LA MEMORIA DIMENTICATA |
a cura di Teresa Maria Rauzino |
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Fino agli anni Sessanta, si rappresentava un’antica “sceneggiata” i cui personaggi venivano interpretati sempre dagli stessi attori; la tradizione è scomparsa con loro.
Carnevale a Peschici.
Durante il Ventennio fascista, precisamente nel
Questa ordinanza, nel Gargano nord, non veniva rispettata. I Peschiciani, anche in tempi magri come quelli degli anni Trenta, festeggiavano il Carnevale con grande entusiasmo: gli uomini si travestivano da donna e le donne da uomo ed andavano girando per il paese, fermandosi in tutte le case dove c’erano allegre feste da ballo.
Sui fili, stesi da un alto all’altro degli stretti vicoli del borgo, venivano appesi numerosi pupazzi di paglia, i cosiddetti “Carnevali” che la notte del martedì grasso venivano bruciati o buttati in mare dalla Rupe del Recinto Baronale, nei pressi del Castello.
Durante il Carnevale, fino agli anni Settanta, nella cittadina garganica si usava rappresentare la “Zeza Zeza”, un “pezzo” di antico teatro popolare di origine settecentesca, importato da Napoli. La rivista napoletana delle tradizioni popolari, il «Giambattista Basile», riporta la definizione della Zeza napoletana come «cantata vernacola... sul gusto delle atellane che successero alle feste Bacchiche, alle Dionisiche e, quindi, ai fescennini e alle satire. Trae argomento dagli amori di un Don Nicola, studente calabrese, con Vincinzella, figlia di Zeza e Pulcinella».
I fescennini sono l'esempio più arcaico di teatro nella cultura latina, caratterizzati da versi mordaci, pungenti, espressioni spinte e a doppio senso che dovevano suscitare ilarità in chi li ascoltava.
Nella Zeza di Peschici i personaggi erano quattro: Zeza (la madre), il Padre, Vincenzella (la figlia) e Don Nicola (il giovane avvocato innamorato della ragazza). C’erano anche il Coro, formato da un folto gruppo di maschere, ed i suonatori.
Di sfondo, un elemento caratteristico della società feudale: lo jus primae noctis che i padroni esercitavano sulle ragazze del popolo, debitrici sempre di qualcosa (qui è l’affitto arretrato della casa) nei loro confronti, a causa dell’estrema povertà. Ma nella logica del mondo alla rovescia, di cui è espressione il Carnevale, le classi popolari, con l’unica ricchezza gratuita che posseggono, cioè la bellezza delle loro donne, vincono sull’altro mondo, attirandolo, sfruttandolo e traendone profitto. Il sogno popolare sembra finalmente realizzarsi in quei magici giorni.
Peschiciane in maschera.
Il personaggio del Padre, anticamente interpretato da Pulcinella, è un ruolo patriarcale caratteristico della tradizione meridionale: chiuso in una falsa mentalità puritana, ponendosi come retto difensore dell' “onore” della figlia, la tiene segregata in casa, impedendole di “praticare” con chiunque. Emerge con chiarezza l’importanza della sua figura, chiamato da Vincenzella “Gnor padre”, ma anche il fatto che ad averla vinta su di lui è sempre Zeza, la moglie, che sa bene come blandirlo. Zeza è una popolana che cerca di sbarcare il lunario. Per questo, pressata dalla paura di essere sfrattata in quanto l’affitto è ancora da pagare, non esita a far entrare in camera di Vincenzella don Nicola, il padrone di casa. Il marito di Zeza, rientrato all’improvviso, trova Don Nicola nascosto sotto il letto della figlia. Accecato dall’ira, accusa la moglie di non aver vigilato sull’onore della ragazza. Zeza, a questo punto, si ribella: fa notare al marito che la pigione è arretrata di tre mesi, che Don Nicola è venuto a esigerla e che, se non fosse stato per la “generosità” di Vincenzella, lui sarebbe già in carcere.
Zeza, tutta presa dal suo ruolo matriarcale, rivendica per la figlia il
diritto di praticare l'amore "liberamente" con cento innamorati e con
tutti quelli che le garbano: con principi, marchesi e persino con gli abati che
bazzicano spesso nei dintorni della casa.
La chiusa della farsa è a lieto fine. Il padre, convinto dalle
argomentazioni di Zeza, acconsente
alle nozze riparatrici. In fondo, imparentarsi con chi frequenta
Ma è Vincenzella che scioglie l’intreccio, interponendosi tra i due e inducendoli alla ragione, con argomentazioni forti: «Mio caro Don Nicola non ammazzare mio padre, non farmi ricordare per sempre questa giornata! Ti dico di lasciarlo andare, di lasciarlo stare. Lui, per forza, deve darmi a te!». La ragazza si rivolge con toni irati verso il genitore: «Che hai signor padre? Perché non vuoi farmi sposare? Dopo ti farò vedere io cosa ti combino!». Il padre, offeso dal suo parteggiare per chi sembra averla plagiata come un diavolo tentatore, arriva a minacciarla di morte insieme al suo amante.
L’amore,
alla fine, vincerà e Don Nicola potrà sposare liberamente la sua Vincenzella.
Il giovane invita tutti alla festa:
«E
adesso faccio un invito a tutti questi signori, perché a casa di Don Nicola si
mangiano i maccheroni, anche quello lungo (cannaruto) oinè!».
A Peschici, il giorno del martedì grasso, il menu prevedeva i maccheroni fatti in casa, “tirati” dalle massaie con un ferro a sezione quadrangolare. Li si condiva con il sugo di carne per i ricchi e con il sugo di polpette e ventresca per poveri. Era usanza stendere un maccherone più lungo degli altri. Poiché si usava mettere in tavola un unico piatto, chi, per sorte, mangiava questo maccherone, veniva canzonato come cannaròute, cioè il “goloso” della famiglia.
Evidenti concordanze con
Questa antica farsa popolare è oggi rappresentata a Solofra, elaborata e fatta propria dal popolo irpino con il titolo di Canzone di Zeza. Durante il Carnevale viene presentata da vari gruppi che la cantano nelle vie della città, accompagnandosi con nacchere, triccheballacche e tamburelli. Segue l’immancabile tarantella cui partecipano tutti gli spettatori. La Zeza è interpretata solo da attori uomini poiché alle donne, come nell’antica commedia, l’esposizione al pubblico è vietata. C’è un capozeza-regista che guida la presentazione, dialoga con il pubblico e dà inizio alla sfrenata tarantella finale.
è presumibile che anche le modalità di presentazione, gli strumenti
musicali d’accompagnamento e il ballo di chiusura fossero gli stessi anche a
Peschici.
Carnevale a Peschici.
La morte di Carnevale segnata dalle fiamme
A Peschici
ogni quartiere preparava il suo fantoccio di Carnevale, si usava paglia, carta e
abiti, i più malandati che ci fossero in circolazione. La mattina di martedì,
ultimo giorno di Carnevale, tutti i fantocci, vestiti di tutto punto, con in
braccio l'immancabile bottiglione di vino, venivano appesi ai crocevia,
sostenuti da robuste corde. Dopo aver mangiato e bevuto, ci si mascherava e si
girava in gruppo per il paese; non mancava chi si improvvisava attore e si
esibiva in scenette umoristiche. Fra le drammatizzazioni, degna di nota era
“l’Operazione”, un vero e proprio intervento chirurgico cui veniva
sottoposto Carnevale. Si preparava un fantoccio nella cui pancia si metteva di
tutto, scarpe vecchie, cipolle, corde, patate, ecc., lo si caricava su di un
asino al cui seguito c’era un chirurgo, accompagnato da un corteo di gente
mascherata da madre, moglie, figli e parenti di Carnevale. Il dottore tagliava
la pancia del pupazzo e ne estraeva stracci, indumenti, verdure: solo alla fine
estraeva il gigantesco maccherone che aveva provocato l’indigestione del
Signor Carnevale. Durante l'operazione, la gente che si ammassava intorno
cantava lo stornello Il piede del porco. L’Operazione
veniva ripetuta in diverse strade
del paese, accompagnata da urla, frastuono e risate degli astanti.
All’imbrunire, l’asino con il suo carico e tutto il seguito si dirigevano
verso il Castello, dove il fantoccio di Carnevale veniva gettato in mare dalla
Rupe antistante. I Carnevali appesi nei vicoli, invece, venivano bruciati. Le
alte fiamme illuminavano la notte, segnando l’avvento della Quaresima.
©2007 Teresa Maria Rauzino. Il presente saggio è stato pubblicato sul quotidiano «L'Attacco» del 10 febbraio 2007.