Lo storico francese, vicepresidente del Centro di Studi Normanno-Svevi dell'Università di Bari, parla di Borboni, xenofobia e fantastoria.
Pierre Toubert
Pierre Toubert, professore di Storia medievale alla Sorbona, passato poi al Collège de France e ora anche presidente de l’Institut de France, dal 2002 vicepresidente del
Centro di studi normanno-svevi
dell’Università di Bari, è tra gli studiosi più noti della medievistica contemporanea. Da oltre un trentennio la sua opera rappresenta un punto fermo negli studi sulle società rurali, sulle forme d’insediamento e sulle fortificazioni dell’Europa mediterranea medievale: sulla base di un approccio globale alla storia, secondo principi metodologici a suo tempo teorizzati in un noto scritto insieme a Jacques Le Goff.
Professore, qual è l’impatto di un francese con la realtà del Mezzogiorno d’Italia?
«Devo confessare che sono un francese che si sente poco rappresentativo del tipo nazionale più comune. Di stirpe, sono un catalano puro, attaccatissimo alla mia terra del Rossiglione, tra Francia e Spagna. Non solo: sono nato in Africa e la mia gioventù ha visto Algeri e Orano. Poi sono tornato in Francia, senza lasciare il Mediterraneo, e ho compiuto studi liceali a Marsiglia. Se aggiungo che sono sposato ad una còrsa, è ben chiaro che più che un francese sono, diciamo così…, un latino. Direi che mi sento più a casa mia qui in Italia che nella Francia del Nord. Per fortuna posso contare sulla ben nota adattabilità della gente latina. Forse devo a queste radici anche la mia vocazione di medievalista italianista».
Insomma, lei è un vero rappresentante del meticciato europeo e mediterraneo, come direbbe il presidente della Puglia Nichi Vendola. Caratteristica che gode di alterne fortune. Basti vedere quel che sta succedendo nella sua Parigi. E quel che da tempo accade in Italia, dove un partito come la Lega Nord sbandiera un nazionalismo con presunte radici celtiche. Che ne pensa?
«Per uno storico tutti i nazionalismi sono organi spenti. Il mestiere dello storico è capire per sorpassare. Comunque non direi che siamo di fronte a un fenomeno solo italiano: capita anche in Francia, Germania o Spagna, C’è un proliferare di movimenti di destra che si richiamano a radici etnico-nazionali; c’è insomma il terreno già pronto per una diffusa xenofobia. Basti pensare che i risultati che in Francia l’estrema destra di Jean Marie Le Pen ha ottenuto alla presidenziali del 2002
(prevalse sul candidato socialista, andando al ballottaggio con Chirac, ndr)».
In Italia infatti si tende ancora - a livello storiografico, culturale e politico - a sottovalutare il Mezzogiorno. Anche per quel che riguarda il Medioevo, prevale una lettura basata su Centro-Nord del Paese. Non le pare?
«In effetti è così. Eppure c’è stato un tempo in cui l’apporto crociano contribuì a far valere il peso del
Medioevo meridionale italiano. E da molti anni gli studi economico-sociali hanno messo in evidenza che il Sud Italia non era affatto arretrato rispetto al Nord. Viene quasi la tentazione di ricorrere alla fantastoria…».
Fantastoria? In che senso?
«Ad esempio: cosa avrebbero potuto fare i Borboni per l’unità dell’Italia? Cosa sarebbe accaduto se Carlo III non fosse diventato re di Spagna e fosse rimasto in Italia
(Carlo di Borbone - Madrid, 1716/1788 - figlio di Elisabetta Farnese e di Filippo V di Spagna, fu Re di Napoli e Sicilia dal 1735 al 1759 e Re di Spagna dal 1759 al 1788; grande sovrano illuminista lascio il trono italiano al fratello Ferdinando I, uomo di tutt’altra
pasta, ndr). In fondo i Savoia sono stati una dinastia dalla fama non proprio limpida. Per giunta in balìa del francese Napoleone III. Direi che nella prima metà dell’Ottocento i giochi non erano fatti e avrebbe potuto prevalere un destino diverso. Oltretutto, il Sud aveva un’economia rurale più ricca di quella del Nord e in alcune città c’erano stati i segni della rivoluzione industriale».
Oggi il divario è più marcato.
«Non ha senso parlare della Napoli di allora come se si parlasse della Napoli di oggi rispetto alla Milano odierna. Sul passato, c’è stata una distorsione, frutto non solo dell’ignoranza della storia ma anche dell’ignoranza della storiografia. Inoltre, come dicevo, è andata in buona parte dispersa l’eredità di Benedetto Croce».
Per tornare ai celti, il suo collega barese Raffaele Licinio, direttore del Centro di studi normanno-svevi di Bari, ha sostenuto che l’eredità lasciata dai normanni al Mezzogiorno italiano è assai più concreta di quella celtica, celebrata dalla Lega di Bossi per quel che riguarda il Nord. Concorda?
«Sì. Quella nel Sud Italia è stata l’unica esperienza politico-sociale dei normanni lontano dalla Normandia».
Qual è il contributo dato in questo campo dal Centro, di cui lei è vicepresidente?
«Il Centro è molto noto, di grande visibilità, grazie alla regolarità con cui sono svolte le eccellenti giornate normanno-sveve
(con scadenza biennale, ndr) e alla tempestività con sono diffuse le relative pubblicazioni. Sta riscuotendo interesse anche tra il grande pubblico. Malgrado i mezzi finanziari scarsi. Al contrario, iniziative come le settimane di Prato per lo studio dell’economia tardo medievale, svolte con grandi mezzi e grandi nomi, non lasciano traccia. Ne approfitto per ricordare il caro amico Giosuè Musca
(professore di Storia medievale a Bari e direttore del Centro dal 1982 al
2002, ndr), recentemente scomparso, che si è dedicato al Centro studi come a un santuario».
Ha parlato di mezzi scarsi. Anche in Francia i fondi per la ricerca sono sempre meno?
«Sì. Però in Francia siamo partiti da finanziamenti più alti, quindi si scende verso il basso più lentamente. La mancanza di una politica delle ricerca efficace è un problema in tutta Europa, ma in Italia è davvero difficile andare avanti. Tanto è vero che in tutti i campi scientifici si assiste a un esodo dei ricercatori italiani verso l’estero».
In attesa di tempi migliori, il Medioevo interessa molto la gente, anche se si tratta spesso di un Medioevo immaginario, cinematografico. In Italia si stanno rivalutando le antiche vie medievali dei pellegrini, soprattutto in chiave turistica. Anche in Puglia, con la riscoperta della via francigena meridionale e della via dei Longobardi. Come giudica questa tendenza?
«Per certi versi, va bene. La storia delle aree stradali deve aver colpito molto i burocrati di Bruxelles, che hanno deciso di dedicarvi finanziamenti. Con effetti benefici sul piano industriale-turistico ma assai meno rilevanti su quello della ricerca».
Cosa intende dire?
«Che, ad esempio, dal punto di vista storiografico del cammino di Santiago si sa già tutto da mezzo secolo, senza bisogno di aspettare la burocrazia di Bruxelles. Semmai adesso bisogna vigilare».
Perché?
«Per evitare che gli interessi economici abbiano la meglio su quelli scientifici e culturali. In Grecia già si concede di intraprendere campagne archeologiche solo a chi può dimostrare di aver i soldi necessari per trasformare i siti in luoghi turistici. Si rischia di dover assistere alla ricostruzione di un passato che non è mai esistito. Lo sviluppo turistico non può diventare un'occasione per fare scempi. La Puglia deve fare le cose con intelligenza: ha a disposizione un capitale eccezionale, che deve saper conservare».
©2006 Marco Brando; articolo pubblicato su «Corriere della sera - Corriere del Mezzogiorno» del 25/11/2005.