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       LA MEMORIA DIMENTICATA

a cura di Teresa Maria Rauzino


  


L’articolo di Matteo de Monte fu pubblicato sul quotidiano «Il Messaggero» il 16 gennaio 1974, in terza pagina

 

Matteo de Monte

      

Era una serata tiepida, sul finire del giugno 1940. La guerra, scoppiata da pochi giorni, a Foggia non aveva ancora portato lutti e distruzioni: la gente passeggiava tranquilla sotto i lecci del viale della stazione. Al cinema Cicolella davano «Luciano Serra pilota»; squadre di elettricisti, con le scale a snodo, andavano schermando di azzurro i lampioni dell’illuminazione elettrica. In giacca di lustrino e pantaloni a righe, Benedetto Croce, seduto al tavolino di un caffé, conversava  con l’ingegner Raffaele Tramonte. A quell’ora, fra il lusco e il brusco. Amava scendere in strada per affrancarsi delle fatiche mattutine e con una spremuta d’arancio e una boccata di «terranello».

Don Benedetto calava sovente in Puglia da Sorrento, per sistemare l’intricata questione dell’appoderamento della sua proprietà terriera che ancor oggi è quasi tutta nella Daunia. In quelle mattine di gran confusione, animate dai giornali radio e dai «bollettini dal fronte» diffusi dagli altoparlanti, qualche minuto dopo l’apertura degli uffici, si vedeva apparire nei corridoi della prefettura e del Catasto il suo panama color lino grezzo e subito, fra le persone accodate agli sportelli, correva la voce: «E’ arrivato il Senatore!».       

Croce, a Foggia, era di casa; gli volevano un gran bene, anche se a volte si mostrava arcigno e scontroso. «Temperamento difficile», dicono i fratelli Sarti, «ma cuore limpido; un brav’uomo, e un gran signore». Il filosofo scendeva sempre all’hotel Sarti, poiché intendeva conservare la sua libertà di movimento e non voleva dar fastidio agli amici. La stanza «sette», in fondo al corridoio del «rialzato» veniva preparata in fretta, quando lui arrivava. E se c’erano inquilini dovevano sloggiare; era nei patti. Don Benedetto la considerava cosa propria, una sorta di «buen retiro», perché aveva una vasca da bagno enorme, con la rubinetteria dorata, come usava a Napoli, e le finestre affacciavano in un cortiletto pieno di gatti, ma lontano dal rumore delle «carrozze  fracassone» che allora rotolavano sull’asfalto giorno e notte, dalla Ferrovia al piano delle Fosse.

I facchini – qualcuno ne è rimasto – ricordano la sua pignoleria, bonaria ma intransigente. Non appena entrava in albergo contava le valigie, numerandole col dito, come si fa con le pecore; consegnava il tesserino di parlamentare chiuso in un astuccio di pelle, e subito chiedeva al vecchio portiere Serafini: «Guidù, è libero il sette?». E Serafini, profondendosi in grandi inchini: «Liberissimo eccellenza, liberissimo e sempre a disposizione».

Queste attenzioni a Croce piacevano; ma non gli impedivano di fare il diavolo a quattro se mancava l’acqua calda nei tubi o le donne strepitavano per i  corridoi, di prima mattina.

Nella vecchia ala dell’albergo foggiano il «sette» di Don Benedetto è stato restaurato di recente; ora ha le pareti di tinta lavabile, al posto del vecchio braciere d’ottone c’è il termosifone a nafta, anche lo scaldino è scomparso; ma la vasca è rimasta; è ancora quella immensa, «sterminata, dove faceva il bagno il filosofo. Mancano soltanto i rubinetti dorati; e le vecchie borchie un po’ arrugginite ai cassetti della “fratina”, messa di lungo dinanzi alle tende della finestra.

Anche quella mattina di giugno Croce aveva avuto il suo da fare tra progetti, mappe, sopralluoghi in campagna e formalità burocratiche da sbrigare di ufficio in ufficio. La «Balilla» di Tramonte era andata su e giù per ore da un capo all’altro della città, con l’illustre vegliardo a bordo. Sicchè il riposo vespertino era più che meritato. Ma era scritto che il senatore non dovesse chiudere in pace quel 19 di giugno. Al tramonto una carrozzella da nolo si fermò sul viale, e ne scese un signore trafelato, con una grossa borsa di cuoio e al paglietta sotto braccio. Era l’editore Giovanni Laterza, giunto da Bari con il diretto della sera, latore di una notizia non troppo confortante. L’ingegner Tramonte ricorda che il  fedele amico di Croce non pronunciò parola, né fece un solo cenno di saluto. Accasciatosi su una sedia, Laterza tirò fuori dalla borsa un telegramma, e in silenzio, lo squadernò sotto gli occhi del filosofo. Il messaggio, firmato da Bottai, allora ministro alla Educazione nazionale, annunciava la soppressione della “Critica”, giustificando il provvedimento con al necessità di limitare, date le circostanze, il numero delle riviste».

Don Benedetto non perse la calma,  «Prima o poi – disse – C’era da aspettarselo».  E rivolto a  Laterza, ancora emozionato e pallido: «Ma tu, amico mio, non te la prendere così: non vorrai che assistiamo al tuo funerale insieme a quello della “Critica”» e gli batté una mano sulla spalla, abbracciandolo commosso. Fosse l’idea del duplice funerale o l’amarezza celata nelle parole dell’amico, certo è che l’editore sbottò inviperito:  «Qui non dobbiamo rimanere con le mani in mano; qualcosa bisogna far, la “Critica” non deve sparire così: è un sopruso bello e buono. La rivista non si occupa di politica, discute problemi filosofici e con la guerra non ha niente a che spartire. Bisogna protestare, senza perdite di tempo». Croce era imperturbabile. Col progetto della protesta vennero in tavola i bicchieri d’anice e cominciò l’immancabile bisticcio fra l’editore e il filosofo. Laterza voleva ad ogni costo che Croce si recasse da Bottai per ottenere la revoca della disposizione. Don Benedetto nicchiava: «Ma quando mai! Io da Bottai; e perché non da Mussolini? Mai visti da vent’anni questi signori, e ora sia pure per salvare la “Critica” dovrei levarmi il cappello. No, caro amico, questo è affar tuo; io non mi impiccio: Mi spiace, ma da Bottai non ci vado e poi ho da fare, anche volendo non posso muovermi, c’è la proprietà da sistemare, la terra, i raccolti».

Benedetto Croce

E difatti non si mosse. Dal caffé della Stazione la questione fu portata, ancora insoluta, nel vecchio salotto di Tramonte e qui, dopo un paio d’ore, finalmente il senatore si lasciò convincere a scrivere di proprio pugno una lettera indirizzata «all'amico Laterza», che poi l'editore avrebbe trasmessa al Ministro dell'Educazione nazionale. Appartatosi nello studio del suo ospite, in meno di dieci minuti, don Benedetto buttò giù lo scritto che riportiamo: un documento quasi inedito.

«Mio caro, ricevo la vostra comunicazione che la “Critica” è soppressa per limitare nelle attuali contingenze il numero delle riviste. E poiché la comunicazione è fatta a voi, a voi invio, perché comunichiate - a vostra volta - la mia risposta, che è una doverosa protesta. Per trentasette anni e mezzo la "Critica" ha esercitato un’assidua opera per la formazione e l’applicazione di un metodo moderno e scientifico negli studi di filosofia, storia e letteratura, e per contribuire a, togliere alla cultura umana quel che di chiuso e provinciale le rimaneva. Gli effetti di questa opera si  vedono dappertutto nella produzione filosofica, storica e letteraria, né solo in quella italiana, presso studiosi delle più varie tendenze politiche e religiose. Era mio proposito continuare a lavorare in questa parte per la quale possedevo speciale attitudine coltivata da lunga esperienza, fino a che la legge di natura avesse chiuso la mia vita o mi avesse privato delle forze necessarie.La soppressione ordinata anticipa questo termine, che non era poi lontano; e a me duole, non per me medesimo, ma per gli studiosi italiani ai quali speravo di rendere ancora qualche servigio. Certo non  mi nascondo che la mia rivista è di uomo rimasto fedele (né poteva altrimenti per ragioni di coscienza con la quale non si transige) agli ideali che aveva appreso ad amare nella sua giovinezza, e che non sono quelli che dominano nel nuovo tempo della storia italiana ed europea. Ma la “Critica” non è una rivista politica e perciò non è intervenuta nelle cose politiche propriamente dette come tali che uscivano dai confini del suo programma, a discutere per esempio di legislazione, di economia, di guerra, di alleanze e simili, e ha contenuto le sue discussioni e polemiche nella severa cerchia teorica delle idee. Se qualcosa io ho dovuto dire o fare come cittadino, nella  politica attiva, l’ho detto e fatto in altra sede: cioè nei giornali politici quando ciò mi era possibile, o nel Senato del Regno. Tanto che per lunghi anni questa rivista non ha dato mai luogo a sequestri o a sospensioni; e la presente soppressione è giunta inattesa e immotivata. Per il danno che da essa viene agli studiosi italiani e per la mancanza che ne risentiranno molti studiosi che anche quando dissentivano, traevano indirizzo, aiuto e informazioni dalla lettura dalla “Critica”, ho dunque il dovere di fare questa protesta, quale che possa essere la sua sorte».

Tramonte trascrisse a macchina la missiva che venne poi consegnata a Laterza.

L’originale, naturalmente, è rimasto fra i cimeli del professionista pugliese. In verità gli effetti della lettera di Croce  non si fecero aspettare. Bottai, venutone in possesso, partì per Torino dove in quei giorni si trovava Mussolini, e sollecitò caldamente la revoca della soppressione della rivista. Il Ministero dell’Educazione nazionale veramente era contrario fin dall’inizio al provvedimento, e seppe parlare in tal modo a Mussolini da indurlo a più pacati pensieri. Gli argomenti di Bottai erano semplici: egli accennò alle ripercussioni negative che un gesto di intransigenza nei confronti di Croce avrebbe avuto nel mondo culturale italiano e internazionale, in un momento politicamente difficile come quello che si stava attraversando.

La settimana successiva, Laterza ritornò a Foggia con un secondo telegramma del ministro. Riuscì a rintracciare Don Benedetto fra le sue scartoffie notarili, e tiratolo fuori dalla paccottiglia delle carte bollate, gli comunicò la buona notizia: «La “Critica” esce di nuovo. Abbiamo vinto». Ci fu un pranzo, con cefali e vino bianco, da “Peppino u’ Monaco”. E la cultura italiana tirò un sospiro di sollievo.

  

Matteo de Monte

(a cura di Giuseppe Maratea)

Matteo de Monte (Cagnano Varano 1920-Foggia 1984) entrò al «Messaggero» nel 1939. Era stato una scoperta di Francesco Maratea, pontifex maximus del giornalismo dell’epoca, e questo titolo lo faceva apparire come l’eletto destinato alla grande carriera. Bisogna collocare la figura di de Monte in un «Messaggero» profondamente diverso da quello di oggi: un giornale padronale, tradizionalista, i corridoi silenti, l’obbligo della giacca e della cravatta, la preponderanza degli anziani.

Nel 1956, in quella redazione simile a un club londinese, arrivò la notizia che de Monte era rimasto intrappolato a Budapest, in seguito all’entrata dei carri armati sovietici in Ungheria, nella stessa stanza dell’Hotel Duna con Indro Montanelli e Matteo Matteotti.

Poi, de Monte uscì dall’Ungheria, si fermò a Vienna e di lì telefonò il “servizio”: un articolo sterminato che dilagava in prima pagina e continuava nell’interno.

Il direttore, Sandro Perrone, volle fare uno strappo alla  regola, e per la prima e ultima volta nella storia del giornale, fu pubblicata la fotografia dell’autore dell’articolo.

De Monte ha avuto come maestri Francesco Maratea e Mario Missiroli. Ha viaggiato in Africa, Asia, Europa e America, in occasione di grandi avvenimenti della cronaca e della politica; dalla rivoluzione d’Ungheria al Congo, dalla crisi di Peron ai fatti militari di Algeria e delle Antille, fino agli ultimi avvenimenti dell’occupazione sovietica di Praga e della guerra tra Arabi e Israeliani.

Ha vinto il “Premio Marzotto”, il “Bagutta”, il “Premio Internazionale Roma”, il “Premio per la difesa della Natura” del CNR. Giornalista colto, scrittore raffinato, elzevirista delicato, ha collaborato a numerose riviste e alla TV, portandosi, dovunque andasse, sempre il Gargano “dentro”. 

   

   

   

©2007 Teresa Maria Rauzino.

    


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