insegne fossero esclusive del ceto nobiliare; anche le corporazioni cittadine, ad esempio, partecipavano alle campagne militari con le loro insegne). Il desiderio di vendetta era così profondamente radicato nella mentalità degli uomini di quel periodo, che spinse addirittura il Comune di Siena a registrare in un apposito memoriale tutte le offese ricevute affinché ne rimanesse memoria e si potessero vendicare al momento opportuno.

Assieme alla cavalleria, alla quale provvedevano i cittadini più ricchi, nelle campagne militari i Comuni facevano largo della fanteria, alla quale provvedeva il popolo. In gran parte raccogliticcia, era formata da popolani e genti del contado ed era organizzata e suddivisa in base all’appartenenza delle contrade cittadine o alle varie corporazioni. La milizia comunale, che integrava palvesari (fanti che disponevano di uno scudo rettangolare di grandi dimensioni, palvese, alto quasi quanto una persona, che veniva fissato al suolo e sostenuto da pali per proteggere il palvesario armato con una lunga lancia), balestrieri, arcieri, o semplicemente armati di falci e spade, si presentava con una selva di insegne che, in un periodo dove ancora non venivano adottate le divise militari, costituivano importanti punti di riferimento nel corso delle mischie. Il Comune provvedeva sia al reclutamento territoriale che all’equipaggiamento militare. La necessità di colpire le risorse economiche dell’avversario, portò all’istituzione di corpi di genieri, di zappatori e di guastatori. I diversi tipi di obblighi militari venivano retribuiti sin dal primo giorno di campagna, differenziati a seconda del tipo di servizio prestato.

   

Federico Barbarossa

Dopo il Mille, gli imperatori tedeschi, a parte poche eccezioni, si erano generalmente disinteressati all’Italia, coinvolti com’erano nelle questioni interne della Germania. Tale situazione, che aveva contribuito alla diffusione del movimento comunale nell’Italia centro-settentrionale, mutò radicalmente con l’ascesa al trono di Federico I di Svevia, detto il Barbarossa. Fermamente deciso a restaurare l’autorità sacro-romano-imperiale in tutta l’Europa cristiana, tipica del periodo degli Ottoni, il suo disegno politico aveva come obiettivi ristabilire il controllo imperiale sui Comuni italiani, riaffermare il primato dell’Impero sul Papato e annettere al dominio imperiale anche l’Italia meridionale.

Dopo una prima discesa in Italia nel 1154, il Barbarossa tornò nel 1158 alla testa di un consistente esercito per recuperare quei diritti sovrani - come il battere moneta, il levare imposte, il dichiarare guerra – che, secondo la propaganda imperiale, erano stati usurpati dai Comuni. Le campagne militari continuarono negli anni successivi, coinvolgendo prevalentemente i centri padani che si erano rifiutati di sottomettersi all’autorità imperiale, primo fra tutti, Milano. Le città ribelli si unirono prima nella Lega veronese (1164) e poi nella potente Lega lombarda (1167), entrambe appoggiate dal papa, preoccupato per le pretese egemoniche di Federico. Nel 1176, a Legnano, l’esercito imperiale subì la sconfitta decisiva che, in pratica, decretò la fine delle ostilità. Nel 1183, con la pace di Costanza, il Barbarossa riconosceva la Lega lombarda e rinunciava alla nomina di propri ufficiali nelle città, nonché ai vari diritti regi rivendicati (all’Imperatore rimanevano soltanto alcune prerogative come il diritto di esigere un giuramento di fedeltà da rinnovarsi ogni dieci anni e l’autorità di poter giudicare in ultima istanza le controversie tra le città).

Per i Comuni, che formalmente accettavano di dichiararsi vassalli dell’imperatore, si trattava di un importante riconoscimento. Dopo questo fatto, le città della Lega, e ben presto tutte le altre, si videro riconosciute tutte le più importanti prerogative di autogoverno che avevano autonomamente introdotto (tra le quali il diritto di arruolare truppe, edificare fortificazioni, concludere con altri Comuni leghe e alleanze e riscuotere imposte e gabelle) e il diritto a mantenere un proprio esercito. Il processo politico e culturale dell’evoluzione comunale cittadina si poteva dire completato, così come il riconoscimento giuridico della loro realtà storica.

   

Dai Consoli al Podestà

L’esito della lunga lotta fra i Comuni e Federico Barbarossa segnò l’inizio di una ulteriore fase di sviluppo delle città dell'Italia centro-settentrionale. Sulla spinta della Pace di Costanza (1183), i governi cittadini iniziarono a affermare con maggiore decisione la propria sovranità, estromettendo gli antichi titolari del potere cittadino (normalmente i vescovi) da ogni giurisdizione civile, perseguendo la sottomissione del contado. In questi decenni si assiste anche alla sistemazione urbanistica delle città con la creazione di edifici pubblici destinati alla vita comunitaria e agli scambi economici. Di fronte a questa nuova stagione politica, il sistema dei Consoli si rivelò insufficiente. A determinarne la crisi furono soprattutto i contrasti fra diversi gruppi sociali che vivevano all'interno della città, ma anche le lotte fra le principali famiglie per ottenere il potere cittadino che portarono a veri e propri conflitti armati.

Verso la fine del XII secolo, si vede emergere un po’ ovunque due fazioni antagoniste: quella dei nobili e quella dei popolani. Al di là delle connotazioni di ceto che differenziavano i due schieramenti, una semplice, ma efficace definizione è quella che distingue la nobiltà come la classe che deteneva e cercava di mantenere il potere; il popolo l’insieme di coloro che miravano a ritagliarsi maggiore spazio politico, fino a sostituirsi alla vecchia classe dirigente. La soluzione per uscire da questa difficile situazione fu trovata nella creazione di una nuova magistratura, stavolta non collegiale né cittadina: quella del Podestà.

In generale per questa carica veniva scelto un forestiero poiché considerato imparziale e slegato dalle fazioni cittadine. Esso durava in carica un anno e recava con sé dei funzionari di sua fiducia che lo aiutavano nelle attività politiche ed amministrative, il judex et assessor, per proferire le sentenze civili e penali, e i sindaci et provisores comunis, per definire le controversie all'interno del Comune. In pratica il podestà svolgeva funzioni di moderatore tra i vari raggruppamenti cittadini che esprimevano gli interessi politico-economici dei differenti ceti sociali.

Il compito del podestà era arduo, complicato, e pericoloso. Non furono pochi i casi in cui abbiamo notizie di podestà invischiati nelle lotte intestine tra le varie fazioni in lotta. Il podestà aveva il potere esecutivo, ma non quello legislativo e costituente, proprio dei vari consigli. Doveva governare in base alle norme statutarie che regolavano l’amministrazione comunale e dirigere la politica estera secondo le disposizioni del Consilium Civitatis (chiamato spesso anche Consilium Campanae). Quando si trattava di questioni di interesse vitale per la vita del Comune, veniva tenuta l'assemblea generale di tutti i cittadini, detta Consilium Generale o Parlamentum.

Anche se inizialmente la funzione principale del nuovo magistrato era quella di mediatore tra le parti, ovvero colui che poteva meglio garantire, in qualità di esterno, il governo della città, ben presto divenne lo strumento di potere, e praticamente il rappresentante, del partito di volta in volta dominante (non a caso veniva quasi sempre esclusivamente scelto nelle città dove prevaleva la stessa fazione).

Il “popolo”, i mercanti e gli artigiani, continuava a restare fuori della stanza dei bottoni. La sua forza però si andava facendo sempre più consistente. Era basata su due componenti fondamentali: da una parte le Arti o Corporazioni, ossia le associazioni di mestiere nate per tutelare gli interessi dei ceti produttivi, dall’altra le società armate, ovvero le compagnie di difesa che si erano sviluppate su base rionale. La creazione della figura podestarile non portò però alla soluzione del conflitto fra nobiltà e popolo, che continuò a insanguinare molti Comuni dell’Italia centro-settentrionale (situazione resa ancora più difficile dall’ampia iniziativa militare di Federico II contro il Papato e i Comuni, che divise le città in guelfe e ghibelline). Per questo motivo quando, dopo il 1250, in alcune città, particolarmente vivaci sotto il profilo economico, il popolo conquistò il controllo del governo cittadino, si assiste all’insediamento di propri magistrati accanto a quelli esistenti (il caso più esplicito è quello di Firenze, dove, dopo un’aspra lotta dalle fasi alterne, si arrivò nel 1282 alla costituzione del Priorato delle Arti e, nel 1293, all’emanazione degli Ordinamenti di giustizia).

Una nuova magistratura civile tipica di questo periodo è quella del capitano del popolo. Il principale compito di questo nuovo magistrato, che disponeva di una propria schiera di armati, era quello di contenere le prepotenze degli aristocratici e dei nobili cittadini (la societas militum). In molti casi i poteri e le prerogative del capitano del popolo accrebbero a danno di quelli del podestà: era lui che controllava e coordinava tutta l’organizzazione del popolo, ne presiedeva i consigli, comandava l’esercito comunale e, piano piano, arrivò a controllare molte delle attività giudiziarie e amministrative che erano proprie del podestà stesso.

 

 

      

©2007 Andrea Moneti

   


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