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Il basilisco in una miniatura del Physiologus.
Le fonti attraverso le quali avviarsi allo studio degli animali nel medioevo – sia nella loro realtà obiettiva, sia nella loro, rappresentazione e nel ruolo che essi assolvevano all'interno della cultura del tempo - sono molte. I documenti relativi alla conduzione agraria possono informarci a proposito degli animali domestici, dell'allevamento, dei costi; i documenti militari ci dicono parecchie cose circa i cavalli; gli statuti dei comuni cittadini e rurali c'informano sui rapporti fra gli animali e le comunità; le cronache, la novellistica, le vite dei santi ci forniscono una quantità di particolari sulla vita quotidiana; le enciclopedie, i trattati, infine quegli specifici scritti che vanno sotto il nome di "bestiari" ci danno il quadro delle conoscenze scientifiche del tempo e del significato etico-etimologico che si attribuiva loro. Inoltre c'è tutta la vasta letteratura d'origine esopica, tradotta anche in racconti o in azioni sceniche di tipo giullaresco (basti pensare al
Roman de Renard). Oltre alle fonti scritte, molte sono poi quelle iconografiche; e notizie relative alle caratteristiche fisiche degli animali si possono poi avere dall'archeologia: dall'abitudine barbarica di seppellire certi animali con l'uomo, fino ai depositi di rifiuti che ci forniscono materiali come avanzi di cibo, utili per un'indagine condotta con l'ausilio dell'osteologia, la scienza storica d'oggi è in grado di "far parlare" una quantità di oggetti, di materiali, di resti. Insieme con Plinio, va ricordato almeno Gaio Giulio Solino, vissuto fra il m e il IV secolo d.G., i cui Collectanea rerum memorabilium fornirono al medioevo ampie cognizioni sui mostri e le terre lontane. Fra V e XII secolo, la cultura medievale si basò essenzialmente sull'esegesi della Scrittura e sul commento delle auctoritates, cioè degli scrittori dell'antichità tradotti o, sovente, riassunti in latino. Tale studio era quindi essenzialmente etico-allegorico: i dati scientifici, ad esempio, non avevano tanto un valore autonomo in sé, quanto servivano a intendere e a ben comprendere in quali modi la potenza di Dio si fosse dispiegata nel creato. E, poiché nelle scuole monastiche e poi vescovili si faceva grande uso delle favole esopiche ridotte in lingua latina da Fedro, dove agli animali si prestavano voce e comporta mento umani e dove dalle storie degli animali si traeva un insegnamento morale, ecco che cultura esegetica e morale esopica si fusero in un atteggiamento che al mondo animale non guardava tanto per trarne notizie sul mondo della zoologia, quanto per assumerne informazioni sul piano etico-allegorico. Ad esempio, di fronte alla notizia che il leone cancella le proprie impronte sul terreno, non ci si domandava se essa corrispondesse più o meno a una realtà effettiva: ma - applicando il sistema esegetico dei «quattro sensi della scrittura» - si constatava che il dato naturalistico fornito a livello letterale corrispondeva a una realtà superiore nell'ambito della quale il leone diveniva il simbolo del Cristo che cancella i peccati del mondo. Questo fu l'atteggiamento mantenuto nei confronti del mondo animale - e nello stesso modo riguardo alle piante negli erbari, alle pietre nei lapidari - da tutta la vasta produzione enciclopedica che giunge al XII secolo e che ha le sue tappe fondamentali nelle Etymologiae di Isidoro di Siviglia (sec. VII), nel De rerum natura di Beda (secolo VIII), nel De universo di Rabano Mauro (secolo IX). Presupposto a questa cultura enciclopedica e alla nostra comprensione di essa, è che la natura è, con là scrittura, specchio della Rivelazione divina, e che quindi banale e pericolosa curiositas sarebbe il conoscerla in sé e per sé: il saggio non deve mirare alla comprensione dei nessi obiettivi tra le cose, che restano ancora qualcosa di superficiale rispetto alla realtà, bensì ai rapporti tra le cose e Dio. E in quest'ordine di idee, è chiaro che non è importante conoscere la struttura intima e le effettive abitudini del leone, quanto capire in che senso esso può essere figura del Cristo (o, in un differente contesto, figura del demonio). Il XIII secolo e la rinascita in Occidente della scienza aristotelica, base di partenza per il progresso scientifico moderno, segnerà rispetto a questo atteggiamento una effettiva rivoluzione, anche se gli esiti e le conseguenze di essa non saranno immediatamente visibili. Le enciclopedie e i trattati duecenteschi di Vincenzo di Beauvais, di Ruggero Bacone, di Alberto Magno, di Tommaso di Cantimpré segneranno nei confronti degli animali e non solo di essi un ben diverso modo d'intendere informazione e osservazione. Di tale mutato atteggiamento è specchio, ad esempio, il De arte venandi cum avibus dell'imperatore Federico II, il quale alla sua corte incoraggiava la s peculazione naturalistica e la stesura di trattati di cinegetica, di ippiatria, insomma di opere nelle quali - con l' occasione della caccia o della cura delle malattie dei cavalli - s'investigasse attentamente sulla natura. Nel suo De arte venandi, Federico dimostra di aver appieno inteso la lezione metodologica di Aristotele in quanto non esita a confutare lo stesso grande filosofo greco, allorché i dati da questi proposti non sembrino coincidere con l'esperienza desunta dalla diretta osservazione. Il Duecento, secolo della razionalità scolastica, eliminò quindi la cultura etico-allegorica? No, dal momento che essa non era tanto un modo d'intendere la realtà, un atteggiamento "prescientifico", quanto piuttosto un linguaggio espressivo dipendente da una specifica visione del mondo. Gli animali continuarono anche dopo Alberto Magno e Tommaso d'Aquino a essere "significanti": cioè a costituire segni che rinviavano a realtà di diverso ordine. Lo vediamo ad esempio nei trattati di araldica oppure in quelli di alchimia, nei quali si continua ad utilizzare una simbologia animale per esprimere realtà morali o filosofiche. L'attualità dei bestiari andò quindi ben al di là del XIII secolo. Modello dei bestiari è un trattato redatto forse nel il secolo d.C. in greco, e denominato Physiologos, dove si prendevano in considerazione circa cinquanta animali e si associavano a citazioni scritturali: si fondava in tal modo una tipologia cristiana dell'animale, scopo della quale era l'associazione di un'immagine zoologica e di un'idea cristologica. Traduzioni del Physiologos si ebbero in siriano, armeno, etiopico e naturalmente - fino dal IV secolo - in latino. Chi si stupisce per l'esotismo della fauna simbolica medievale deve tener conto di due cose: anzitutto che gli uomini e le idee (e le immagini con entrambi) viaggiavano a quel tempo molto più che non si ritenga oggi, e che per esempio l'arte delle steppe con il suo contenuto prevalentemente animale ha lasciato ad esempio all'iconografia romanica un'eredità profonda; in secondo luogo, che fonte principale per tale fauna simbolica è appunto il Physiologos, che traeva i suoi animali essenzialmente da due libri della Bibbia, Deuteronomio e Levitico. La tradizione avviata dal Physiologos latino penetrò profondamente nella cultura medievale, ma la lettura allegorica degli animali andò complicandosi mediante l'uso di altre chiavi interpretative, fornite ad esempio da certe somiglianze esteriori dei vari animali, da rapporti numerici o cromatici, da elementi di tipo etimologico o pseudoetimologico. Isidoro di Siviglia ad esempio, trattando degli animali nel libro XII delle
Etymologiae, si serviva di Plinio e del Physiologus, ma anche di Varrone, di Virgilio, di Ovidio, e fondava o accoglieva leggende (o altre ne scartava) sulla base di accostamenti che la scienza del tempo definiva etimologici, e che noi definiremmo piuttosto omofonici (4) o pseudomofonici: ad esempio, il "castoro" si chiamerebbe così perché si "castra", eccetera. BIBLIOGRAFIA:
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© Franco Cardini (e rivista «Abstracta»).