Sei in: Mondi medievali ® Chiese, abbazie, monasteri, edifici religiosi italiani ® Sardegna


  a cura di Giuseppina Deligia

pag. 1

Le immagini:  pag. 1    la scheda    testi da consultare


San Sinplicio di Olbia: la facciata e la trifora.

 

  clicca sulle immagini in basso per ingrandirle

Olbia  Olbia

 

Gli inserti in cotto  La formella marmorea  Affreschi  Capitello con teste piriformi  Capitello con arieti

    

 

     

La chiesa, sita all'interno della città di Olbia (area abitata fin dall'età preistorica), è tutta in grandi conci di granito locale ed è sorta nell'aria cimiteriale occidentale in uso dal I secolo al Medioevo.

Nel 1907 Dionigi Scano trattando di questa Chiesa ha fatto notare la sua vicinanza, per quanto riguarda l'esterno, alla Cattedrale di Santa Giusta, pur ammettendo che «...procedendo a più attento esame, riscontriamo in San Simplicio una più rozza e grossolana lavorazione, dipendente non tanto dalle attitudini e dalle capacità degli artifici, quanto dalla qualità del materiale adoperato, granito a grana grossa, mal prestatesi a lavorazioni fini e a delicate ornamentazioni» (pp. 126-127).

La facciata mostra già dall'esterno la tripartizione interna dell'edificio; infatti due lesene con capitello gradonato separano la parte centrale (più alta) dalle testate delle navate laterali.

La navata mediana è a sua volta divisa in due sezioni da una modanatura a sguscio; al centro della sezione inferiore si apre il portale con architrave sorretto dai capitelli degli stipiti che accennano ad una forma derivante dalla metà d'un capitello a stampella, ricordando così, come fa notare Renata Serra (1984, p. 327) analoghi elementi (ma riccamente decorati) del San Gavino di Torres; arco di scarico a sesto rialzato e lunetta ribassata di un concio al cui interno compare una tamponatura in cotto di cui non si trova né una giustificazione strutturale né un riscontro stilistico.

In posizione assiale, nella parte superiore, si apre una trifora, poggiandosi direttamente sulla modanatura stessa, con archetti a tutto sesto una sola ghiera sostenuti dall’abaco (molto eroso) dei capitelli delle due colonnine a fascio, un'abbinata e l'altra polistila, per giunta ofitica. Sopra quest'ultima sono collocate in orizzontale quattro cavità che un tempo dovevano contenere dei bacini ceramici.

Il tutto è incorniciato, «…rimandando a modelli islamici (moschea di Damasco) di ascendenza bizantina» (Serra, 1984, p. 328), dalla ghiera poco aggettante di un arco a sguscio, sormontato a sua volta da altre quattro cavità disposte a croce e ormai vuote; un'altra cavità è visibile a lato della trifora.

Queste cavità si presentano con resti di malta in cui, almeno in qualche caso, è rimasta l'impronta del piede ad anello della ceramica che vi era inserita.

Le indagini finora condotte, molto limitate perché eseguite solo da terra, sembrano attestare che i bacini avevano forme diverse fra loro.

Le due navatelle, divise dalla zona mediana da lesene, poggiano esternamente sulla cornice gradonata della parasta e, al centro, su una mensola, sempre gradonata.

Sotto un archetto della testata sinistra sono state inserite due piccole formelle quadrate di marmo bianco, «…al rombo inscritto in un cerchio a sua volta contenuto in un quadrato si affianca una lastra più grande, pure marmorea, con la strana raffigurazione di due esseri antropomorfici, uno a cavallo con accanto forse un cane» (Serra, 1984, p. 328).

La testata della navatella destra ha tetto piano su cui si erge un campaniletto a vela d'epoca posteriore, mentre la copertura di quella sinistra, in cui si vede una grossa pietra aggettante, che forse doveva sostenere qualche sarcofago (Scano, 1907, p. 127), è ad unica falda.

Il lato destro è diviso da lesene in dieci specchiature, ognuna delle quali contenente due archetti poggianti e sui capitelli gradonati delle lesene stesse e su mensole a sguscio, «...con ritmo simile rispetto alla basilica turritana, ma più serrato, poiché gli specchi appaiono leggermente più sfilati» (Serra, 1984, p. 326).

Al di sopra, a partire dalla quinta specchiatura, si nota una teoria di 14 archetti a tutto sesto in cotto assai singolari perché privi di aggetto sul paramento murario.

Il lato sinistro presenta un identico partito decorativo e, come nell'altro lato, nella seconda, quinta e nona specchiatura si apre una monofora con centina monolitica a doppio strombo. Anche su questo lato a partire dalla quinta sezione si contano, in alto, 14 archetti in materiale laterizio, del tutto simili a quelli prima descritti.

I lati alti della navata centrale sono completamente lisci e in ognuno si aprono tre monofore centinate a doppio strombo.  

L’abside si innesta su paramento murario mediante lesene con capitello a sguscio; altre lesene la dividono in tre sezioni, quella centrale con monofora centinata a doppio strombo e davanzale con cornice modanata.

Il capitello a sguscio della prima lesena da destra presenta scolpita su ogni faccia una piccola protome umana molto erosa.

Le testate posteriori delle navatelle sono in tutto simili a quelle anteriori, eccetto per il fatto che entrambe hanno qui copertura ad una sola falda lungo la quale corre una teoria di quattro archetti in laterizio, simile a quelli dei fianchi. Il frontone posteriore è completamente liscio.

L’interno è diviso, come abbiamo già detto, in tre navate: la centrale con copertura a capriate lignee molto ravvicinate, e la laterali con volta a botte in laterizio. Le navatelle sono separate da quella centrale da una serie di sette arcate tutto sesto per parte.

Nella serie di destra dette arcate sono sostenute da, partendo dall'ingresso, tre pilastri quadrangolari seguiti da una colonna con capitello decorato da 12 protomi umane con volto piriforme, occhi a bottone, bocca piccola con labbra serrate, da un altro pilastro è ancora da una colonna con capitello ad angoli smussati « secondo tipologia protolombarda» (Coroneo, 1993, p. 80); a sinistra invece abbiamo un pilastro, una colonna con capitello ornato da teste di arieti e, in ultimo, un pilastro e altre due colonne con capitello liscio.

Sia all'inizio che alla fine delle due serie le arcate poggiano sul semi-pilastri addossati ai controprospetti.

Memoria alti della navata centrale sono ancora visibili delle interpolazioni in cotto di cui tratteremo più avanti.

Rivolgendo lo sguardo verso l'alto colpisce la presenza di una serie di mensole (disposte lungo la navata centrale sotto le monofore e nelle navatelle sotto l'imposta della volta) che secondo il Delogu (1953, p. 93) dovevano sorreggere una primitiva copertura lignea di cui parleremo in seguito.

Nell’abside si vedono ancora i resti di tre affreschi: due raffiguranti dei santi che secondo la Serra (1990, p. 31) sono da identificare, per motivi storici, con Simplicio e Vittore; e un terzo raffigurante un gruppo di teste di fedeli.

Secondo il Delogu (1953, pp. 92-95) nel San Simplicio è visibile (ad esempio nell'interpolazione di strutture in cotto) il succedersi, anche se entro breve arco di tempo (seconda metà dell'XI secolo per l'impianto; 1110 - 1120 per il completamento), di maestranze per origine e educazione sostanzialmente diverse.

Alla prima fase apparterrebbero tutta la parte inferiore dei muri perimetrali fino alle archeggiature incluse, nonché lo stesso sistema dei sostegni, escludendo le due ultime arcate verso il prospetto.

A questo punto, per motivi non ancora chiari, si dovettero interrompere i lavori «…e le mensole, poste nell'ultimo settore delle navatelle verso l'abside e nella navata centrale subito sopra gli archi, dicono che si cercò di utilizzare quanto fino a quel momento era stato costruito coprendo con capriate questa parte dell'aula e quindi rendendola in qualche modo idonea per l’officiatura».

Al momento della ripresa dei lavori (individuabile per l'impiego del cotto), una diversa maestranza a avrebbe optato per modificare il sistema delle coperture: infatti si coprirono con volta a botte le navatelle e si provvedette a rialzare ancora di un tratto la navata centrale.

Sempre secondo lo stesso autore, giunti a questo punto i lavori dovettero essere ancora una volta sospesi per essere, poco tempo dopo, ripresi e finalmente portati a conclusione. Secondo lo studioso le analogie del primo impianto con quello del San Gavino a Porto Torres (come l’anomalo orientamento della facciata a est e dell'abside a ovest e il disporsi ritmico delle arcatelle dei fianchi) indicherebbero «…un “momento” affine a quello rappresentato dalla basilica di San Gavino e quindi comuni orientamenti».

Se a questo si aggiunge la sua vicinanza col prospetto del San Nicolò di Trullas, questo primo impianto può essere, ragione, posto entro la seconda metà dell'XI secolo.

Renata Serra (1984, p. 625) ha fatto sua la tesi proposta dal Delogu, arrivando ad ipotizzare motivi che dovettero causare l'interruzione dei lavori in un crollo delle pesanti volte a botte delle navatelle oppure un pentimento per sopravvenute esigenze di alleggerimento strutturale. La studiosa è anche la prima a pensare che «…come dalla basilica turritana, il progetto originario del San Simplicio prevedeva absidi contrapposte, di cui venne utilizzata solo quella occidentale, chiudendosi la chiesa con facciata ad est, così da risultare arcaicamente rivolta ad ovest».

Secondo il Coroneo (1993, p. 80), che ha sposato la tesi delle due absidi contrapposte, l'attuale facciata dovrebbe risalire al secondo impianto (sarà poi completata durante la terza fase dei lavori), quando si rinunciò alla seconda abside e al sistema alternato dei sostegni per problemi statici.

A Olbia la sede diocesana è attestata fin dalla fine del VI secolo con il nome di Fausania e con i nomi di Civita dal 1113-16 fino al 1503, quand'è unita, sotto Alessandro VI, a quella di Ampurias e traslata a Castelgenovese (l’odierna Castelsardo). Se si dà per vera la tradizione secondo cui san Simplicio era un vescovo della cattedrale martirizzato nel 304 sotto Diocleziano, si potrebbe dedurre che fin dal IV secolo Olbia fosse insignita della dignità episcopale. Sappiamo per certo che Gregorio Magno si rivolse al vescovo di Cagliari per ordinare Vittore nella serie di Fausania da tempo vacante.

Risale nel 1114 il primo atto (una donazione effettuata dal giudice Ithocor de Gunale), redatto proprio in questo luogo, in cui si fa specifica menzione di un vescovo olbiense, Villano.

Tale documento è molto importante non solo per questo motivo, ma anche perché vi è contenuto un preciso riferimento all'area cimiteriale in cui sorse San Simplicio.

Nel 1858 lo Spano (p. 47) ha fatto menzione anche di un altro documento, datato 1173, sostenendo che al vescovo che vi era citato, Bernardo, doveva riferirsi la costruzione di questa chiesa.

Attualmente l'edificio sacro è oggetto di restauri e scavi archeologici; versa in buone condizioni e, al momento della visita, non tradisce le aspettative dello spettatore.

 

TESTI DA CONSULTARE

  

G. Spano, Chiesa e Badia di San Michele di Salvenero, in «Bollettino Archeologico Sardo», IV,     
               Cagliari 1858, pp. 113-120;
D. Scano, Storia dell’Arte in Sardegna dal XI al XIV secolo, Cagliari 1907;
R. Delogu, L’Architettura del Medioevo in Sardegna, Roma 1953;
R. Serra, La Sardegna, in Italia Romanica, vol. X, Torino 1984
Coroneo, Architettura Romanica dalla metà del Mille al primo ‘300, Nuoro 1993.

               

   

   

©2006 Giuseppina Deligia, testo e immagini. Vietata la riproduzione non autorizzata.

               


  su

Edifici religiosi: indice

Chiese della Sardegna Home di Storia medievale