LA MEMORIA DIMENTICATA |
a cura di Teresa Maria Rauzino |
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Era
legittimo mettere a ferro e fuoco la città di San Severo? Chi dispose l'eccidio
del 25 febbraio 1799? Due interrogativi su una pagina oscura della storia di San
Severo, che sono stati anche i due capi di imputazione a carico di Napoleone
Bonaparte nel processo sui "fatti e misfatti"
compiuti dalle truppe francesi inviate a San Severo per reprimere i moti
filoborbonici che si è celebrato il 9 marzo presso
l’Istituto tecnico “Minuziano” di San Severo. L’evento è stato
organizzato dal «Centro di Ricerca e di documentazione per
L’interesse del pubblico, che è accorso in massa
per seguire l’evento, è stato enorme, grazie alla presenza di
due magistrati di fama nazionale: il personaggio di Napoleone è stato
infatti “interpretato” da Giuliano Turone; il pubblico ministero da Gherardo
Colombo. Un PM perfettamente nella
parte che ha interrogato prima il teste, lo storico Matteo Fraccacreta,
interpretato da Pasquale Corsi, e poi l'imputato, difeso dall'avv. De Rossi.
Interessante l’intervento finale del prof. Clemente, che si è fatto portavoce
del “pentimento” del generale Duhesme. Perché
sono stati scomodati tanti giudici per un “processo” al grande condottiero
corso? Per ricordare la cronaca di un eccidio ormai dimenticato. Un processo che
non ha voluto mettere sotto accusa un periodo storico, ha precisato Colombo, ma
un episodio specifico, che lascia questo interrogativo: gli ideali di libertà,
uguaglianza e fraternità possono trasformarsi in pretesti per vere e proprie
stragi?
Febbraio 1799. Cronaca di una strage
Le vicende di San Severo del febbraio 1799 costituiscono una delle
pagine più tragiche della storia della città. Intorno a questi fatti molto è
stato scritto, a cominciare dal resoconto dell’erudito Matteo Fraccacreta, che
ne fu testimone e principale cronista. Il professor Giuseppe Clemente ha portato
recentemente questo evento all’attenzione dell’opinione pubblica
nazionale, ripubblicando il saggio Febbraio 1799. Giacobini,
sanfedisti e francesi a San Severo. Cronaca di una strage
(Esseditrice,
San Severo 2005). Il volume,
basato sullo spoglio di fonti archivistiche come i registri dei morti
delle parrocchie cittadine e gli atti notarili, si apre con una dettagliata
descrizione degli eventi di quel periodo. La vicenda sanseverese viene snodata
in tutte le sue connessioni e interferenze, senza trascurare le premesse più o
meno lontane: dalla mancata modernizzazione del Regno di Napoli agli
arruolamenti borbonici per la guerra contro i Francesi.
Napoleone, impegnato fin dal 1796 nella prima campagna d’Italia, vince
ovunque: esige versamenti in denaro
e opere d’arte. Nel mese di gennaio 1799 è alle porte di Napoli, dove nasce
Anche in Puglia si erano
creati gruppi di patrioti filogiacobini, contrastati dai lealisti borbonici.
Possiamo inquadrare i fatti di San Severo intorno a tre date
emblematiche:
- 8 febbraio: i giacobini
innalzarono in piazza della Trinità l’albero della libertà, emblema
del nuovo governo repubblicano;
- 10 febbraio: l'albero venne abbattuto dal popolo, che si scatenò in
una sanguinosa repressione di coloro che erano sospettati o esplicitamente
accusati di simpatie giacobine.
- 25 febbraio: il cerchio si chiuse con l'arrivo delle truppe francesi
agli ordini del generale Duhesme. La resistenza degli insorti venne piegata dopo
violenti scontri nelle campagne, cui seguirono violenze e saccheggi in città, e
condanne a morte per chi si era maggiormente compromesso, che inasprirono gli animi e generarono sentimenti di odio e propositi di
vendetta nei superstiti e nei parenti delle vittime.
Eppure il generale Championnet, inviato da Napoleone nel regno di
Napoli, nelle “Istruzioni ai
patrioti” aveva caldamente raccomandato «di rendere la rivoluzione amabile,
per farla amare e renderla utile al popolo», sopprimendo titoli nobiliari,
fedecommessi, e maggioraschi, primo passo verso l’abolizione della feudalità.
Ordinando di piantare in ogni comune l’albero della libertà, e di munirsi di
coccarde di tre colori della bandiera cisalpina (giallo-rosso-turchino), aveva
raccomandato che i membri delle nuove municipalità fossero scelti tra «cittadini onesti e
virtuosi».
Come sempre accade nei cruciali momenti di “svolta” politica, anche
a San Severo ci furono repentini cambiamenti di fronte: i fedeli sudditi borbonici si trasformarono in ferventi giacobini, pronti
a ritornare sotto le bianche bandiere gigliate appena la situazione lo avesse
richiesto. Trionfò il cameolontismo. Ecco perché la massa popolare lottò
contro il nuovo governo filofrancese, con l’aggravante di essere
strumentalizzata dai maggiorenti rimasti fuori dai giochi di potere. Questi
diffusero tra il popolo già in fermento la voce che la successiva domenica,
durante il terzo giorno dei festeggiamenti repubblicani, sotto l’albero della
libertà ci sarebbero state «danze sfrenate, abbracciamenti e nozze» e
che «a’ repubblicani connubi auspice sarebbe stata la statua della Santa
Vergine». Domenica 10 febbraio 1799, perciò, quando i repubblicani
prelevarono il simulacro della Madonna del Soccorso, patrona di San Severo, per
portarla accanto al «gran cipresso coronato di alloro, con sulla cima il
pileo rosso», la popolana Antonia de Nisi, detta la «scazzosa»,
insieme ad altri sanfedisti, gridò: «Perché, perché
Il vescovo Giovanni Gaetano del Muscio, che aveva ordinato ai parroci di predicare la pace nelle piazze,
promettendo indulgenze ai penitenti, corse il rischio di essere linciato dalla
folla insieme al frate francescano Michelangelo Manicone (illuminista di Vico
del Gargano, autore de La Fisica Appula), che in quei giorni stava visitando
San Severo ed aveva partecipato alla piantumazione dell’albero della libertà.
La rivolta antifrancese si diffuse in molti paesi della Capitanata, da
dove partirono gruppi di filoborbonici per dar man forte ai sanseveresi. Su San Severo, che non volle patteggiare la resa, si abbattè il 25
febbraio 1799 la tremenda vendetta dei francesi. La città fu messa a sacco. Ci fu una vera e propria strage d’inermi,
di donne, di fanciulli. Il generale Duhesme il 7 marzo scrisse il seguente
rapporto al suo superiore Mac Donald: «Dopo le manovre valorosamente
eseguite dalle nostre truppe è stata chiusa la ritirata ai ribelli. Il resto
della giornata non è stata che un massacro. (…) Avevo giurato di far
incendiare San Severo, ma fui commosso dalla sorte lacrimevole di una
popolazione di ventimila anime. Feci cessare il sacco e perdonai».
Il Colletta parlò di tremila morti. La verifica effettuata dal professor Clemente sui registri delle varie parrocchie della città ha ridimensionato questo numero. In realtà, i morti registrati furono 240 fra i residenti a San Severo, 100 dei paesi vicini e 100 soldati francesi. In totale si contarono quindi 450 vittime. La maggior parte aveva meno di quarant’anni. Furono complessivamente 11 le donne vittime della strage, alcune mentre aiutavano i loro uomini impegnati negli scontri, altre massacrate in fuga o mentre cercavano scampo nelle chiese. Angela Giuliani fu uccisa insieme alla figlioletta Antonia Moscatelli, di appena un anno, mentre la stava allattando. Il 17 marzo venne fucilata Antonia de Nisi. Prima della pubblica esecuzione fu trascinata, con un laccio al collo legato alla coda di un cavallo, per le strade di San Severo. L’arciprete Masciocchi, nell’annotare il nome della De Nisi sul registro dei morti della Cattedrale, scrisse: «Sacra poenitentia munita, a Gallis, praecedente decreto condemnationis, pluribus ictibus ignearum balistarum vulnerata, mortem obiit, prope ianuam majorem Monasterium Patrum Coelestinorum, praecedente, dico, decreto condemnationis, ob crimen sibi imputatum et probatum, commovisse populum ad tumultum ob arborem libertatis in publica platea infixam» («Munita di conforti religiosi, per un precedente decreto di condanna, ferita dai Francesi con numerosi colpi di fucile, trovò la morte vicino alla porta d’ingresso del monastero dei Padri Celestini, per un precedente, ripeto, decreto di condanna, a causa di un crimine a lei imputato e provato: aver spinto al tumulto il popolo, dopo aver divelto l’albero della libertà piantato in pubblica piazza»).
Ferdinando IV inviò il cardinale Ruffo alla riconquista del suo ex regno. La vittoriosa spedizione dei sanfedisti trovò il sostegno popolare e l’appoggio della flotta inglese di Nelson. Seguì dal giugno 1799 una spietata ritorsione del re contro chi aveva sostenuto la repubblica partenopea. A San Severo vi fu chi, pur avendo sostenuto i giacobini, per evitare ritorsioni, fece attestare da numerosi testimoni di aver tenuto un comportamento “lealista”. Quasi tutti i notai furono impegnati nella redazione di questi documenti “giurati”. Le mogli delle vittime della strage del 1799 chiesero e ottennero un risarcimento per sé e dei maritaggi per le piccole orfane.
E ogni 25 febbraio fino al 1860, le campane della Croce Santa ricordarono ai sanseveresi, con i loro lenti rintocchi, quel giorno di ordinaria follia.
PER NAPOLEONE UN PRECEDENTE: IL PROCESSO A BINASCO Il processo a Napoleone svoltosi a San Severo nasce su ispirazione
dell’associazione “Beatrice di Tenda”, che nel
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©2006
Teresa
Maria Rauzino. Le foto del processo a Napoleone, scattate da Teresa
Maria Rauzino, sono tratte da
http://groups.msn.com/CentroStudiGiuseppeMartella/processoanapoleone.msnw