Le isole pugliesi tra Libia e Italia
Degli oltre milletrecento libici deportati nel 1911, uno su tre morì. «A ciò devesi aggiungere la nostalgia acutissima che questi prigionieri hanno della loro patria tropicale, ove la temperatura non è rigida e fredda, come su questo scoglio battuto dalla tramontana». Lo «scoglio» è il nome dato alle Tremiti in un'indagine ministeriale del 1912. Il «ciò» cui s'aggiunge «la nostalgia acutissima» è una vita di stenti, segnata da malattie e fame. Vi furono costretti, tra il 1911 e il 1912, oltre milletrecento libici deportati nell'arcipelago di fronte al Gargano, costretti a vivere in baracche senza vetri e persino nelle grotte: ogni giorno ne morivano, in media, tre, incluse donne, bambini, anziani.
La recente disponibilità del sindaco delle Tremiti Giuseppe Calabrese offertosi come mediatore tra l'Italia e la Libia di Gheddafi contribuisce a sollevare il velo su un capitolo della storia pugliese e italiana: poco conosciuta e ancor meno insegnata. Dal 1911 al 1942, dal governo Giolitti al regime mussoliniano, furono oltre quattromila i deportati libici nelle colonie penali del Regno d'Italia: oltre alle Tremiti, Ustica, Ponza, Favignana e Gaeta. Fin dall'inizio luoghi d'esilio forzato non solo per coloro che si opponevano all'occupazione coloniale italiana della Libia, ma anche per le loro famiglie. Una tragedia di cui s'è discusso proprio alle Tremiti, il 28 e 29 ottobre 2000: in un convegno in coincidenza con l'anniversario dell'arrivo della nave «Serbia», che il 29 ottobre 1911 aveva sbarcato lì i primi seicento deportati. S'è proseguito poi negli altri ex lager, fino al quarto seminario di Ustica (2004) sugli esiliati libici durante il periodo coloniale. Iniziative promosse dall'Istituto italiano per l'Africa e l'Oriente ( ente di diritto pubblico sotto la vigilanza del Ministero degli Esteri; presidente il professor Gherardo Gnoli, vice il professor Gianluigi Rossi) e dal Centro libico per gli Studi storici.
I convegni avevano seguito lo sforzo diplomatico del 1988, quando Roma e Tripoli giunsero a un inizio di ricomposizione dei vari contenziosi, firmando la dichiarazione romana del 4 luglio. «Alla fine degli scontri di Shara Shatt (23 ottobre 1911) nei dintorni di Tripoli, il governo italiano emanò un decreto nel quale disponeva di deportare un gran numero di libici» . Lo ha ricorda to nel convegno delle Tremiti il professor Habib Wadah el Hasnawi, docente di Storia moderna e contemporanea nel suo Paese. La deportazione ebbe inizio il 26 ottobre; alle Tremiti giunsero soprattutto le persone catturate nell'area di Tripoli. Che genere di persone? Di certo, «tutti coloro che erano accusati di attività politica o militare o di collaborazione con i ribelli e che esercitavano, in virtù del loro rango sociale, una certa influenza sulle rispettive tribù». Ma fu deportato pure chiunque capitasse a tiro: «Gli arresti... sono avenuti in modo frettoloso. si legge nel rapporto redatto allora dalla Commissione dei prigionieri di guerra e inviato a Roma Gli arrestati sono un miscuglio di mendicanti, di ricchi proprietari, di lavoratori, di fruttivendoli, di mercanti, di contadini e di anziani, e di donne e di bambini e ragazzi».
Nel 2000 uno dei relatori, il professor Claudio Moffa ( docente di Storia e Istituzioni dei Paesi afroasiatici a Teramo) parlò in particolare della situazione alle Tremiti. Diversi arabi morirono durante i tre giorni di traversata; alla fine giunsero nell'arcipelago tra 1366 e 1391. Tantissimi, tant'è vero che le Tremiti già sede di una colonia penale per italiani prima d'essere «riservate» ai libici ospitavano solo 184 domiciliati coatti. E secondo la «Direzione delle carceri» la capienza dei sette cameroni destinati ai deportati era al masismo di 360 posti. E gli altri? Furono stipati in maniera promiscua, malati e sani, maschi e femmine, bambini e adulti pure nelle stalle. E nelle grotte: quelle «scavate sul pendio nel monte sovrastante l'Isola di San Nicola», scrissero due delegati di Pubblica sicurezza il 2 novembre 1911; grotte che «mancano di porte ed il vento vi penetra da tutti i lati», «buie, umide e senza scolo», «poco adatte persino per gli animali».
Scarso il cibo, scarsa l'acqua, tante le malattie («organismi malsani che si trascinano a stento», secondo i rapporti sanitari). Con loro, una popolazione locale spaventata e ostile, che spesso sottrasse i viveri ai prigionieri ma ne contrasse pure le malattie, tifo e colera. E i tremitesi che mostrarono solidarietà furono accusati di «sovversione » e di «simpatie socialiste». Già il 9 gennaio 1912 risultarono deceduti 198 deportati: inclusi due bimbi di 10 anni, trentacinque anziani dai 60 ai 70 anni, sette da 70 agli 80, uno d'oltre 90 anni. A giugno i morti erano diventati 437, un terzo di quelli che erano arrivati.
Finché il 4 giugno 1912 un telegramma della Prefettura di Foggia alla Direzione della Sanità annunciò la partenza dell'«ultimo scaglione di arabi», tranne «13 malati... rimasti a Tremiti». I rimpatriati spesso non trovarono più le loro case e le loro famiglie. Mentre li attendevano altri trent'anni di persecuzioni e guerre. Un dramma testimoniato da quel che resta di lettere, documenti ufficiali e ufficiosi, appunti. Proprio da quelle carte spuntano le parole di un libico che era tra i deportati in Italia: «Oggi non abbiamo la forza per piangere / Come pecore nelle mani di un mercante / ... Qualcuno che ci vedesse, direbbe che siamo schiavi da vendere e comprare...». Parola di Fudil Hasin ash Shlamani. Poeta.
Le quarantamila vittime dei lager fascisti La deportazione verso l'Italia iniziata nel 1911 fu il prezzo salatissimo pagato dalla resistenza libica. Fu un'idea del governo ( liberale) di Giolitti, dopo la sconfitta subita dall'Italia a Shara Shatt il 23 ottobre 1911, nel corso dell'occupazione coloniale della Libia. E il successivo regime fascista? Usò assai meno il confino in Italia; non per bontà d'animo ma perchè preferì altri metodi, ancora peggiori: dall'esproprio dei terreni,dalla confisca dei beni, dal lavoro forzato, si passò alla deportazione e alla segregazione in campi di concentramento. Il caso più drammatico avvenne in Cirenaica nel 1930, dopo che Graziani non era riuscito a domare la ribellione capeggiata da Omar el Mukhtàr. Su ordine del governatore generale Badoglio, Graziani predispose il trasferimento di centomila civili dalla Marmarica e dal Gebel el Ackdar nei campi che aveva fatto costruire nella Sirtica, una delle regioni più inospitali dall'Africa del Nord. Quando i lager furono chiusi nel 1933, i sopravvissuti erano appena 60000. Gli altri 40000 erano morti per sfinimento, malattie, ( i 33000 reclusi nei lager di Soluch e di Sidi Ahmed el Magrun avevano un solo medico), fame, epidemie, violenze compiute dai guardiani, esecuzioni per chi tentava la fuga. Angelo Del Boca, uno dei rari storici del colonialismo nostrano, ha scritto: «Nell'ultimo secolo e mezzo molti altri popoli si sono macchiati di imprese delittuose... ma solo gli italiani hanno gettato un velo sulle pagine nere della loro storia ricorrendo ossessivamente a uno strumento autocosolatorio: il mito degli "italiani brava gente"». Un mito duro a morire.
|
©2006 Marco Brando; articolo pubblicato sul «Corriere della sera - Corriere del Mezzogiorno» del 5/03/2006.