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Una famiglia numerosa, da un manoscritto francese del secolo XV (Paris, Bibliothèque Nationale de France).
Le famiglie si formavano generalmente tra persone che appartenevano alla
stessa contrada o a contrade vicine tra loro: molto rari erano i
matrimoni tra persone appartenenti ad altre città o al contado
(questo tipo di matrimoni era caso mai più probabile tra le famiglie
nobili). In una società accentrata intorno alla famiglia qual era
quella del Basso Medioevo il matrimonio assumeva un'importanza
fondamentale. Alleanza tra famiglie, prima che unione fra singoli, era
subordinato a considerazioni di natura economica, sociale e politica
che lasciavano poco spazio ai sentimenti personali. Il matrimonio, sia
tra i nobili che tra i semplici cittadini, era, infatti, considerato
alla stregua di un contratto, quasi sempre combinato dai familiari
degli sposi e non dagli sposi. Nei ceti sociali più elevati, e non
solo, il matrimonio aveva come scopo quello di stabilire una nuova
alleanza, o di consolidarne una vecchia, tra due famiglie. Attraverso
il matrimonio si stringevano amicizie, si rinsaldavano rapporti di
lavoro o si metteva fine a vecchi contrasti. E se lo sposo aveva
qualche voce in capitolo - la decisione finale spettava a lui - alla
sposa non era concessa alcuna decisione in merito (i canoni della
Chiesa ammettevano che solo a sette anni si potesse stringere un patto
matrimoniale da celebrarsi poi al dodicesimo compleanno della sposa;
è ovvio come in tali condizioni la consapevole accettazione del
matrimonio da parte della sposa non fosse minimamente preso in
considerazione). L’esistenza stessa della dote, un concreto pegno materiale
dell’alleanza, ne faceva essenzialmente un affare, e, come tale,
coinvolgeva le famiglie dei due sposi. Non di rado anche intervenivano
appositi mediatori. La dote subì nel tempo numerosi cambiamenti. Se
nei secoli XI e XII i contributi degli sposi e delle loro famiglie
erano di eguale valore, alla fine del Basso Medioevo la documentazione
testimonia il declino dei doni nuziali portati dal marito. Dante
Alighieri (1265-1321), nella Commedia, ricorda che in un
passato non lontano la nascita di una figlia non costituiva motivo di
preoccupazione per i genitori, mentre ai suoi tempi l’ammontare
della dote diventato era eccessivo, superando ogni limite ragionevole
(solo alcuni anni dopo il cronista Giovanni Villani, 1280 ca.-1348,
sosteneva addirittura che le eccessive spese dotali avevano finito con
il ridurre il numero dei matrimoni). Per gli uomini di Chiesa la donna si identificava con Eva: tentatrice,
peccatrice, figlia del Diavolo. La condizione femminile era fortemente
legata alla sua creazione biblica (dalla costola di Adamo) e alla sua
punizione (“sarà a lui sottomessa”). Le donne di ogni epoca altro
non erano che la sua incarnazione e come lei, che aveva ceduto alle
lusinghe del Demonio causando la perdizione dell'intero genere umano,
le donne erano viste deboli e prigioniere degli istinti più sfrenati.
Nella cultura medievale, soprattutto quella ecclesiastica, la donna è
simbolo di perdizione, incostante e volubile e
incarna tutti i pericoli della carnalità e della materia. Gli uomini, chierici o meno, erano profondamente convinti di poter
vantare una superiorità non solo fisica, ma anche morale, sulla
donna. La posizione subordinata della donna di fronte al padre prima e
al marito poi, era ammessa ufficialmente. Numerosi sono gli statuti
comunali toscani, risalenti al XIV secolo, che autorizzavano i mariti
a punire le mogli, pur con la riserva della moderazione. Anche i
documenti testamentari testimoniano la debolezza della posizione
femminile perchè quasi sempre preferiva trasmettere la proprietà
alla linea maschile. L’accomodamento consueto era quello di
garantire alla moglie l’usufructus su una parte, o su
tutta la proprietà, a condizione che rimanesse casta, non si
risposasse e non richiedesse alcunché della sua dote. Assieme a questa immagine fortemente negativa, dall’XI secolo cominciò
ad affermarsi anche in campo religioso un nuovo modello, proponendo
l’ideale positivo e irraggiungibile rappresentato da Maria, Vergine
e Madre, il cui culto venne propagandato con fervore dai francescani e
domenicani. È proprio all’inizio del nuovo millennio che la
devozione mariana si diffonde e si fa sempre più sentita. Comincia a
permeare gli scritti religiosi e le sue immagini si moltiplicano
invadendo la scultura e la pittura in tutto l’Occidente. La Vergine
è la speranza e il rifugio del peccatore, in lei le qualità
femminili, soprattutto materne, si sublimano al punto di raggiungere
l’immacolata perfezione. In Maria ogni brandello di materialità è
allontanato. È madre, ma soprattutto vergine. Proprio per questo i
chierici ne magnificano le doti ne fanno un ideale di perfezione.
Santa nella perseveranza, madre affettuosa e devota, diviene il
modello che la Chiesa suggerisce, e impone, alle donne: per
raggiungere la salvezza, devono combattere contro la propria natura
corrotta ed essere costanti nel rifiuto del mondo. Il conflitto matrimonio-verginità fu un costante nella tematica
cristiana dei primi secoli e i Padri della Chiesa occidentale
(Ambrogio, Gerolamo, Agostino) e orientale (Metodio, Basilio di
Cesarea, Giovanni Crisostomo). Questa visione negativa colpì
profondamente la morale medievale. Il matrimonio era conseguenza del
peccato originale e precludeva alle donne la via della santità. La
sessualità era finalizzata alla sola procreazione e veniva vista in
una luce negativa anche nell’ambito legittimo e consacrato del
matrimonio. Molti erano periodi dell’anno in cui i coniugi dovevano
astenersi dal compiere l’atto sessuale, non solo quelli naturali
legati alla fisiologia propria della donna (mestruazioni, gravidanza,
parto, allattamento), ma anche durante la Quaresima, all’Avvento,
alla Pentecoste, alle principali feste e relative vigilie, e la
domenica. Dalla seconda metà del XIII secolo, man mano che la società si fece più
articolata e complessa e la rappresentazione della donna non era più
un monopolio della cultura ecclesiastica, la condizione femminile
cominciò a cambiare. Maritate in genere tra i 16 e i 18 anni, era
inevitabile che le giovani spose si sentissero intimorite (spesso
venivano date in sposa a uomini che conoscevano appena o che non
conoscevano affatto). Ma una volta madri, obbligate a prendere
decisioni per la cura dei figli e della casa, spesso in assenza degli
sposi, di frequente in viaggio per badare ai loro affari di mercanti,
i mariti si vedevano costretti a mollare il freno man mano che le
donne acquistavano maggiore esperienza e sicurezza. Senza mutare lo
status di inferiorità legale della donna, prendeva sempre più
consistenza la figura della padrona di casa: alle mogli venivano
affidate le responsabilità domestiche, disponendo così di un piccolo
regno autonomo dove venivano meno tutte quelle severe regole di
riserbo e di pudore vigenti per le donne quando si avventuravano in
pubblico (in quello, cioè, che veniva considerato come lo spazio
degli uomini). Man mano che la società cambia, alleggerendo
l’asfissiante tutela cui erano state sottoposte nell’Alto Medioevo,
aumentano per le donne anche le occasioni di relazioni sociali: si
scambiavano visite tra amiche e parenti, andavano a salutare la donna
che aveva avuto un bambino, portandole spesso dei piccoli doni,
c’erano riunioni di sole donne, e così via. Nelle città italiane, soprattutto quelle del centro-nord, le donne
erano ben presenti nel circuito degli scambi commerciali. Oltre ad
avere largo spazio nella produzione e nella commercializzazione di
lino e tele, compravano e vendevano grano, concedevano e ricevevano
prestiti, permutavano terreni (A Napoli, tra il XIII e il XIV secolo,
troviamo donne medico con le specializzazioni più varie; a Genova,
nel Duecento, oltre un quinto delle operazioni relative alle
“commende” erano gestite da donne). A partire da questo periodo, la Chiesa cominciò a elaborare una nuova
ideologia matrimoniale stabilendo i parametri ai quali la coppia
avrebbe dovuto omologarsi. Anche se in linea di principio
quest’impegno riguardava entrambi gli sposi, erano i doveri della
moglie a essere sottolineati con enfasi molto maggiore. Accolta nella
famiglia del marito, doveva onorare i suoceri, essere sottomessa e
fedele, reggere la famiglia, governare la casa e essere
irreprensibile. Alle donne era richiesto di saper filare e tessere a
maglia, di saper tagliare, cucire e ricamare, di fare il pane, di
cucinare e di fare il bucato. Veniva loro richiesto anche di saper
parlare con garbo e a
proposito, di saper rispondere a tono e con spirito, di saper
raccontare novelle e di essere belle (qualità mai disprezzata).
Marito e moglie si dovevano amare intensamente e aiutare
reciprocamente, ma la moglie doveva al marito la moglie una sorta di
venerazione (per amare perfettamente, scrive Jacopo da Varazze nella
sua Chronica, la moglie deve amare il marito ritenendo «che
nessuno sia più sapiente, nessuno più forte, nessuno più bello del
suo sposo»). In questo regime di subordinazione, il debito coniugale
prevedeva però un codice reciproco e paritario nell’ambito della
sfera sessuale: entrambi i coniugi avevano uguale facoltà di chiedere
e uguale diritto di rifiutare. La crescita della condizione femminile è testimoniata anche dal fatto
che, a partire dal XII secolo, le donne iniziarono a tradurre il
messaggio evangelico in forme di vita libere al di fuori dei chiostri
e distinte dalle rigide regole del monachesimo tradizionale. Di questo
periodo sono il movimento delle beghine e numerose esperienze
mistiche e penitenziali, fra le quali la più comune era la
reclusione volontaria in celle a ridosso di chiese e monasteri. Con la
nascita dei nuovi Ordini Mendicanti nel secolo successivo, domenicani
e francescani in testa, la Chiesa convogliò quest’ondata di
misticismo nel loro alveo (uno degli esempi più famosi è
rappresentato da Chiara d’Assisi, 1194 ca.-1253, che nel 1212 fondò
una piccola comunità di “sorelle povere”, detta poi delle
Clarisse). Nel tempo gli Ordini Mendicanti assunsero il controllo di
tutte le comunità femminili e, oltre alle Clarisse, inserite
nell’Ordine francescano, furono creati anche gli ordini femminili
delle Domenicane, delle Agostiniane e delle Carmelitane. Un altro
aspetto della partecipazione delle donne alla vita religiosa fu il
filone della profezia femminile, inaugurato da Ildegarda di Bingen
(1098-1179) e che trovò in Margherita da Cortona (1247-1297), Angela
da Foligno (1248 ca.-1309) e Caterina da Siena (1347-1380) le sue
figure principali, tutte donne che divennero modelli di santità. Altro campo in cui gli uomini cercarono di limitare la condizione
femminile fu quello del vestire. Quasi tutti gli statuti comunali,
soprattutto a partire dalla metà del Trecento, nel difficile sforzo
di disciplinare i codici di abbigliamento, prevedevano leggi
“suntuarie” (dal latino sumptus = spesa). Sebbene
l’ostentazione del lusso nelle vesti e negli ornamenti
caratterizzasse sia gli uomini che le donne, la grande maggioranza di
queste norme era solo indirizzata contro gli eccessi femminili. Le
donne non erano soltanto prese di mira in quanto tali, ma anche perché
attraverso il loro abbigliamento gli uomini desideravano rappresentare
lo status sociale della famiglia. È comunque assai probabile che a
questo gioco di vanità e apparenze troppo esibite le donne
partecipassero volentieri poiché, escluse dalla vita politica e
limitate nelle loro relazioni, era uno dei pochi ambiti in cui era
loro consentito farsi notare e partecipare alla vita pubblica. Ovviamente anche il desiderio di progenie era orientato: i genitori preferivano avere figli maschi (in alcuni trattati gli autori insegnavano ai loro lettori come avere rapporti sessuali che aumentassero le possibilità di generare figli di sesso maschile). La mortalità infantile era molto elevata. Nascere e sopravvivere alla propria nascita era già di per sé una forma di scampato pericolo. In molte rappresentazioni abbiamo i genitori e i parenti del neonato che si preoccupano di proteggerlo anche con l’aiuto di immagini religiose e portafortuna. Nell’Italia
centro-settentrionale tra i ceti più abbienti era diffusa la pratica
di dare i bambini ad allattare a una balia. Diverse erano le
motivazioni di questo comportamento: una non perfetta salute della
madre, la presenza di poco latte, la riluttanza da parte della donna
per una pratica considerata faticosa e dannosa per la salute e la
bellezza, o la forzata astinenza, durante l’allattamento, dai
rapporti sessuali. La ragione però forse più profonda era
un’altra: vista l’elevata mortalità infantile, l’allontanamento
del bambino dalla famiglia nelle prime fasi della sua infanzia era un
modo per limitare il dolore che la sua morte avrebbe potuto procurare
ai genitori. Dopo due o tre anni, passato il periodo più pericoloso
per la sua sopravvivenza, il piccolo veniva reintegrato nella sua
famiglia. La balia veniva cercata rivolgendosi a amici o conoscenti o
cercando direttamente nel circondario delle terre che si possedevano
in campagna. Tuttavia non era raro ricorrere ai sensali,
persone che si impegnavano, dietro un compenso, a fare da intermediari
tra le famiglie e le balie. Affatto infrequente era l’eventualità che i figli fossero
abbandonati. Questo poteva accadere perché erano il frutto di
un’unione illecita, per l’indigenza dei genitori o anche solo
perché indesiderati. Per venire incontro a questo fenomeno
tutt’altro che trascurabile, tra XIII e XIV secolo, i trovatelli
cominciarono a essere accolti negli ospedali adibiti all’assistenza
dei viandanti, dei pellegrini e degli infermi. Nonostante
queste pratiche, non si deve però credere che la società medievale
in genere e i genitori fossero poco affezionati ai figli o addirittura
indifferenti al loro destino. Molti educatori medievali consideravano,
ad esempio, giocattoli e giochi elementi essenziali per il corretto
sviluppo dei bambini (la pratica ludica era incoraggiata anche nelle
sedi religiose). Numerose sono le pitture in cui sono raffigurati
giochi. Dei giocattoli medievali, purtroppo, restano poche tracce
(erano costruiti in legno o argilla) che possiamo comunque ricavare
dall’iconografia e dalle fonti scritte. Abbiamo esempi di bambole,
sonagli, mulinelli ad alette, barche in miniatura, cavalieri in piombo
o in terracotta (una testimonianza significativa è il dipinto Giochi
di fanciulli eseguito da Pieter Bruegel il Vecchio nel 1560). Con lo sviluppo della società cittadina nel XIII secolo crebbe anche la
domanda di alfabetizzazione. Se fino allora l’istruzione scolastica
era stata una prerogativa quasi esclusiva degli ecclesiastici, a
partire dal XIII secolo venne progressivamente laicizzandosi e diffusa
in istituzioni scolastiche e da precettori. L’istruzione procedeva
per tappe definite. Dall’insegnamento della lettura e della
scrittura si passava allo studio dell’abaco, ossia della matematica
(il saper “far di conto” era infatti essenziale in una società
mercantile e strettamente connesso all’acquisizione di un’abilità
professionale). Sia la didattica della lettura sia quella della
scrittura si basavano sulla memorizzazione. I metodi impiegati
consentivano al maestro l’uso della verga; non mancano le
testimonianze di percosse, spesso gratuite. La scuola non era l’unica occasione per ottenere un’istruzione. Se i
bambini delle famiglie agiate potevano disporre di un precettore
privato, per gli altri era sempre possibile seguire la carriera
ecclesiastica o imparare a leggere e a scrivere durante
l’apprendistato in una bottega. Anche se esistevano differenze
notevoli in rapporto ai mestieri e ai luoghi, in genere l’età per
iniziare l’apprendistato non era inferiore ai dodici-tredici anni.
Questa soglia però si abbassava per gli orfani, che avevano urgenza
per trovare una sistemazione familiare oltre che professionale, e per
le bambine (ci sono testimonianze che parlano di bambine impiegate in
attività lavorative anche a sette anni). In genere troviamo
apprendisti maschi in ogni tipo di bottega, mentre le fanciulle
svolgevano il loro apprendistato generalmente presso altre abitazioni,
imparando i mestieri tipici che potevano essere svolti a domicilio,
primi fra tutti quelli legati all’attività tessile. Molte di loro
venivano sistemate in famiglie come domestiche per compiere lavori di
ogni tipo: lavare i piatti, fare le pulizie di casa o aiutare in
cucina. |
©2007 Andrea Moneti