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       LA MEMORIA DIMENTICATA

a cura di Teresa Maria Rauzino



Il bersagliere Giuseppe Carli cadde il primo giugno 1915. Quindici giorni prima aveva scritto a casa, a Barletta

Bersaglieri in trincea durante la Prima Guerra Mondiale.

   

La calligrafia è curata. Il linguaggio - corretto e scorrevole - appare più maturo di quello che ci si aspetterebbe da una ragazzo di diciannove anni: c’è la nostalgia, il dolore, il legame con la terra, la consapevolezza di quello che sta succedendo, la rabbia per la vita grama dei genitori, che vivono nella campagne di Barletta. E si respira il clima della vigilia del massacro che si consumò nel corso della Grande Guerra, ove anche l’autore stava per lasciare la vita, 89 anni fa. Una testimonianza riemersa nei giorni scorsi, mentre Pasquale Conte - medico dentista originario di Bari ma residente a Milano - stava sfogliando per caso un Bibbia ottocentesca, uno dei libri ereditati dal nonno materno, Michele De Pascale, medico pure lui, scomparso nel 1936 a tarda età, dopo una vita dedicata alla professione e alla cultura, proprio a Barletta.

La lettera firmata dal bersagliere Giuseppe Carli, che pubblichiamo, è scivolata fuori da quelle vecchie pagine. Non sappiamo perché De Pascale l’avesse ricevuta, dato che era indirizzata al padre di Carli. Di certo, quella lettera ha, come d’incanto, reso attuale e viva una storia consumatasi durante le prime battaglie che le truppe italiane ingaggiarono con l'esercito austroungarico. Chi era quel soldato? 

Era nato a Barletta il 16 febbraio 1896. Aveva appena diciotto anni, quando, nel 1914, mentre frequentava il terzo anno della scuola di ragioneria, interruppe gli studi per arruolarsi nell'11˚ Reggimento dei bersaglieri come allievo sergente. L’anno successivo fu trasferito, con quel grado, al 12˚ Reggimento, IV compagnia, 23˚battaglione. Finì al fronte, tra disagi, senza cibo sufficiente, senza neppure le poche lire necessarie per farsi scattare una fotografia da mandare a casa. Cadde aMrzly, oggi in Slovenia, il 1˚ giugno 1915, una quindicina di giorni dopo l’invio della lettera. Quel primo giugno accadde ciò che raccontano le cronache militari d'allora:

«Un manipolo di una quindicina di giovani s’avvia, primo fra tutti il sergente (Carli) ... e va avanti… una scarica di fucileria e poi un’altra, fuoco intermittente, continuato, insistente. Un proiettile gli raggiunge il braccio sinistro, poi la spalla. "Coraggio… coraggio, a momenti saranno qui i nostri". Il manipolo si assottiglia mentre da lontano spuntano i soccorritori. I suoi movimenti sono pesanti e pur accasciato continua a far fuoco fino a quando altri due proiettili lo colpiscono al petto. "Non vi curate di me.. andate, andate...". I soccorsi erano arrivati e il nemico era ricacciato. Il comandante si chinò sulla salma. "Eccolo il vostro sergente che ha dato la vita alla Patria. Inginocchiatevi bersaglieri e ispiratevi a lui per essere degni figli di questa Italia"».

All’epoca si fantasticava di una guerra-lampo. Quindi occorreva sfondare. Il racconto della battaglia in cui cadde Carli lo troviamo nel sito «Fiamme cremisi» (http://digilander.libero.it/fiammecremisi/index.htm), dedicato ai bersaglieri. Anche il reggimento di Carli il 24 maggio oltrepassò la frontiera e si schierò lungo l’Isonzo. Le cime sovrastanti - tra cui il il Monte Nero, 2300 metri - erano presidiate dagli austroungarici. Il 12˚Reggimento bersaglieri - agli ordini dell’VIII divisione del IV corpo d'armata e accampato a Luico - fu allertato per dare eventuale appoggio all’azione di alpini e fanti contro il Monte Nero. Da Luico alla base del Mrzly, oltre l'Isonzo, c’erano cinque chilometri. L'attacco fu disastroso. Non restò che la ritirata. Il 1 giugno alle 9 il colonnello Eugenio De Rossi si pose alla testa dei bersaglieri, degli alpini e dei fanti per raggiungere Volarje, ai piedi del Mrzli. Iniziarono l'ascesa. Alle 18 si scontrarono con il nemico. Alle 20 avevano conquistato parte delle trincee di quota. E il sergente Giuseppe Carli, per fermare una postazione di mitragliatrice, si lanciò all’assalto: fu colpito una prima volta, si rialzò, continuò la sua corsa e fu colpito altre due volte, prima di morire. «Sembrava che nulla potesse arrestare lo slancio di quei diavoli», dirà un ufficiale austriaco. Così quel ragazzo di Barletta si guadagnò la prima medaglia d’oro attribuita a militari italiani durante la Grande Guerra.

Nella lettera non mancano i riferimenti agli avvenimenti politici di quel periodo. Era diventata inevitabile la rottura, da parte italiana, della Triplice Alleanza con tedeschi e austriaci, in seguito al «Patto di Londra», stipulato segretamente con Inghilterra, Francia, Russia: in caso di vittoria l'Italia avrebbe ottenuto il Trentino e Trieste, l'Istria, la Dalmazia, Valona e altri territori. Però occorreva convincere il parlamento, con una maggioranza giolittiana, ovvero neutralista, ad entrare in guerra. Tante furono le manifestazioni interventiste durantele «radiose giornate di maggio»; e alla fine il re Vittorio Emanuele III e il premier Antonio Salandra, con uno stratagemma, riuscirono nell’impresa. Salandra dette le dimissioni e al suo posto fu convocato l’ex premier Giovanni Giolitti. È alla vigilia di questo repentino avvicendamento che Giuseppe Carli, scrivendo la lettera, accennò alle voci secondo le quali sarebbe tornato al governo «quella testa matta di Giolitti». Ma quest’ultimo, appresa parzialmente l’esistenza del patto di Londra, rifiutò l’incarico.

Allora il re respinse le dimissioni di Salandra, il governo ebbe poteri speciali e il 24 maggio 1915 l’Italia dichiarò guerra. Nove giorni dopo il sergente Carli da Barletta, per nulla ingenuo sulle cause del massacro che stava per compiersi nella guerra del 15-18, morì eroicamente. Ci ha lasciato un'antica testimonianza. Antica ma attuale: sembra rappresentare tutti i giovani soldati del mondo, anche quelli dei nostri non facili giorni.

  

IL TESTO

Azzida, 14 maggio 1915. Non farla leggere a estranei.

Carissimo padre
A voler dire la verità ho dovuto attendere sino ad oggi per poterti scrivere. Ho mandato a mezzo di un caporal maggiore di Canosa che era con me e che poi è venuto a Barletta un bigliettino diretto a mio fratello perché giusto come mi aveva scritto doveva ritornare da Minervino il giorno 3 mentre poi non è ritornato. Non ho potuto scrivere prima perché sin dalla settimana scorsa siamo stati a lavorare sui monti a fare le trince e le strade di comunicazione perché questa povera regione era ed è ancora priva di strade. Essendo stati in montagna, alla mensa non abbiamo più potuto convivere e perciò abbiamo dovuto mangiare con quelle 2 lire che ci danno di paga. Figurati, non avanzava nemmeno un soldo e non si era mai soddisfatti perché i viveri vanno molto cari. Basti dire che il pane costa ad 80 centesimi al chilo, e poi è pane nero, poco cotto come la pasta. Un piatto di riso fatto così alla buona ci costa L. 0.40, una bistecca L. 0,50. Figurati se le 2 lire bastano al giorno a voler mangiare, limitatamente 2 volte al giorno.

Di conseguenza poi, benché avrei potuto fare una scappatina a Cividale per farmi le fotografie, non ci son potuto andare perché senza un soldo. Non dico che io volessi richiedere questa grossa somma di denaro, per andare a Cividale, mi basterebbe anche 5 lire per farmi le fotografie. Mi potrai dire che non si sa di dove prenderle. Si ma quella gran buona mamma potrebbe dare una cinquantina di soldi, la nonna potrebbe dare una liretta, tu volendo, sacrificandoti potresti metterci qualche altro soldo e anche a non voler spendere, 0.40 per spedirle a mezzo raccomandata, potresti metterle in una lettera regolare, ben chiusa, con un indirizzo chiaro, e la busta della lettera piuttosto di carta opaca, perché mi arrivino lo stesso con la semplice spesa di cent. 10. Volendo potresti mandarmeli facendo un sacrificio enorme.

Per i fatti successi in Libia è probabile che le nostre compagnie mandino dei rinforzi in Tripolitania. Lì ci sarà bisogno di sottufficiali io vi farò domanda di andarci perché qui mi son seccato veramente di stare. Forse ed è probabile che il giorno 20 andiamo via da Azzida e andremo sopra un monte coperto di neve, il più alto e si chiama Matajur sopra il quale passa il confine. Là poi non ne parliamo di poter andare a Cividale perché c’è la distanza di 34 Km. perciò allora sarà impossibile farmi le fotografie. Noi qui abbiamo saputo che l’onorevole Salandra sta facendo le sue dimissioni dal potere, e si dice che verrà quella testa matta di Giolitti. Sarà certo un bello sconvolgimento al Senato, ma per conto mio e a parere di tutti quanti ne siam qui, la guerra si deve fare se non per volontà della nazione poiché l’Austria sarebbe disposta a cedere un bel tratto del Trentino, della Gorizia sino all’Isonzo e due isole della Dalmazia che non sono propriamente quelle richieste dall’Italia, ma la guerra la deve fare per poter affermare i suoi diritti ed anche perché è obbligata dall’Inghilterra che sin ora ci ha fornito tutti i mezzi. Poi lo scopo di questa guerra non sarebbe limitato alla semplice richiesta di quel territorio, ma essa ha l’obbiettivo pure di disfare, di annientare, di distruggere la Germania e l’Austria.

Questo è proprio lo scopo della guerra europea, se non fosse questo il fine, l’Inghilterra nemmeno sarebbe stata una nazione belligerante, la pace europea da quanto tempo si sarebbe fatta. Il resto, tutte quelle cose che si dicono, son tutte chiacchiere, sono semplicemente voci che corrono col vento; ma quello è il fine di questa guerra, e l’Italia è anche essa obbligata alla partecipazione. Questa mattina mi è arrivata una lettera di mio fratello la quale mi annunzia che sei ammalato. Che cosa hai? Nientemeno che non mi fai sapere niente, e poi da casa non me lo potevano scrivere? Fammi sapere qualche cosa. È da un anno e tre mesi che sto fuori casa, e quant’anche ci siamo scritti, non son riuscito a sapere niente della particolarità di famiglia. Perché questo? Perché non dirmelo? Così anche di mio fratello, non ne ho saputo mai di quel che ha combinato.

Tutti i giorni, qui da parecchi bersaglieri richiamati vengo a conoscenza di tante piccole cose a me veramente ignorate e che nemmeno da me solo potevo immaginare. La mia famiglia è quella stessa di prima? Non ha fatto nessun cambiamento? è ancora la stessa babilonia? Son cose veramente incredibili; io non son di convincermi; son persuaso che sia proprio così. Io non lo so; ancora in campagna state ad abitare? Come gli arabi? Non vi sentite privati di un po’ di decoro personale? Come mai che la mia famiglia è ridotta così proprio ai minimi termini, proprio al di sotto di quelle di origine cafonesche? L’abbiamo un po’ d’amor proprio? Mio fratello Vincenzo non è come prima, un lazzarone? E Giovanni non sarà peggio di Vincenzo? Scommetto che quegli non saprà nemmeno scrivere il suo nome e cognome perché si vedeva che era il più svogliato, e anche perché non gli saranno stati dati tutte le cose necessarie per un bambino. Che fa? Si ricorda di me, scommetto che no. Forse non saprà nemmeno che oltre a Gaetano, a Vincenzo, abbia un altro fratello quale sono io. Questo poi non solo si estende su Giovanni, ma a tutto il resto della famiglia che non sa che anch’io ci sono tra i viventi su questa terra. Non continuo più perché come si vede mi viene a mancare anche la carta. Non faccio altro che salutare tutti e tu abbi i miei abbracci.

Tuo figlio Giuseppe

Fammi sapere tutto ciò che ho domandato e scrivimi presto. Se puoi spedirmi un cinque lire, mandamele subito se no nemmeno le fotografie mi posso fare».

   

  

©2005 Marco Brando; articolo pubblicato su «Corriere della sera - Corriere del Mezzogiorno» del 25/03/2004.

      


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