LA MEMORIA DIMENTICATA |
a cura di Teresa Maria Rauzino |
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Le antiche e suggestive tradizioni garganiche documentate da Giovanni Tancredi e Angela Campanile. Tra gli "scherzetti" dei bimbi e (belle) preghiere.
DMonte Sant'Angelo: campanile della chiesa di San Michele, fatto costruire da Carlo I d'Angiò (II metà XIII secolo).
Giovanni Tancredi, nel volume Folclore garganico, pubblicato nel
1938, dedica una bella pagina alla festa di Ognissanti e al giorno dei Morti.
Esordisce dicendo che sulla sommità del Monte Gargano, tutta la natura sembrava
partecipare all’evento: un sole smorto e le prime nebbie avvolgevano i monti e
la città di Montesant’Angelo, mentre le foglie gialle e rossicce si
staccavano dai tronchi e frusciavano sulla terra brulla ai primi soffi di vento
gelido.
Un quadro d’insieme completato dal volo di uno stormo nero di
cornacchie, che si alzavano pigramente e si disperdevano nell’aria, emettendo
un rauco funebre grido.
Le donne del popolo “montanaro” il 1 novembre, giorno di Ognissanti,
per devozione alle anime dei morti, lessavano nel latte delle piccole quantità
di grano e granturco, condendone i chicchi con il vincotto di fichi.
La festa si connotava per l’attesa dei doni dei morti. Nella notte che
precedeva il due novembre, i bambini di sette, otto anni appendevano una calza
nella cappa del camino oppure dietro la porta dell' uscio, le imposte dei
balconi e delle finestre. Credevano che i morti, tornati dall’oltretomba, dopo
aver vagato qualche ora per il mondo, scoccata la mezzanotte, si sarebbero
fermati anche nella loro casa per esaudire i loro segreti desideri. La credenza
era puntualmente confermata dai fatti. Durante la notte, effettivamente, la
calzetta si riempiva di ogni ben di Dio: fichi secchi, castagne, noci, ceci
arrostiti, mele, melacotogne, e talvolta anche di dolci e giocattoli. I morti
incutevano ai bambini un po’ di paura, specie prima addormentarsi, pur
tuttavia la tetraggine del nome non impediva loro di addentare una mela, di
sgranocchiare una cialda, di rompere una noce, anzi. Il senso di mistero
accresceva il valore di quei doni.
La Festa dei Morti si connotava per il clima gioioso che i bambini
creavano nelle vie del paese, bussando a piccoli gruppi, di porta in porta, alle
case di parenti e amici. Non dicevano, come oggi: «Dolcetto o scherzetto», ma un perentorio «Damme l'anima dli murte», cui di solito si
ribatteva: «e sott la cammise che purte» (e sotto la camicia che porti?). «Lu
veddiche» (l’ombelico). «E crematine tlu diche» (te lo dirò domani
mattina).
La festa veniva vissuta con partecipazione anche dagli adulti, specie i
più poveri. Il due novembre, andavano questuando per le vie e in qualche casa
signorile. I benestanti facevano loro distribuire il pane dei morti. Un monaco,
l'asceta Antonio Ricucci (soprannominato Infernale) quel giorno usciva con la
bisaccia bianca ricolma di pane, per distribuirlo ai bisognosi che morivano di
fame.
Tancredi ricorda che spesso i bambini, mai sazi delle inusuali
leccornie, mettevano la calza anche la sera del due novembre, però quando il
giorno seguente andavano a frugare vi trovavano soltanto cortecce di frutta,
miste a carboni. Gli si faceva credere che i morti non amavano i piccoli troppo
golosi.
Man mano che crescevano, i ragazzi più smaliziati perdevano il fascino
«dla calezett» quando si accertavano che non erano i morti a visitare le case,
ma i regali erano preparati dalla mamma, dal babbo, dai nonni; tuttavia si
guardavano bene dal togliere ai fratellini minori la bella illusione in cui
avevano creduto anch’essi, cercando di prolungarla il più possibile. In
effetti, i tempi erano magri, ma non vi era bambino che restasse deluso e senza
regalo; tutti i genitori, anche i più poveri, avevano cura di far felici i loro
piccoli.
Tancredi encomia il regime fascista, che ha introdotto la festa della
Befana anche al Sud: «Prima ai nostri bambini ricchi e poveri non pensava la
Befana, prodiga vecchierella dispensatrice di regali ai bimbi di altre regioni,
nella notte del sei gennaio, ma erano le anime dei morti che nella notte ad essi
destinata scendevano giù per i fumaiuoli e risalivano per la stessa via nera ed
angusta. Ora ai nostri fanciulli poveri pensano molto provvidemente le Opere
Assistenziali volute dal Duce».
Nella città dell’Arcangelo, anticamente, nel giorno dei morti,
precisamente nella chiesa della SS. Trinità attigua all'ex convento delle
Clarisse, veniva eretto uno scheletro umano dinanzi al quale la gente rimaneva
atterrita, avvilita. Lo scheletro era posto a destra dell'entrata ed era uno
spauracchio per tutti, specie per i bambini. «La classe predominante –
conclude Tancredi – educava così il popolo che passava la vita preoccupato
solo del futuro».
Nel volume Peschici nei ricordi, Angela Campanile (ricercatrice
del Centro Studi Martella) ci conferma questo aspetto “monitorio” della
festa, vissuto in tutti i paesi del Gargano. Dal giorno di tutti i Santi fino al
giorno 7 novembre, nella chiesa del Purgatorio si cantava la “Settena dei
Morti”. Era una preghiera che le anime dei morti innalzavano con mesti lamenti
per farsi ascoltare dai vivi, affinché non smettessero mai di pregare per
salvarle: «Siam alme purganti,/straziate sì forte/ch’è peggio di morte/il
nostro penar. Immerse nel fuoco/ahi quanto soffriamo!/Soccorso cerchiamo./Aiuto,
pietà!».
Le anime erano collocate nel Purgatorio, un carcere, un’oscura
prigione, un mare di fuoco, dove l’arsura le bruciava. Soffrivano le pene
dell’Inferno: «Oscura prigione/È nostra dimora / l’arsura tuttora / ci
brucia quaggiù».
Ma i morti temevano soprattutto l’oblio e la dimenticanza: «Che pena
crudele / l’oblio soffrir/ Che strazio sentire / del cielo l’amor!».
Le preghiere ed i suffragi da parte dei vivi servivano affinché le
anime benedette del Purgatorio potessero “rinfrescarsi” («ci putèssine
addifriscà»): «Amici spezzate/ le dure catene!/ Lenite le pene/ col vostro
pregar!».
L’invocazione era poi rivolta alla Madonna: «O Madre di Grazie,/ deh,
prega per noi!/ Salvaci, tu puoi, dal divo rigor!», e agli Angeli: «Alati
Messaggeri/ dal Cielo scendeste/ le porte schiudeste/ di nostra prigion!». Si
scioglieva nella preghiera finale rivolta al «Cuore Sacratissimo di Gesù»
affinché le accogliesse in cielo, dove insieme agli sfavillanti cori angelici,
avrebbero cantato in suo onore degli inni di lode e di amore. Per l’eternità.
Infatti il Paradiso era davvero «una bella cosa» recitava un’altra
preghiera di Peschici. Chi aveva la fortuna di arrivarci, dopo una vita di
stenti e di duro lavoro, andava finalmente a godere il giusto premio:
«U paravèise / jè na bella càuse / Chi ci va / ci va a ripàuse».
©2007 Teresa Maria Rauzino. L'articolo è stato pubblicato sul quotidiano «L'Attacco» dell'1 novembre 2007.