LA MEMORIA DIMENTICATA |
a cura di Teresa Maria Rauzino |
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Il primo posto della X edizione del Premio letterario nazionale “Michelangelo” quest’anno è toccato ad Andrea Moneti, autore del romanzo 1527. I Lanzichenecchi a Roma (Stampa Alternativa, Eretica, 2005, pp. 297).
La giuria, memore che il primo romanzo di Moneti, Eretica
pravità, uscito per i tipi della Firenze Libri, e vincitore
della passata edizione, è stato
premiato con ben 11 premi letterari (fra cui il Mario Soldati e, ultimo in
ordine temporale, il Premio Italia Medievale 2005 per l’editoria) augura al «bravissimo
scrittore» una splendida carriera e altrettanti meritati successi. Dalle
motivazioni del Premio “Michelangelo” si rileva come 1527 sia «un romanzo storico, ottimamente scritto, di facile
lettura pur nella complessità, narrazione molto aderente alla realtà dei fatti
citati, con avvenimenti, località e date in perfetto ordine cronologico.
Cattura l'attenzione del lettore, portandolo a rivivere le vicende del passato
in un emozionante susseguirsi di immagini».
Leggendo il libro di Moneti, in effetti, si resta colpiti dalla “levità”
con cui l’Autore ha saputo tradurre una vicenda rigorosamente storica, il
sacco di Roma, in un testo di ampio respiro narrativo. Ma se è la storia
a connotare la tipologia testuale prevalente,
1527 vede
confluire in sé il ritmo del romanzo d’avventura, la suspance
del thriller, i temi psicologici del romanzo di formazione. Un mixage di generi narrativi
sapientemente dosati dall’Autore, che trascina il lettore in una lettura
coinvolgente, nel segno dei migliori romanzi che
sanno convincere ed avvincere dalla prima all’ultima pagina.
L’intreccio della vicenda parte da una missiva del
protagonista Heirich, che sarà la chiave di volta dell’intera vicenda. Il
tema è di quelli “impegnati”: la violenza della guerra, peggiore delle
sciagure. Cieca e disumana si abbatte come un maglio divino sulla città eterna
dove la vita è un’imponente lotteria, dove soltanto i più fortunati o i più
furbi vengono baciati dalla sorte, dove la lussuria e l’ipocrisia regnano
sovrane nella corte papale.
Il 6 maggio 1527, l’esercito di Carlo V tiene in scacco Roma,
mettendola a ferro e fuoco per nove lunghi mesi. Fra i 30mila o forse 35mila soldati, vi sono 12mila mercenari che si battono contro la
corruzione della Sacra Romana Chiesa in nome di una nuova fede: il luteranesimo.
A nulla servono le parole di Clemente VII che sprona i
suoi prodi a fermare gli invasori in nome di Dio. Ben presto il pontefice capirà,
nel chiuso della prigione di Castel Sant’Angelo, che
Dio non segue alcuna bandiera, nessun esercito. Dio non guarda mai cosa succede
sui campi di battaglia. Distoglie lo sguardo e lo volge altrove, lasciando gli
uomini a scannarsi tra loro.
Roma subisce un’immensa profanazione: i paramenti
sacri, gli ori, gli oggetti liturgici vengono rubati o gettati per strada, nel
fango e nel letame. Le bolle papali, le lettere e i registri dei conventi e dei
monasteri alimentano altissimi, mirati falò. Ovunque, in ogni rione, divampano
gli incendi e risuonano le grida delle donne stuprate, il pianto dei bambini
strappati alle madri, le urla dei soldati ebbri di furore. Molte fanciulle
vengono uccise dai loro stessi parenti per sottrarle all’onta del disonore.
Non c’è rispetto per nessuno.
La mattina del 7 maggio 1527 la città eterna si presenta
come una città morta. Non c’è luogo che non sia stato saccheggiato dagli
spagnoli e dai lanzichenecchi. I luterani, insieme ai marrani
e ai giudei che combattono con i tercieros
spagnoli, non hanno risparmiato alcun luogo di culto.
Oltre all’orrore per la guerra, emblematico degli
orrori di tutte le guerre, Andrea Moneti fa vibrare nei suoi personaggi i
sentimenti eterni dell’uomo. L’amicizia, la lealtà, l’amore rivivono nei
protagonisti, avvicinandoli al lettore, che impara ad amarli e a seguirli fino
allo scioglimento della vicenda, al
fatidico “The End”. Un finale che
ha un lieto fine, quel lieto fine che spesso è negato nei romanzi
contemporanei, e che invece Andrea Moneti riesce a sciogliere nel rispetto
dell’evoluzione dei personaggi, e in particolare di Heinrich, protagonista
della storia.
L’io narrante è alterno: passa da quello interno del
protagonista a quello del narratore. Un narratore discreto, che muove con abilità
la storia, anticipandola o posticipandola con l’uso sapiente della prolessi e
del flashback.
Il punto di vista dell’autore Andrea Moneti, che condanna
l’insensatezza di tutte le guerre, viene fuori dalla storia stessa, dai
dialoghi e dal flusso libero di coscienza del protagonista Heinrich. Costante
tema di fondo è l’inconciliabile contrasto, interno alla stessa Riforma
protestante, tra i seguaci dell’ortodossia luterana ed i seguaci di Muntzer,
trucidati dalle truppe armate dai principi per stroncare le rivolte contadine
scoppiate in tutta
Una brutta fine per le idee innovative della Riforma, che avevano
provocato una vera rivoluzione culturale. La predicazione contro le indulgenze,
la sfida aperta al papa in nome della libertà di coscienza,
avevano librato sulle ali del vento la fama di Lutero. Il monaco agostiniano non si era fermato qui. Aveva tradotto
Il sensibile e problematico Heirich, capitano
lanzichenecco sui generis, figlio di un nobile proprietario terriero, si
era sentito libero. Aveva messo a frutto l’insegnamento di Lutero. Era andato
oltre lo studio della Sacra Bibbia, aveva studiato all’università di Tubinga
la lingua ufficiale della “nemica” Santa Romana Chiesa. Una decodifica del
latino che aveva affinato il suo gusto, insegnandogli ad apprezzare la poesia di
Ovidio e di Orazio.
Heirich si era convinto, suo malgrado, a ripercorrere le
orme del padre, dedicandosi alle sue terre, ma dopo la precoce perdita della
giovane sposa (recisa dall’albero della vita da un dio beffardo), per sfuggire
all’abisso della solitudine, aveva scelto di dare una svolta alla sua vita.
Era diventato capitano di ventura. Una scelta che comincia a pesargli appena è
costretto dalla dura legge marziale a stroncare, senza pietà, la prima vita
umana.
La vita avventurosa, i facili guadagni, i saccheggi, gli
amori prezzolati cominciano a stargli stretti. La crisi, già latente, matura
durante il sacco di Roma. Heirich, entrato in San Pietro, che l’abbaglia per
la sua maestosità, quando posa lo sguardo sul pavimento macchiato di sangue, ha
un istintivo moto di disgusto.
Solo dopo una lunga serie di eventi tragici (riecheggia
nel romanzo l’inconfessata preghiera Domine,
libera nos a peste, fame et bello), il nostro eroe ritroverà finalmente se
stesso. La sua lunga crisi interiore avrà un epilogo. A riconciliarlo con la
vita, e forse con il suo Dio perduto, sarà Angelica, una
fanciulla che non ha avuto paura di lui, e lo ha accarezzato
con un sorriso durante il suo febbricitante delirio. Per Heirich, l’alba e
l’imbrunire ridiventeranno una cosa sola.
Come la vita e la morte, l’odio e la speranza…
L’AUTORE
Andrea Moneti, un ingegnere innamorato
della storia,
nasce nel 1967 ad Arezzo, dove vive. È un ingegnere gestionale, e si occupa di
organizzazione aziendale, logistica industriale, marketing di acquisti,
approvvigionamenti, qualità, relazioni industriali, etc. etc. Che barba,
direte! Non vi si può dar torto, ma è pur sempre meglio che lavorare in
miniera – confida
Andrea
Moneti ai visitatori del sito www.storiamedievale.net
- cui collabora con la rubrica sulle eresie
medievali.
Moneti risponde alle eventuali, possibili domande su come
un ingegnere possa scrivere e parlare di Medioevo: «Forse l’unica spiegazione
di questa bizzarra alchimia è che, essendo nato e vissuto da sempre in una città
e in una regione dove il Medioevo lo si respira passo dopo passo - sasso dopo
sasso - ne è proprio intriso: con una predilezione per i movimenti ereticali
dei secoli XIII e XIV, catari e apostolici in testa».
La sera, quando torna a casa, Andrea Moneti si sveste dai
panni dell’ingegnere, tanto attillati per tutta la giornata. Vede in
televisione il deserto, il pressappochismo e il politichese inutile, fastidioso,
dei governanti nostrani (governo e opposizione, senza distinzioni). E pensa: «I
secoli bui mi sembrano molto meno bui», concludendo come Cecco Angiolieri: «S'i'
fosse fuoco, arderei 'l mondo... ma le zoppe e vecchie lasserei altrui».
©2005 Teresa Maria Rauzino. Articolo pubblicato il 6 settembre 2005 su www.capitanata.it.