LA MEMORIA DIMENTICATA |
a cura di Teresa Maria Rauzino |
|
|
||
|
Frontespizio dello statuto della
"Lega fra i contadini" di San Nicandro Garganico, 1914.
Ma è in particolare a Emanuele Gualano che le testimonianze fanno
esplicito riferimento, quando tornano alla mente i momenti ‘forti’ della
partecipazione collettiva e del riversamento, nella sua figura di leader
carismatico, della propria insoddisfazione di oppressi. Un’insoddisfazione
che, prima della presa di coscienza politica, faceva dire al bracciante Giuseppe
Russo (‘Trippetta’): «Non si discuteva. Perché così era… e stavamo tranquilli. Perché se
qualche volta noi ci rassegnavamo era perché non sapevamo il male da dove
veniva, il male chi lo faceva». E in quei momenti, siamo negli anni del primo dopoguerra, Gualano
diviene colui che porta il suo popolo a ribaltare le regole subìte. Giuseppe
Russo: «Io ero bambino, tenevo sette otto anni, prima del fascismo. Qua noi, la
legge nostra di Sannicandro, fino a Tutti
i Santi potevamo andare nei giardini a farci le olive. Dopo passato il 2-3
novembre non ci potevi andare più. Allora uno campava, andava là, si faceva le
olive. Allora questo Gualano, era di sera, così, e bandisce per il paese ‘Chi
vuole andare a fare le olive, che si alzasse, sopra a Zincone!’. Eallora tutti
quanti si alzarono, donne, bambini, uomini, ci eravamo radunati là migliaia di
persone in questa zona sopra a Zincone. Stavano centinaia di fuochi accesi, alla
notte, centinaia, ma era bella la scena, tutta la gente così. Fece giorno,
arrivarono quattro cinque camion di carabinieri. Ma noi eravamo un migliaio di
persone. Allora Gualano è salito sopra una maceria
di pietre e noi tutti accerchiati attorno. E lui ha detto ai carabinieri: ‘Ve
ne potete andare, perché questo è pane, qui noi cerchiamo il pane, non
cerchiamo altro’. Belli quei tempi là! Senza pane proprio! Allora il pane non
esistiva. Che società miserabile!». Società "miserabile" che aveva anche i suoi momenti di
creatività e svago culminanti nel periodo carnevalesco, nel quale il
ribaltamento simbolico e rituale dei ruoli sociali sembrava anticipare quello
reale di un nuova società egualitaria e non oppressiva.
Questa realtà sociale e politica l’abbiamo spesso vista intrecciarsi alle vicende e alle forme dell’espressività carnevalesca, grande rappresentazione collettiva che a Sannicandro ha assunto nel secolo scorso, sino agli anni ’50, la fisionomia di una partecipata drammaturgia di massa. Esperienza centrale e legame di questa connessione il ditt, una forma di drammaturgia popolare, che vedeva la partecipazione comunitaria nelle diverse fasi di creazione, rappresentazione e spettacolo. Scritta da contadini, pastori e artigiani, questa forma drammatica ha continuato nel tempo a costituire un’insostituibile esperienza comunitaria non solo nei suoi aspetti ludici e socializzanti, ma quale pretesto di satira politica e sociale, di trasmissione di contenuti e valori. Durante il fascismo una serie di drammi a sfondo sociale, che al ditt si riferivano esclusivamente come genere teatrale, sono stati scritti e messi in scena proprio da Emanuele Gualano, con una precisa funzione di resistenza e di opposizione al regime. Con la metafora la drammatizzazione sfuggiva al controllo della censura assolvendo contemporaneamente una funzione didattica di trasmissione di comportamenti e di formazione ideale. Gualano, tra gli altri testi scritti per le rappresentazioni del ditt, fu autore di uno in particolare che tanti ricordano, ma di cui non si è ancora trovata traccia scritta: Redenzione.
A sinistra, il foglio volante in cui Giovanni Mascolo, bracciante di San Nicandro Garganico, pubblica e firma il canto che descrive lo scontro avvenuto tra i socialisti e i loro avversari "gialloni". A destra, pagine di uno dei canovacci teatrali manoscritti su cui si basavano le rappresentazioni del "ditt" a San Nicandro Garganico.
Il dramma ci è stato così descritto da Antonio Gravina e Ciro M.
Meola: «C’è stata un’auta cosa
che ha fatto nu paesano nostro, quel
dramma che ha fatto Gualano, quello è a sfondo politico, ‘Resurrezione’,
perché lui era politico, idee di sinistra. Era analfabeta e la cultura se l’è
fatta al confino, è stato carcerato. Questo dramma l’ha fatto proprio nel
tempo del fascismo, però insomma tutta na cosa larvata. I nomi degli autori:
Albore, Aurora… e c’è stata un’affluenza di pubblico non indifferente.
Parlava sempre di lavoratori, la trama era quella del suo sentimento politico.
Parlava anche d’una prostituta…si voleva redimere, no? Implorava verso la
società...». Redenzione fu recitato dai
più giovani del paese: «Un po’ più scelti, più istruiti. Il significato era quello:
resurrezione. La resurrezione del socialismo che doveva venire».
A casa di Isabella Melchionda (moglie di Gualano) è il figlio Arcangelo
che ricorda stralci dalla trama dell’opera: «La scrisse e la organizzò. Fu un preludio della guerra dell’Africa,
nel 1935. Lui ha previsto ciò che doveva succedere e mise in scena queste
previsioni: cioè l’addio dei giovani che partono in guerra e che poi finì
con la perdita dei figli. Infatti subito dopo successe la guerra d’Abissinia,
dell’Etiopia. Un bel dramma insomma. Era politica, era politica, ma era
tollerata. Questo subito dopo venuto dal confino. Era tollerata, perché piaceva
molto alle autorità locali, un po’ ai professionisti, gli piaceva… ma
c’era il prologo il quale era prettamente umanitario, la fame, la miseria. Lui
scriveva sempre, ma poi si è dedicato a scrivere qualche cosa per metterlo in
scena. Fu rappresentato in una casa grande. Alcuni giovani si prestarono a fare
gli attori. Si servirono di questi giovani volenterosi che allora erano
tradizionalmente dediti a questi teatrini in casa, tipo familiare. Ognuno si
prestava… alla bella vista della fidanzata, che poi era invitata e vedeva il
fidanzato recitare. E ogni giovane ci teneva. Ha voluto inserirsi anche lui [in
questa tradizione]. Però gli altri teatrini prendevano [spunto] dai romanzi e
li mettevano in scena. Mio padre l’ha scritto proprio lui, ma sempre sullo
sfondo di pensiero suo, a sfondo umanitario. Se si trattava di romanzi che
facevano altri, si mettevano in costume, ma mio padre fece Redenzione,
era un fatto civile, moderno, quindi non rappresenta un personaggio come Guerin
detto il Meschino, che si vestiva con la sciabola… Mio padre scrisse un
romanzo che aveva a che fare con gente civile. Usciva la madre vestita
tradizionalmente, come veste mia madre adesso, con quelle vesti lunghe a fasce a
fasce, col fazzoletto, vestita di nero, che abbraccia il figlio vestito da
militare che va via in guerra. Lo fece per tre mesi. Doveva chiudere e poi
l’hanno fatto replicare, dai principi dell’anno fino a Carnevaletto».
La ricerca, effettuata negli anni ’70, purtroppo ancora inedita, ha consentito il reperimento di una mole ingentissima di manoscritti teatrali della tradizione del ditt. Sull’argomento vedi: GIOVANNI RINALDI - PAOLA SOBRERO, Comico Maschera Oralità. Elementi drammaturgici dei rituali carnevaleschi in Capitanata, in Centro Studi sul Teatro Medioevale e Rinascimentale, Rappresentazioni arcaiche della tradizione popolare, Viterbo 1982, pp. 317-369.
©2006 Giovanni Rinaldi. Articolo pubblicato a stampa in «SUDEST Quaderni», n. 4, febbraio 2005.