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(Nome tedesco: Hrotsvith von Gandersheim; nome latino medievale: Hrotsvitha o Rotsvita)
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L’opera di Rosvita purtroppo ebbe pochissima diffusione nell’immediato; basti pensare che l’unico codice noto è quello di Sant’Emmerano a Ratisbona. Conobbe maggiori fortune soltanto nel periodo umanistico grazie al lavoro di alcuni validi studiosi, tra i quali è necessario ricordare il nome di Corrado Celtes che pubblicò un suo lavoro critico sull’opera di Rosvita nel 1501.
Rosvita di Gandersheim, scrittrice mediolatina di patria tedesca, fu una delle figure più notevoli della cosiddetta “rinascenza ottoniana” poiché la sua maturità coincide col primo periodo del regno di Ottone I (961-983). Nata verso il 935 e morta poco dopo il 973, lascia la sua vita sospesa al filo dell’incertezza poiché i suoi dati biografici non sono puntualizzabili con assoluta certezza. Presumibilmente di nobile famiglia, entrò all’età di 23 anni nel convento benedettino di Gandersheim, dove passò tutta la vita. La sua formazione letteraria, che include larghe conoscenze d’autori classici e cristiani, fu stimolata alla scrittura dalle badesse Riccardia e Gerberga II, quest’ultima figlia di Enrico di Baviera e nipote di Ottone I, donna intelligente e attiva promotrice di cultura nel monastero. Lo studio della tradizione classica e cristiana non doveva, secondo i criteri didattici di Gerberga, restare semplice erudizione, ma dare lo slancio all’anima, elevarla verso il soprannaturale. Da questa formazione, la giovane Rosvita trae lo stimolo a coltivare la poesia e, se in un primo momento nasconde i suoi scritti nella cella, la badessa Gerberga ne scopre il talento e la incoraggia al punto che la stessa scrittrice, nella prefazione delle sue opere teatrali, si autodefinisce «clamor validus Gandershemensis» («alta voce di Gandersheim»).
La sua produzione letteraria comprende innanzi tutto un ciclo di otto composizioni poetiche di carattere agiografico e leggendario in esametri leonini e distici elegiaci che mostrano un’inconsueta larghezza d’orizzonti nelle fonti utilizzate e negli argomenti trattati: Maria (La storia della vergine Maria), De Ascensione Domini (L’ascensione del Signore), Passio sancti Gongulfi (Il martirio di san Gongolfo), Passio sancti Pelagii (Il martirio di san Pelagio), Lapsus et conversio Theophili vicecomitis (Caduta e ravvedimento di Teofilo), Basilius (Un miracolo di Basilio), Passio sancti Dionisii (Il martirio di san Dionigio), Passio sanctae Agnetis (Il martirio di sant’Agnese).
Per queste composizioni Rosvita attinse in genere a testi scritti, ma per la passione di san Pelagio s’affidò alla narrazione che aveva udito da un cordovano, un concittadino del santo, testimone oculare della sua vita e della sua morte. Del resto i libri che le servirono per le altre storie furono testi apocrifi, come il Protovangelo di Iacopo, o storie ricche di elementi meravigliosi che rivelano i gusti romanzeschi di Rosvita.
Compose, inoltre, due poemi storici: i Gesta Ottonis imperatoris e i Primordia coenobii Gandersiani. La prima opera in esametri, composta fra il 965 e il 968 su richiesta di Gerberga, fu presentato all’arcivescovo di Magonza Guglielmo, figlio dello stesso Ottone. Celebra le gesta di Ottone I (sino all’incoronazione imperiale del 962) inquadrandole nello spirito cristiano imperiale di tradizione carolingia. Sempre in esametri, Rosvita evocò le origini del monastero cui era legata e del quale si gloriava d’essere l’alta voce. Purtroppo entrambi i poemi non ci sono pervenuti interamente.
Ma tutte queste opere, senza dubbio di per sé notevoli, non sarebbero bastate a concederle un posto distinto nella storia della letteratura latina medievale se tra la prima e l’ultima serie dei suoi poemi, non avesse composto i suoi drammi.
Albrecht Dürer, Rosvita di Gandersheim dona il suo libro a Ottone I
I drammi rosvitiani, ritrovati nel 1494, sono sei: Gallicanus o Conversio Gallicani principis militiate (Gallicano o la conversione di Gallicano, comandante dell’esercito), Dulcitius o Passio sanctarum virginum Agapis, Chioniae et Hirenae (Dulcizio o il martirio delle sante vergini Agape, Chionia e Irene), Callimachus o Resuscitatio Drusianae et Calimachi (Callimaco o la resurrezione di Drusiana e Callimaco), Abraham o Lapsus et conversio Mariae naptis Habrahae heremicolae (Abramo o caduta e ravvedimento di Maria nipote dell’eremita Abramo), Pafnutius o Conversio Thaidis meretricis (Pafnuzio o conversione della prostituta Taide), Sapientia o Passio sanctarum virginum Fidei Spei et Karitatis (Sapienza o martirio delle sante vergini Fede, Speranza e Carità).
Ammiratrice dell’eleganza stilistica di Terenzio, del quale però condannava il contenuto lascivo, Rosvita si propose di applicare l’arte terenziana a esaltare la castità e le altre virtù delle vergini cristiane e l’eroismo dei martiri. Le commedie di Terenzio, infatti, erano divenute un testo scolastico dei più letti e dei più studiati, ma la loro immoralità costituiva agli occhi degli spiriti più austeri un grave danno, perciò Rosvita volle porvi rimedio. Dobbiamo ammettere che l’intento non fu raggiunto e l’imitazione è mancata, ma da questa sorta di contaminatio viene fuori un mondo singolare che concilia in sé con ingenua semplicità gli aspetti più contraddittori, un’opera nuova e originale d’importanza grandissima nel millennio, o poco meno, che intercorre tra le ultime opere del teatro classico e la ripresa medievale delle sacre rappresentazioni.
Del resto Rosvita disconosce i caratteri principali della commedia antica non solo per lo scopo edificante che si propone o per il funebre finale cui conduce l’azione (in genere alla morte esemplare di martiri o penitenti), ma soprattutto per l’assenza dell’elemento comico (se si eccettuano alcune notevoli scene del Dulcitius), per la prevalenza dell’elemento tragico, per la trasgressione delle unità del teatro classico, per la mancanza d’ogni esigenza scenica, per l’abbandono d’ogni specie di versificazione cui è sostituita la prosa ritmata. Ed i suoi drammi non hanno d’altra parte nulla di comune con quei drammi liturgici che proprio allora stavano nascendo nelle chiese e dai quali si sviluppò il dramma nuovo. La sua fu un’opera isolata che, anche se priva di contatti con la contemporanea realtà teatrale, è sorretta da un naturale istinto drammatico.
Gandersheim
La critica moderna è orientata a riconoscere che i drammi di Rosvita, testi tutti dialogici, non furono concepiti per la rappresentazione, bensì per la lettura ad alta voce (la declamatio) e vanno quindi considerati come documento della fortuna del teatro classico nella cultura scolastica del X secolo e non come esperimenti anticipatori di forme teatrali successive.
Non dunque solo la singolarità di questi drammi, ma anche il loro valore intrinseco, ne spiegano il successo in tempi recenti, successo attestato dalle numerose traduzioni in varie lingue, oltre che da qualche tentativo di rappresentazione.
Bibliografia
(cui si rimanda per le indicazioni sulle fonti)
G. Vinay, Rosvita: una canonichessa ancora da scoprire, in Id., Alto Medioevo Latino, Liguori, Napoli 1978. |
F. Bettini, Il teatro di Rosvita, Genova 1979. |
Rosvita, Dialoghi drammatici, a cura di Ferruccio Bertini; introduzione di Peter Dronke, Garzanti, Milano 1986. |
Enciclopedia Europea, Garzanti. |
Grande dizionario enciclopedico, Utet. |
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