LA MEMORIA DIMENTICATA |
a cura di Teresa Maria Rauzino |
|
|
||
|
Manfredi e Semrud illustrati da Primiana Nista.
Giuseppe
D’Addetta, fin dagli anni Cinquanta, intuì che anche i centri più sperduti
del Gargano avrebbero avuto qualcosa di importante da comunicare a chi avesse
avuto la curiosità di conoscerli. Una tradizione folklorica ed etnografica
intatta, e sorprendentemente attuale, era ancora da valorizzare. Essa attendeva
di essere conosciuta da chi, mosso dal desiderio di conoscere ciò che un tempo,
in un’altra vita, siamo stati, si fosse spinto per le balze più scoscese
della Montagna del sole, alla ricerca di luoghi della memoria ormai dimenticati.
Novelle
e leggende della Capitanata, una bella
raccolta curata da Giovanni Saitto prende le mosse proprio
dall’indimenticabile saggio del d’Addetta. E ne prosegue l’ideale viaggio, alla scoperta di antiche tradizioni
etnografiche e narrative. Emergono
ricordi altamente suggestivi e poco noti, ed il lettore vi si accosta con il desiderio di farli rivivere in piena luce. Desiderio che
è anche di tutti gli studiosi che, lavorando in team, hanno messo a
disposizione materiale raro, edito ed inedito. Il dato interessante è che,
accanto alle leggende di Giuseppe d’Addetta, di Armando Petrucci, di
Michelantonio Fini, troviamo le delicate illustrazioni di Primiana Nista ed i validi testi di alcuni giovani narratori che, partendo da uno spunto
ambientale, da un aneddoto, o da una tradizione rigorosamente storica, si sono
cimentati nell’invenzione artistica, creando dei nuovi racconti, che
resteranno sicuramente impressi nell’immaginario del lettore.
Come
Antonio Milone ne
Il Confessore senza ostie. Protagonisti il giovane imperatore Federico II di
Svevia e Matteo, un umile manovale, addetto alla costruzione della fortezza di
Apricena. Ambedue presi dallo stesso sogno, dallo stesso identico miraggio:
“Angiola, bella come la seta la prima volta, bella come la luna quando si è
felici, con quegli occhi di luce nera, con quella pelle che solo un Dio sa e può,
quella pelle di petali di rose, di seta e latte, e raggi di sole”… Una notte
insonne, parallela, accomuna i due adolescenti. Una notte che, per Federico, è
come una malattia, è come “un confessore senza ostie che non può assolvere,
né può condannare”. Una notte in cui egli diventa veramente un re…
Nel
racconto di Giovambattista Gifuni, La danzatrice di Lucera, il biondo e inquieto Manfredi, e una
misteriosa saracena, di nome Semrud, sono i protagonisti di una struggente
storia di amore inappagato. Lo scenario è Lucera, e in particolare il castello
sormontato da quindici torri, costruito secondo lo stile arabo: tremila
colonnine orientali ne circondano il vasto cortile; le porte sono incrostate
d’oro; un incantevole giardino di stelle cantanti, di fontane e di rose,
circonda l’harem dalle inferriate d’oro. Qui Manfredi conduce Semrud, dopo
averla acquistata, spinto dalla subitanea attrazione che ha provato vedendola
danzare su una pista dorata. Ma invano ne cerca l’amore. Solo alla vigilia
della battaglia di Benevento, che vedrà il tramonto della potenza sveva, Semrud,
conscia del fatale destino che incombe sul suo re, gli sarà vicina come non
mai…
Dalla
raccolta viene, quindi, fuori un mondo di ieri, sorprendente per chi è abituato
a vedere la Capitanata, ed il Gargano, con lo sguardo corto dell’oggi e della
contemporaneità. La leggenda de Il ponte
di cuoio, di Giuseppe d’Addetta, ci riporta al tempo lontano in cui la
nostra provincia era terra di conquista di popoli diversi per cultura,
consuetudini e tradizioni. Popoli come gli Arabi che, contrariamente ai
pregiudizi di oggi, erano un popolo mite, rispettoso delle tradizioni locali e
religiose delle genti conquistate. Il protagonista della leggenda, Moham, un
valoroso condottiero saraceno, si innamora perdutamente della castellana, bella
e bionda come il sole e dolce come la luna, che vive nella rocca dirimpetto, in
località Castelpagano. Ma il suo sogno d’amore incontrerà seri ostacoli.
Forti pregiudizi etnici, e soprattutto il timore che, sposando un seguace della
religione maomettana, possano
esserci ripercussioni negative per la propria anima e per i componenti della sua
casata, inducono la bella principessa garganica ad avanzare una richiesta
decisamente insolita…
Quando l’itinerario de La Montagna del sole tocca Vieste, la sperduta, il D’Addetta rievoca due suggestive leggende. Tragici scenari lo Spacco di Rosinella e il bianco faraglione di Pizzomunno. Qui le perfide sirene, invidiose e gelose dell’amore di due giovani, rapiscono la bellissima fanciulla e la tengono legata ad uno scoglio sommerso. Solo ogni cento anni le concederanno di riemergere, in un giorno di sole, per rivedere il suo fedele amante.
Altre leggende fioriscono sulle rive del Varano. Temi maliosi e mitici, che i pescatori narravano, durante le lunghe attese delle battute di caccia e di pesca. Come la storia di Nunziata, unica superstite all’ira divina che inabissa la città di Uria. Gli Dei le concedono il dono dell’immortalità, ma la sua è una vita segnata dal rimpianto per la perdita dell’innamorato, scomparso insieme a tutti gli abitanti della città. E la sua voce di pianto, ogni sera, è portata dal vento che spira sullo specchio del lago…
La storia di Maddalena, il cui testo è stato ritrovato dal prof. Michele Tortorella fra i registri parrocchiali della collegiata di Vico del Gargano, narra una vicenda seicentesca. Lo sfondo è il castello svevo; protagonisti due inconsapevoli fratelli, portati dai capricci della sorte a un destino infelice. Antagonista il principe Caracciolo, che desideroso di impadronirsi del feudo, sottrae ai marchesi Spinelli, con un sotterfugio, l’unico figlio appena nato. Due anni dopo, la nascita di Maddalena allieta il castello, consolando gli Spinelli della perdita dell’erede maschio... che un giorno, fatalmente, approda nella città natale. Conquista la simpatia dei feudatari, i quali lo invitano a diventare paggio alla loro corte. Maddalena è nel fiore degli anni, “è un bel bocciolo di rosa”, il giovane un giglio bianco e candido come la neve”. Uno sguardo innocente, un voltar di testa, una mossa innocente fatta a caso. “è certo che nel cor gentile l’amore si fa strada”. Maddalena è perduta amante, e lui più di lei. L’amore “proibito” si consuma in un giardino di agrumi di Canneto, dietro ad uno frangivento… ma il finale è degno delle migliori tragedie greche.
Bionde
bellezze garganiche, retaggio degli antichi conquistatori normanni e svevi, o di
migrazioni di altri popoli italici, sono le eroine degli altri racconti. Ad esse
si affiancano le brune: come quelle che appaiono, sui marciapiedi stretti di San
Giovanni Rotondo, all’immaginario turista incuriosito di D’Addetta. Donne
dalle linee zingaresche con lunghi orecchini d’oro, che dignitose abbozzano un
sorriso in segno di saluto, mentre due perfette file di bianchi denti rilucono
fra il carminio naturale delle labbra.
Donne
brune, come è bruna la bellezza slava di Sinella, protagonista de La
pazza, di Michelantonio Fini. La voce argentina e affabulante della ragazza,
intenta nella raccolta delle olive nella piana assolata di Càlena ammalia Elia:
egli si innamora perdutamente della sua fresca bocca di fragola matura, del
profumo delle sue trecce di ebano, dell’ardore dei suoi profondi occhi di
fuoco. Ma la bella Sinella non può corrispondere a questo ardente sentimento:
da un anno i suoi l’hanno promessa a un altro, emigrato in America, impegnando
così il suo onore e la sua fedeltà. L’innamorato, respinto e umiliato,
schiavo, suo malgrado, della mentalità del tempo, si sente obbligato a lavare l’offesa agli occhi dell’intero paese...
L’epilogo
è ancora più drammatico. Un giorno, dall’alto di un precipizio, sulla grotta
dell’acqua calda, dalla Rupe gigantesca, Sinella che, in seguito a varie
vicissitudini, ha perso la ragione, credé di poterlo trovare, di poterlo
afferrare, il suo sogno, e stringerlo a sé fortemente, per sempre.
Un
mese dopo, allo stesso vertice pietroso, fu visto ergersi un uomo che veniva
dalla selva, veniva dalla solitudine, veniva dalla disperazione. I marinai
raccontano di aver visto quel fantasma camminare sull’orlo dell’abisso,
sfidando la morte... Così i due
infelici amanti, forse, trovarono la pace in fondo a quel precipizio, in quel
mare tenebroso e immenso come l’animo umano, come l’amore, come il destino,
come la morte, come il mistero...
©2004 Teresa Maria Rauzino. Illustrazioni di Primiana Nista tratte da Novelle e leggende della Capitanata, a cura di Giovanni Saitto, Edizioni del Poggio, pp. 234.