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       LA MEMORIA DIMENTICATA

a cura di Teresa Maria Rauzino


 


In occasione della presentazione al pontefice Benedetto XVI del volume Riconoscenza dell’Oriente a Benedetto XV Papa della Pace e della Carità durante la cerimonia tenutasi ad Istanbul venerdì 1 dicembre 2006
presso la Cattedrale dello Spirito Santo.

Copertina del volume.

      

Joseph Ratzinger ha voluto imprimere il segno della pace nel suo pontificato assumendo il nome di Benedetto XVI in memoria del predecessore Benedetto XV, che tanto si prodigò durante la prima guerra mondiale per far terminare quella che definì l’«inutile strage» e per mitigare le sofferenze dei combattenti, dei prigionieri di guerra e delle popolazioni civili vittime del conflitto.

Celebrando nel primo giorno dell’anno 2006 la Giornata Mondiale della Pace, Benedetto XVI ha recitato l’Angelus volgendo lo sguardo a Maria Santissima che «benedice il mondo intero mostrando il suo Figlio divino, il Principe della Pace» (Isaia 9, 5). Al termine dell’Angelus il papa ha invitato tutti ad ascoltare il suono di Maria Dolens, la grande campana fusa col bronzo dei cannoni offerto dalle nazioni che si combatterono nella prima guerra mondiale che ogni sera a Rovereto nel Trentino batte cento rintocchi in memoria di tutti i caduti.

Molti avevano creduto che quel conflitto avrebbe posto fine a tutte le guerre, ma nel volger veloce degli anni un altro immane flagello sconvolse tutta l’umanità e innumerevoli altri conflitti locali si sono susseguiti fino ai nostri giorni, rendendo sempre attuale quel messaggio di pace.

Il legame ideale di papa Ratzinger col suo predecessore ha trovato significativa manifestazione venerdì 1 dicembre [2006], a conclusione del viaggio apostolico in Turchia, nel momento della visita alla statua di Benedetto XV, che nel 1921 venne eretta ad Istanbul nel giardino della Cattedrale dello Spirito Santo in segno di riconoscenza dell’Oriente per il «grande Pontefice dell’ora tragica mondiale Benedetto XV benefattore dei popoli senza distinzione di nazionalità e di religione», come indicano le targhe poste allora sul basamento.

Papa Giacomo Della Chiesa, che resse il pontificato nei difficili anni tra il 1914 ed il 1922, è eternato nel bronzo con la mano destra levata nel gesto di arrestare il massacro di milioni e milioni di soldati che per oltre quattro anni soffersero e versarono fiumi di sangue nelle trincee dei campi di battaglia che solcavano vaste regioni europee.

Al ruolo avuto nella prima guerra mondiale da quel grande Pontefice è dedicato il volume intitolato Riconoscenza dell’Oriente a Benedetto XV Papa della Pace e della Carità che Rinaldo Marmara, docente dell’Università Montpellier III e storico ufficiale del Vicariato Apostolico di Istanbul, ha appositamente scritto e consegnato in dono a Sua Santità Benedetto XVI durante la cerimonia di venerdì nella Cattedrale dello Spirito Santo ad Istanbul.

L’opera, con prefazione dell’Ambasciatore d’Italia in Turchia S. E. Carlo Marsili e con introduzioni del Vicario Apostolico di Istanbul S. E. Monsignor Louis Pelâtre e dell’onorevole Massimo Romagnoli della Commissione per le Politiche dell’Unione Europea, traccia la storia del Papa della Pace e dell’infaticabile opera da lui svolta in soccorso dei prigionieri di guerra, basandosi anche su numerose lettere, frutto di ampie ed appassionate ricerche svolte presso l’Archivio Segreto Vaticano, scritte dal fronte e dalla prigionia dagli Italiani di Costantinopoli che accorsero a difendere la patria d’origine.

Fu Benedetto XV a prendersi a cuore le sorti dei prigionieri di guerra delle varie nazioni belligeranti ed a istituire un ufficio per il rimpatrio dei malati gravi. Nell’Impero asburgico, dove anche la popolazione era duramente provata dalle privazioni, i prigionieri soffrivano fame, freddo e malattie, specialmente tifo e tubercolosi, che causarono la morte di circa 123.000 nostri soldati, pari a circa il 25 per cento dei prigionieri italiani (con un’incidenza addirittura doppia rispetto all’indice di mortalità in combattimento, che era intorno al 12 per cento dei militari mobilitati).

Nell’opera di Rinaldo Marmara sono ricordati in special modo i cinquantasei Italiani di Costantinopoli morti per la patria nella guerra 1915-1918, tra i quali tre prozii dell’Autore: Domenico e Fortunato Rotondo, eroicamente caduti nei combattimenti a Bosco Lancia del 22 ottobre 1915, e Demetrio Felice Marmara, anch’egli caduto sul Carso nel fiore della sua giovinezza.

La parte I del volume delinea la figura e l’azione di Benedetto XV e narra l’interessante storia del monumento eretto ad Istanbul in suo onore. La parte II è dedicata alle lettere dal fronte scritte dagli Italiani di Costantinopoli, preceduta dal capitolo di inquadramento storico «L’Italia nella Prima Guerra Mondiale» redatto da Daniele Girardini (fondatore ed animatore del sito www.cimeetrincee.it, che costituisce un punto di riferimento per la materia in Italia) e dal capitolo «1915-1918: sul Carso con la Fanteria », storie di guerra e di prigionia tratte dai documenti e dagli scritti del tenente Adolfo Zamboni del 141° reggimento fanteria, che col reggimento gemello – il 142° - costituiva la brigata Catanzaro che di quella tremenda guerra può essere presa come emblema.

Logorata da lunghissimi turni in trincea di prima linea nei settori più contesi del più duro tra i fronti, quello del Carso, ed impiegata come reparto d’assalto per oltre due anni in tutte le più sanguinose offensive, la Brigata dalle mostrine rosse e nere, colori fatidici del sangue e della morte, era nota perché «nella Brigata Catanzaro fatalmente si muore, speranza non c’è». Le molte pagine gloriose scritte dalla brigata Catanzaro vennero ingiustamente oscurate dopo il tragico doloroso episodio della rivolta armata della notte tra il 15 ed il 16 luglio 1917, la più grave accaduta sul fronte italiano, e la decimazione che ne seguì.

Fanti della Brigata Catanzaro, muniti di rudimentali maschere antigas, sul Monte San Michele.

Attraverso la storia di questa Brigata, che fu una delle più valorose e sfortunate dell’esercito italiano, rivivono dopo novant’anni le vicende di quei soldati di fanteria, «…i malvestiti, i laceri, i sudici, i buffi e miserabili soldati di fanteria … i pazienti, i buoni, gli ignari soldati di fanteria, che … hanno conquistato a furia di sangue trincee e trincee, ucciso senza odio e senza odio data la vita, che hanno compiuto miracoli e sacrifici indicibili, che sono morti a migliaia senza capire e senza farsi capire,… che sono morti in combattimento con cristiana rassegnazione…»

L’interesse di Rinaldo Marmara per la storia della brigata Catanzaro e per le vicende militari ed umane dei suoi fanti è nato dalla scoperta da lui fatta su Internet di una tra le pagine più toccanti scritte dal tenente Adolfo Zamboni: L’Ave Maria in trincea.

Questo giovane ufficiale di complemento, che era andato in guerra con quella cristallina coscienza del dovere quotidiano da compiere che appare fermissima nel suo testamento, prese parte a tutte le azioni del suo Reggimento sul Carso e sull’Altipiano d’Asiago, dove fu gravemente ferito, distinguendosi sempre per la coraggiosa condotta e la calma abituale anche nei più aspri combattimenti e meritando numerose alte decorazioni al valor militare.

Per singolare coincidenza anche il tenente Zamboni, che era stato fatto prigioniero nella controffensiva nemica del 4 settembre 1917 in cui l’intera brigata Catanzaro fu rinchiusa in una sacca e che nel lager di Mauthausen si era gravemente ammalato, venne rimpatriato su uno di quelli che furono chiamati i treni del Papa. Egli giunse in Patria il 12 Ottobre 1918, quando la guerra volgeva ormai al termine, e venne accolto all’Ospedale Militare Ricovero Nuovo di Bergamo, dove prestava servizio come cappellano militare il tenente Angelo Roncalli, destinato a diventare Delegato Apostolico proprio in Turchia e poi Pontefice col nome di Giovanni XXIII. A lui è dedicata una via nel quartiere Pancalti ad Istanbul – dove egli svolse la sua missione dal 1935 al 1944 – ed in suo ricordo è stata recentemente posta nella basilica di sant’Antonio ad Istanbul una statua che raffigura il Papa Buono che regge nella mano destra la colomba della Pace.

Nel segno della Pace una colonna mozza in memoria delle tante vite lassù spezzate è stata posta l’anno scorso sul Monte Mosciagh, sopra Asiago, dove i fanti della brigata Catanzaro si sacrificarono sul finire del maggio del 1916 per frenare l’impeto avversario nel momento culminante della Strafexpedition. Il Sentiero Europeo della Pace, che collega i principali fronti della Grande Guerra, passa proprio accanto alla piccola silenziosa radura nel bosco ricresciuto sulla cima del Mosciagh dopo le battaglie, accanto ai due minuscoli cimiteri di guerra a proposito dei quali lo scrittore Mario Rigoni Stern ha scritto che «in questo luogo uno capisce l’inutilità delle guerre».

     

PROFILO DI ADOLFO ZAMBONI, combattente per la patria e la libertà, educatore, filosofo (Cologna Ferrarese 1891 – Padova 1960)

Adolfo Zamboni nacque a Cologna Ferrarese il 2 marzo 1891, primo dei sette figli del gastaldo Giovanni, e ricevette il battesimo dal cugino don Zama Zamboni, luminosa figura di santo sacerdote pauper, servus, humilis.

Durante la giovinezza passata nelle grandi bonifiche del Ferrarese e del basso Tagliamento con la numerosa famiglia, caduta in miseria a causa della malattia del padre, entrò a contatto con la misera classe bracciantile, che al principio del ‘900 andava prendendo coscienza sociale e politica. Le dure prove affrontate in gioventù contribuirono a temprare il suo carattere.

Dopo tante fatiche e sacrifici sostenuti da lui solo, privo di ogni mezzo, stava per laurearsi brillantemente in Lettere all’Università di Padova quando la patria lo chiamò a compiere il suo dovere ed egli rispose con entusiasmo. Sulla durezza della guerra che lo aspettava non si faceva illusioni: era consapevole che i pericoli erano molti e gravi. Non era certo partito per la guerra sedotto dalla magniloquente retorica nazionalista, che tanta parte aveva avuto nell’interventismo italiano. Egli infatti, come i migliori della sua generazione, si era accostato alla guerra con fresco animo risorgimentale e con una mazziniana cristallina coscienza del dovere quotidiano da compiere, che appare fermissima nel suo testamento di guerra e nelle sue lettere dal fronte.

Risultato tra i primissimi del suo corso alla Scuola di Modena e nominato sottotenente di complemento, prestò servizio per oltre due anni nel 141° fanteria (che col gemello 142 ° formava la brigata Catanzaro, la quale per oltre due anni fu impiegata come brigata d’assalto nelle più sanguinose offensive sul Carso). Prese parte a tutte le azioni del suo Reggimento sul Carso e sull’altipiano d’Asiago, distinguendosi per la coraggiosa condotta e la calma abituale anche nei più aspri combattimenti.

In trincea il suo amor patrio ed il suo radicato senso del dovere, addolciti dal sorriso aperto e dallo scherzo di sapore e tono bonariamente romagnolo, si accostarono alla profonda umanità dei fanti venuti dalla remota Calabria, poveri figli di una regione abbandonata, cresciuti nella religione del dovere e del lavoro, che in guerra rivelarono tutta la loro audacia ed il loro valore. Prodigandosi per loro con coraggiosa abnegazione, il tenente Zamboni si guadagnò la fedeltà e l’affetto dei soldati del suo plotone, che nei sanguinosi combattimenti gli furono fedeli fino ad affrontare per lui con indifferenza il pericolo.

Ricoverato in ospedale a Padova per le gravi ferite riportate sul Mosciagh la notte sul 28 maggio 1916, il sottotenente Zamboni ne approfittò per laurearsi in Lettere col massimo dei voti e la lode.

Egli fece subito ritorno tra gli uomini del suo plotone prima della scadenza della licenza di convalescenza, per evitare il rischio di essere assegnato ad un altro Reggimento, giungendo così al 141° in tempo per prender parte alla battaglia per la conquista di Gorizia che iniziò il 6 agosto.

Nel corso della guerra fu decorato con tre Medaglie d’Argento al Valor Militare per le azioni sul Monte Mosciagh, sul Monte San Michele e sull’Hermada e con la Croce al Merito di Guerra. Ricevette la promozione sul campo a tenente per meriti eccezionali di guerra e fu nominato Aiutante Maggiore del Comandante del Reggimento.  

Ritratto fotografico del sottotenente Adolfo Zamboni.

Rifiutò di essere assegnato ad un comando nelle retrovie, dove avrebbe potuto evitare il continuo pericolo incombente e le improbe fatiche della vita di trincea, affermando che preferiva rimanere in prima linea col 141° Reggimento, di cui conosceva tutta intera la storia, tutte le glorie, come tutti i dolori, intimamente da lui vissuti. Ed a chi disapprovava la sua scelta rispondeva: «Sarò sciocco. Pazienza: al mondo non siamo tutti furbi. è forse bene che sia così».

Con Francesco Baracca e Gabriele d’Annunzio fu tra i pochissimi italiani a ricevere la massima decorazione francese, la Croix de Guerre avec Palme, che gli fu consegnata durante una grande rivista militare dal presidente della Repubblica Francese Poincaré, alla presenza del re d’Italia e dei generali Cadorna, Porro e Capello. Il maresciallo Petain gli concesse l’altissimo onore della Citation a l’Ordre de l’Armée.

Fu insignito, eccezionale onore per un giovane tenente, della Croce di Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia per benemerenze di guerra.

Fu fatto prigioniero, dopo una tenace ma vana resistenza, durante l’improvvisa controffensiva nemica che all’alba del 4 settembre 1917, sfondando i reparti che la fiancheggiavano, avvolse in una sacca l’intera brigata Catanzaro.

Trascorse oltre un anno nei campi di prigionia austriaci di Mauthausen, Spratzen e Winterbach, vivendo tra gli stenti, la fame nera e le epidemie. Si ammalò anch’egli gravemente e venne rimpatriato come invalido quando la guerra volgeva ormai al termine.

Della guerra e delle sue esperienze di combattente non amava parlare e quando, di rado, lo faceva era soltanto per ricordare i memori pellegrinaggi da lui compiuti in solitudine sul Carso.

Lasciò alcuni scritti pubblicati pochi anni dopo la fine del conflitto, tra cui: Scene e figure della nostra Guerra e Il 141° Reggimento Fanteria nella Grande Guerra.

Abbandonò la carriera militare per abbracciare quella dell’insegnamento, verso la quale era spinto da una vera vocazione e per quarant’anni fu docente di Storia e Filosofia presso il Liceo Scientifico Ippolito Nievo di Padova.

Era egli una gentile figura di studioso, che desiderava vivere tra i libri, gli studenti e la famiglia la vita tranquilla e pacifica che si conveniva al suo carattere. Ma quando la coscienza gli impose di difendere la libertà e la dignità umana il mite professore si trasformò in magnifico Cospiratore e Resistente.

Possedeva una profonda cultura, una mente aperta ed un profondo spirito critico, che gli fecero intuire fin dall’inizio a quale servitù dello spirito ed a quali calamità avrebbe condotto la dittatura fascista. Fermo oppositore del regime, dimostrando inflessibile coerenza fu tra i pochissimi insegnanti che rifiutarono di iscriversi al partito fascista.

Il suo profondo ideale di libertà e l’indomito senso di giustizia lo condussero ad aderire al movimento clandestino Giustizia e Libertà. A dispetto dell’assidua sorveglianza esercitata su di lui dalla polizia politica su direttive scritte impartite personalmente dal Capo della Polizia da Roma, tenne a lungo una rischiosa corrispondenza clandestina con altri intellettuali contrari al fascismo e confinati politici, procurandosi dall’estero e diffondendo giornali e libri proibiti.

Subito dopo l’occupazione militare nazista nel settembre del 1943 organizzò, come rappresentante del Partito d’Azione, il Comitato di Liberazione Nazionale Provinciale di Padova, di cui ospitò a casa propria le riunioni segrete. Raccolse ed armò le prime formazioni di Partigiani sul Monte Grappa. Fu responsabile dell’organizzazione militare ed animatore, tra le altre, della famosa Brigata Guastatori Silvio Trentin del Corpo Volontari della Libertà, che arrivò a contare oltre settecento partigiani combattenti.

A Concetto Marchesi, Rettore dell’Università di Padova, tempio della secolare Universa Universis Patavina Libertas, che nella solennità inaugurale del 9 novembre 1943 lanciò aperta la sfida agli oppressori, fu unito dal comune intento di preparare l’insurrezione per salvare la patria dall’obbrobrio di un regime che l’aveva tutta corrosa e trascinata alla rovina.

Fu maestro, compagno di lotta ed amico di Egidio Meneghetti, capo del Comitato di Liberazione Veneto.

Si attivò anche per sottrarre i soldati del disciolto Esercito Italiano all’internamento nei lager nazisti e per aiutare i ricercati politici, gli ebrei perseguitati ed i militari anglo-americani fuggiti dai campi di prigionia ad evitare la cattura da parte dei nazifascisti. In questa sua instancabile opera fu coadiuvato da molti religiosi padovani, tra i quali il gesuita padre Carlo Messori, Rettore dell’Antonianum, e i benedettini dell’abbazia di Santa Giustina: l’abate Campi e i padri Giordano, Angelo e Stefano.

Pianse la perdita di molti compagni di lotta. Tra quelli a lui più vicini e cari caddero vittime della ferocia fascista Mario Todesco e Otello Pighin. Il primo, professore del liceo Tito Livio, impegnato nella missione di restituire alla scuola padovana il perduto decoro, fu seviziato e trucidato da scellerati sicari nel cuore di Padova nell’orrenda notte del 20 giugno 1944. Il secondo, giovane professore di Ingegneria, impavido organizzatore col leggendario nome di battaglia di Renato delle imprese più audaci, il 7 gennaio 1945 venne ucciso barbaramente e vigliaccamente dalle SS repubblichine che ne fecero un Martire della Resistenza.

Il 18 novembre 1944, tradito da uno dei collaboratori, il professor Zamboni venne condotto a palazzo Giusti a Padova, il tristamente noto covo e carcere della famigerata banda Carità, un reparto speciale italiano al servizio delle SS germaniche comandato dal sanguinario Sturmbannfűrer Mario Carità. Sopportò senza piegarsi un calvario di interrogatori e tormenti durato centosessantun giorni. In quelle tetre celle ritrovò alcuni dei suoi allievi e allieve, che rincuorò e incitò a resistere con la parola e l’esempio. Condivise le pene con un suo intrepido collaboratore, don Giovanni Apolloni, insegnante del seminario.

Dopo la Liberazione fu Provveditore agli Studi di Padova, incarico che resse con trasparente integrità.

Seguendo un certo percorso interiore, lo Zamboni filosofo e studioso pubblicò opere su Bacone, Platone e Leibniz.

Ispirato dalla sua visione politica e sociale armonica ed ottimistica, con le sue nozioni filosofiche, suffragate dall’esempio di un’esistenza integerrima, formò come uomini e come cittadini innumerevoli giovani, alla cui educazione aveva consacrato l’esistenza. Nella scuola come nella vita insegnò, praticandole, la decisione senza ostentazioni, la modestia senza ipocrisia, il coraggio senza posa, l’antiretorica.

Man mano che s’avvicina al declinar dell’età, l’uomo sente acuirsi nell’animo la nostalgia delle cose passate. Per questo, forse, dopo molti anni da che si era spenta l’eco delle battaglie, Adolfo Zamboni desiderò rivedere e ripercorrere le petraie carsiche, sostando particolarmente in quei luoghi dove aveva conosciuto le asprezze della lotta e sacrificato la propria giovinezza. Mutato era egli nell’aspetto, ma non nell’animo: perchè era stato sempre vivo nella sua mente il ricordo di quei tempi tristi e solenni, né si era illanguidita in lui la visione tragica delle scene di guerra. Ricordava, e sentiva presenti nell’animo, i tanti giovani ufficiali suoi commilitoni che giacevano nei cimiteri di guerra, ed i tanti, tanti soldatini che il gergo militare chiama semplici ma che egli definiva sublimi, poiché a tale altezza assursero col sacrificio per la patria. Da quelle memori visite trasse l’ispirazione per l’ultimo dei suoi scritti sulla guerra: Pellegrinaggio al Carso.

La morte lo colse all’improvviso il 7 gennaio 1960 mentre percorreva la via verso la scuola. Gran folla di cittadini partecipò ai suoi funerali. I componenti della Comunità Israelitica, che vi presero parte numerosi, sottolinearono che la loro presenza era espressione di fervida riconoscenza per tutto il bene che loro aveva fatto silenziosamente nel momento del dolore e della persecuzione.

Una via gli fu dedicata dalla città di Padova affinché venisse serbata memoria delle sue doti di uomo, di educatore e di cittadino e una lapide fu posta a ricordo nel suo Liceo dove per quarant’anni aveva insegnato degnamente, illuminando schiere di giovani.

  

Adolfo Zamboni (tenente di fanteria nella brigata Catanzaro)

L'Ave Maria in trincea

Vi è anche per il combattente un'ora di pace e di raccoglimento: quella che accompagna il tramonto. Durante l'interminabile giornata, nei periodi di sosta o di preparazione, il fante lavorava a scavar la roccia, a costruir camminamenti, ad approfondir trincee. La notte era veglia: chi montava di vedetta, chi scendeva a prender il rancio, chi usciva a fortificare il reticolato; ma nell'ora che accompagnava il tramonto, quando nella Patria che sembrava così lontana le mille campane suonavano l'Ave Maria, allora il combattente si raccoglieva in se stesso e pensava e pregava.

Pensava ai cari lontani e nel suo animo si ridestavano i ricordi soavi; si dimenticava le tribolazioni, il lungo calvario, e si lasciava cullare da vaghe speranze. Talora, percorrendo le trincee avanzate, si assisteva a uno spettacolo commovente: a gruppi, i soldati erano riuniti, in quest'ora di dolce ristoro, e recitavano il rosario. Ognuno di loro aveva in mano un sacro ricordo: chi percorreva con la mano rossa di fango la lunga fila della corona, chi contemplava una immagine santa ricevuta con un bacio dalla madre prima della partenza, chi mirava, con gli occhi bagnati di lacrime, il ritratto di qualche persona cara. E tutti insieme recitavano sommessamente l'Ave Maria; i più lontani raccoglievan la voce o ripetevano le ultime parole della preghiera.

Così in quei rozzi petti, abituati alla lotta con l'uomo, trovava luogo la pietà; in quegli occhi, abituati a veder scorrere quasi con indifferenza il sangue, brillavan le lagrime, appena il pensiero della famiglia si ridestava più intenso nella pace della sera, appena il sentimento della religione li trasportava lungi dal campo della lotta, in un mondo dove domina la pace e la fratellanza. Il sole, tramontando, tingeva di rosso il mare lontano, laggiù verso Grado, dove va a trovar riposo il rapido Isonzo; dietro si stende l'ampia pianura friulana coi suoi ridenti paeselli: ma di fronte stava la morte: le colline del Carso, quando calava la tenebra, apparivano nella loro tetra sterilità e di tanto in tanto s'illuminavano sinistramente ai bagliori delle vampate dei cannoni.

    

          

   

©2007 Adolfo Zamboni

   


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