LA MEMORIA DIMENTICATA |
a cura di Teresa Maria Rauzino |
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Il dramma dell’ultima razza cavallina italiana sopravvissuta ad un’autentica ecatombe.
Mauro Aurigi, senese, sessantacinquenne, ex responsabile del Credito Agrario del Monte dei Paschi di Siena, è un estimatore e conoscitore della razza cavallina della Murgia, della quale ha approfondito la ricerca storica ed alla quale ha dedicato una nutrita serie di articoli sulla stampa specializzata, nonché un robusto contributo alla sua diffusione.
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Murgese da falconeria
(foto M. Aurigi).
Fu il provincialismo dei Savoia e il loro complesso di inferiorità verso le maggiori case regnanti d’Europa, come quella inglese, austriaca o prussiana, a determinare la scomparsa di tutte le razze cavalline italiane, fino ad allora le più pregiate e invidiate: in meno di un secolo le fecero tutte inghiottire dagli incroci con le razze inglesi o teutoniche. Che queste ultime, dal purosangue inglese (Enrico VIII d’Inghilterra nel primo Cinquecento) al celeberrimo lipizzano (Giuseppe II d’Asburgo alla fine del Settecento), fossero state tutte costituite con l’apporto determinante di sangue di cavalli italiani, soprattutto meridionali, la dice lunga sulla qualità delle nostre razze pre-unitarie e sul livello culturale di quella nostra casa regnante. Valga per tutte la dichiarazione di un testimone d’eccezione: Goethe, in tutto il suo Viaggio in Italia tra 1700 e 1800, ossia in un mondo ancora immerso nella cultura del cavallo quale unico mezzo di trasporto terrestre, non spende mai una sola parola per i cavalli in generale o per un cavallo in particolare, tranne una volta quando, giunto nel nostro Meridione, davanti allo splendore degli equipaggi e delle cavalcature della nobiltà partenopea scrive: «Mai mi ero commosso davanti a un cavallo … mai visti cavalli più belli».
Ma a partire dalla metà dell’800 e in meno di cento anni, lo Stato unitario, che per via dell’uso militare del cavallo era l’assoluto dominatore del mercato, ha provocato la scomparsa di quello straordinario patrimonio genetico, grazie alla sostituzione degli stalloni di razze italiane con quelli nord europei. è sintomatico che i residui stalloni italiani approvati, prima della loro definitiva scomparsa dagli elenchi, non venissero più indicati col nome della rispettiva razza, ma con quello più generico e – mi viene da pensare – sprezzante di “indigeni”. L’operazione fu chiamata, senza ombra di ironia, e si chiama, perché quella cultura imperversa ancora, miglioramento. Qualche resistenza ci deve però essere stata. Almeno un generale, il grossetano Tommaso Bruschini, nella seconda metà dell’800 criticò quell’operazione. Sosteneva infatti, ed a ragione, che gli esiti erano devastanti: gli incroci perdevano la nevrilità, l’intelligenza e la rusticità tipiche delle razze italiane. E a proposito della rusticità, ossia della frugalità e della resistenza a intemperie e malattie, ci ricorda che la mortalità per malattia dei cavalli europei nella guerra di Crimea nel 1855 (il Piemonte vi partecipò con 4500 cavalli) fu del 33% per gli inglesi, 27% i francesi e 11% gli italiani.
Tanto per capire cosa abbia significato quel “miglioramento”
basti sapere che ogni razza italiana “migliorata” è oggi praticamente
rifiutata dal mercato nazionale, quasi interamente dominato da cavalli
stranieri, e assolutamente sconosciuta all’estero, dove si ritiene addirittura
che l’Italia non abbia più cavalli autoctoni. La morale della favola è che
insieme al patrimonio genetico equestre nazionale è risultata distrutta anche
la cultura del cavallo che, com’è ovvio, era anche la più avanzata dell’Occidente.
è così che il nostro Paese, maggior esportatore di
cavalli di pregio del mondo fino all’inizio del 1800, ne è oggi diventato il
più grande importatore: 150.000 capi annui per 120-130 miliardi di lire, contro
meno di un migliaio di capi esportati per 3-4 miliardi (i dati sono di qualche
anno fa). Insomma ogni anno versiamo nelle tasche degli allevatori dell’estero,
e quindi li sottraiamo agli allevatori italiani, ben più di 100 miliardi. Che
circa la metà dei cavalli importati figuri come “da carne”, è ininfluente:
gran parte di essi in realtà viene dirottata al mercato dei cavalli da sella. E
il fatto che i cavalli da carne degli altri paesi, ossia lo scarto della loro
produzione, sia migliore dei nostri attuali cavalli da sella, è molto più
eloquente di tante altre analisi e considerazioni sui danni inferti al nostro
allevamento equino.
Stallone Violante (foto M. Aurigi).
Erano murgesi i cavalli di Federico II
Da tempo sapevamo
che Federico II di Svevia fu un impareggiabile allevatore di cavalli: la sua
cultura equestre dà ancora dei punti a quella italiana odierna e comunque per
fama è solo paragonabile a quella del greco Senofonte. Ma oggi, da un saggio
dello storico Franco Porsia dell’Università di Bari (I Cavalli del Re, Schena Editore, Fasano), apprendiamo non solo che
i cavalli dell’imperatore erano i migliori dell’epoca, tanto che,
considerati arma strategica, ne era assolutamente proibita l’esportazione dal
Regno pena punizioni gravissime, ma anche che egli aveva proprio in Murgia ben
tre allevamenti. E questo perché secondo lui, ed aveva ragione da vendere, i
cavalli, per farsi zampe e zoccoli – la cui qualità, checché oggi ne pensino
gli attuali “esperti” nazionali, è
prioritaria su ogni altra – non dovevano essere allevati nelle pianure verdi e
umide, ma sulle colline aride e pietrose, come
Tra 1400 e 1500
tocca alla repubblica di Venezia allevare, sempre nella Murgia, i suoi migliori
cavalli (la masseria della Serenissima, in agro di Monopoli, si chiama ancora
“
La
cavalleria savoiarda umiliata dai “briganti” pugliesi
Nel secolo
successivo sono i Piemontesi che sperimentano, loro malgrado, la qualità dei
cavalli della Murgia. Nel 1864 avevano istituito una commissione parlamentare d’inchiesta
per indagare sui motivi per cui l’esercito piemontese, uno dei più efficienti
d’Europa, si era dimostrato incapace di domare quello che un po’
ipocritamente era stato chiamato e ancora si chiama brigantaggio meridionale.
In realtà si era trattato di una rivolta popolare esplosa nel 1860, che
assunse subito l’aspetto di una guerra coloniale da parte dei Piemontesi e
partigiana da parte dei Meridionali: in 5-6 anni, 5000 furono i briganti uccisi
(i Savoia non si distinsero a questo proposito dagli imperatori romani), mentre
le perdite dell’esercito piemontese, che raggiunse i 160.000 effettivi, non
sono mai state rese note (si parla di un numero di morti superiore a quello
delle tre guerre d’indipendenza messe insieme). Comunque fu davanti a quella
commissione che il colonnello Chevilly dichiarò, immagino abbastanza
imbarazzato, che «la cavalleria risultava inutilizzabile nei boschi, sui monti e in
generale su tutti i terreni fortemente accidentati dove ugualmente i briganti
avventuravano le loro cavalcature». Ed è chiaro che si riferisse
soprattutto alla Puglia dove le bande, a differenza delle altre regioni erano
tutte montate. Per la precisione il brigante più famoso e agguerrito, l’unico
rimasto imbattuto, Carmine Donatelli detto Crocco, operò tra Matera e Andria,
quindi in piena Murgia, dove razziava i cavalli per la sua banda (anche 3000
armati tutti montati). La qualità di quei cavalli è documentata da un
testimone al disopra di ogni sospetto, Gaetano Negri, nobile milanese, ex
garibaldino e ufficiale della cavalleria piemontese durante la repressione del
brigantaggio, che assai di controvoglia dovette ammettere a proposito di Crocco
e della sua banda: «Uomini
discretamente coraggiosi, montati su eccellenti cavalli».
Come si sa il Savoia vinse quella guerra coloniale e da
allora il murgese è caduto nell’oblio (una punizione da parte del
vincitore?). A nulla serve che nel 1932 Pier Giovanni Bujatti, uno dei massimi
studiosi italiani di zootecnia, riscopra in Murgia la razza, riconoscendone l’ancora
forte somiglianza sia di modello che funzionale con le due celeberrime famiglie
lipizzane Napolitano e Conversano,
discendenti dai due stalloni murgesi sopra ricordati. Ed a nulla serve che una
ventina d’anni dopo si costituisca in Murgia, a Martina Franca, anche l’associazione
di razza e che l’Istituto di incremento ippico di Foggia e
©2005 Mauro Aurigi. L’articolo e la scheda sono stati pubblicati sulla rivista mensile «Sudest», numero 9 del 2005, pp 37-51.