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di Franco Cardini

L'unicorno in una miniatura medievale.

    

«Now I will believe that there are Unicorns, That inn Arabia there is one tree, the phoenix trone….»: così, nel III atto de La Tempesta, William Shakespeare associa gli unicorni e la fenice nel novero delle cose incredibili per l'uomo. Pure, al tempi di Shakespeare all’unicorno credevano tutti o quasi: non c'era praticamente sovrano che non possedesse uno dei lunghi corni d'avorio dell'animale nella sua Wunderkammer, e non se ne servisse per saggiare le bevande, come controveleno; la polvere d'alicorno si vendeva nelle farmacie, dove il profilo rampante della mitica e indomita belva serviva sovente anche da insegna; esso era, del resto, uno splendido simbolo araldico, che come tale serviva da supporto alle armi regali di Scozia e sul quale s'intratteneva John Guillim nel suo A display of heraldry pubblicato a Londra nel 1610. I corni dell’urocorno, o liocorno, o alicorno, venivano pagati a peso d'oro...

È vero: esso aveva anche dei nemici, come il medico Andrea Marini che nel 1556 pubblicava il libro Contra la falsa opinione dell'alicorno ma anche dei sostenitori agguerriti come Andrea Bacci, medico di Francesco II duca di Toscana, autore di un dottissimo discorso intitolato L’alicorno.

Chi consideri oggi la questione, da Plinio ai giorni nostri, non può certo negare che l'unicorno esista: il pliniano monoceros è, sia pure con qualche inesattezza e qualche incertezza, il rinoceronte; e la stessa moderna nomenclatura zoologica conosce il monodon monoceros, vale a dire il cetaceo chiamato narvalo, al quale appartengono in effetti i corni "di Unicorno" delle molte collezioni sparse in tutto il mondo. Gli unicorni, insomma, esistono: ma non hanno corpo di cavallo né testa e zampe di capra; il loro corno non è dotato di speciali virtù terapeutiche; non sembrano aver particolari rapporti con le vergini. E allora?

L'unicorno sembra esser nato fra Cina e India: in queste aree, quanto meno, si radicano le prime testimonianze di esso o di qualcosa che gli somiglia; mentre in Occidente esso è soltanto un emigrante, qualcosa d’importato. Per il Li-Ki, i quattro animali benevoli sono il drago, la feroce, la tartaruga e il "K'i-lin", nome che sembra riassumere il principio maschile e quello femminile e che è raffigurato come un grande cervo con coda di bue e zoccoli di cavallo, armato di un solo corno, dai peli dorsali di cinque colori e da quelli del ventre gialli o bruni; non calpesta erba viva né uccide animali viventi; compare quando appaiono sovrani perfetti, e la sua comparsa è di cattivo auspicio se viene ferito.

Secondo la tradizione cinese il corno di rinoceronte possedeva caratteristiche terapeutiche e in particolare era considerato un efficace antidoto ai veleni; tuttavia, nessuna confusione nella cultura cinese era possibile tra il rinoceronte, animale ben conosciuto, e il K'i-lin, animale mitico la cui comparsa era associata a eventi straordinari. Il rapporto fra animale cornuto - interpretabile come unicorno - e guarigione da certe malattie si trova in un inno dell'Atharvaveda [1], dove sembra si alluda a una specie di antilope-unicorno; nel Satap atha Brahmana, il pesce-unicorno che salva Manu dal diluvio universale è un avatar [2] di Visnu (ancora una volta, l'associazione tra corno, acqua e salute) ; infine, è al Mahābarāta [3] che bisogna risalire per incontrarsi con l'episodio del rapporto fra la vergine e l'unicorno: l’eremita Rishyashringa ("Corno di Gazzella"), figlio di Ekasringa ("Unicorno"), viene indotto a uscire dal suo romitorio dalla figlia del re, che lo sposa (ma, secondo una diversa versione, viene sedotto da un'etera: l'episodio è comunque di ardua datazione, poiché tutto l'immenso poema è stato composto per stratificazioni tra IV secolo a.C. e III d.C.). Nella tradizione mazdaica persiana, tramandataci nel Bundahishn [4], si parla invece di un immenso onagrobianco unicorno, a tre zampe, che purifica l'oceano orinandovi e che ha una qualche affinità con l'albero Gokard, anch'esso sorgente nell'oceano, e che è considerato il rimedio contro tutti i mali.

Abbiamo cosi individuato, sia pure in ordine sparso, tutti gli elementi del mito medievale dell'unicorno: la sua scontrosità, il carattere mirabile del corno, il rapporto con la salute, con le acque, con la vergine, con l'albero. Ma quali veicoli ne hanno consentito la migrazione in Occidente, e la composizione in un quadro coerente anche se ricco di varianti? A livello puramente iconologico i confronti sia con l'arte delle steppe, sia con quella babilonese-persiana potrebbe già dare qualche risultato. Ma saremmo, ancora, sul piano pericoloso delle somiglianze formali.

Ci viene allora in aiuto Ctesia di Cnido, medico, storico e viaggiatore vissuto fra Ve IV secolo a.C., che fu uomo di fiducia del Gran Re di Persia Artaserse II: tra le sue opere, egli ne compose una, Indikà, sull'India; essa non ci è purtroppo giunta se non attraverso frammenti tramandatici, nel IX secolo, dal celebre patriarca Fozio di Gerusalemme, in un tempo nel quale l'India - conosciuta soprattutto attraverso i racconti fantastici delle gesta di Alessandro Magno - era già divenuta una specie di paradigma dell'esotico. Ebbene, ecco nella versione di Fozio il venticinquesimo frammento degli Indikà:

«In India ci sono degli asini selvatici grandi come cavalli e anche di più. Hanno il corpo bianco, la testa rossa e gli occhi blu. Sulla fronte hanno un corno lungo circa un piede e mezzo. La polvere di questo corno macinato si prepara in pozione ed è un antidoto contro i veleni mortali. La base del corno, circa due palmi sopra la fronte, è candida; l'altra estremità è appuntita e di colore cremisi; la parte di mezzo è nera. Coloro che bevono utilizzando questi corni come coppe, non vanno soggetti, si dice, alle convulsioni o agli attacchi di epilessia. Inoltre sono anche immuni da veleni se, prima o dopo averli ingeriti, bevono vino, acqua o qualsiasi altra cosa da queste coppe. Gli altri asini, sia quelli domestici sia quelli selvatici, nonché tutti gli animali con lo zoccolo indiviso, non hanno né astragalo né fiele, ma questi hanno sia l'uno sia l’altro. Il loro astragalo, il più bello che io abbia mai visto, è simile a quello del bue come aspetto generale e dimensioni, ma è pesante come piombo e completamente color cinabro».

Queste parole - delle quali ignoriamo che parte spetti a Ctesia o a posteriori rielaboratori e che parte invece a Fozio - hanno fatto versare i soliti fiumi d'inchiostro, I colori, anzitutto: Ctesia ha forse visto animali parati a festa e dipinti per l'occasione (come, per l'appunto, è uso indiano), oppure immagini di essi, magari su stoffe? O si sta adeguando a un codice simbolico (e si ricorderà che anche il k'i-lin cinese è colorato)? E poi, a che animale si riferisce? L'"asino selvatico", vale a dire l'onagro, doveva essergli familiare, come lo era in tutta la Persia. Evidentemente con il riferimento all'onagro egli intendeva soltanto render l'idea, per esempio, delle dimensioni o dell'aspetto generale dell'animale. Ha alluso al rinoceronte? Oppure - com'è stato supposto - all'Antholops Hodgsomi, l'antilope tibetana dalle grandi corna dritte, che di profilo possono parere un corno solo?

L'unicorno compare quindi per tempo tra le "meraviglie dell'India", quelle stesse che saranno gran parte della leggenda di Alessandro nell'antichità e nel medioevo. Ma Aristotele non si fidava né di Ctesia, né di niente che non potesse riscontrare di persona, e agli unicorni, nella sua Historia animalium, dedicò soltanto un cenno fugace, esprimendo fra l'altro dubbi sul fatto che potessero esistere animali cornuti ma non provvisti di zampa forcuta. Attingendo ad Aristotele, ma anche a Ctesia stesso e ad altre fonti - tra le quali Giulio Cesare che nel De bello gallico parla di un "bos cervi figura", che abiterebbe nella Selva Ercinia - Plinio il Vecchio parlava con sicurezza del rinoceronte, già ricordato del resto da Erodoto e noto a Roma fin dai tempi di Pompeo, che ne aveva importato alcuni esemplari indiani (ma Plinio conosceva anche la variante africana) per i giochi: «... il rhinoceros con un solo corno sul naso, come si vede spesso. Questa bestia, che è il secondo nemico naturale dell'elefante, affilato il suo corno su un sasso si prepara al combattimento e nella lotta mira soprattutto a colpire il ventre dell'avversario, perché sa che è piuttosto molle. Ha la stessa lunghezza dell'elefante, le zampe molto più corte, il colore del bosso».

Poco più sotto, però, ecco altri tipi di animale, che evidentemente Plinio considerava affini, ma non identici rispetto al rinoceronte:

«In India conoscono anche buoi dagli zoccoli compatti, con un solo corno (unicornes) ... La bestia più feroce è il monoceros, nel resto del corpo simile al cavallo, nella testa al cervo, nelle zampe all'elefante, nella coda al cinghiale, dal muggito profondo, con un unico corno nero che sporge dalla metà della fronte per due cubiti. Dicono che questa bestia non può essere catturata viva».

È evidente che qui Plinio si rifà a Ctesia e a quello che Aristotele aveva chiamato l'asino indiano; e che rinoceronte e monoceronte non potevano che essere per lui due animali diversi - anche se dotati di punti di contatto e suscettibili di confusione - in quanto il primo di essi gli era, se non altro, direttamente familiare. E lo stesso si può dire - per il testo di un altro naturalista romano che però scriveva in greco, Eliano, il quale nel III secolo d.C. conosceva bene il rinoceronte e sapeva che anche i suoi lettori lo conoscevano - al punto tale che riteneva inutile descriverlo - mentre parlava dell'unicorno come di un animale che viveva nell'interno dell'India, ch'era grande come un cavallo, di pelo rossiccio e che gli indigeni chiamavano kartàzonos. Il suo corno era nero e dotato di anelli (o spirali); era scontroso, e lottava anche con le femmine della sua specie salvo nel periodo degli amori.

Per quanto resti qualche dubbio riguardo alla possibilità che Eliano alluda alla solita antilope tibetana, la descrizione pare quella del rinoceronte, non identificato dall'autore con !'animale che invece gli era pur familiare grazie ai ludi circensi. Una prova potrebbe stare nel nome, kartàzonos, dal sanscrito khadgà dal quale proviene anche la parola araba designante il rinoceronte, karkadan.

Dalle dimensioni equine all'aspetto di terribile cavallo, il passo era breve: lo avrebbe fatto - mischiando Plinio ed Eliano - il responsabile di tante creazioni teratologiche del nostro medioevo, Giulio Solino, parlando del monoceros come un mostro dal corpo di cavallo, la testa di cervo, le zampe di elefante, la coda di maiale e un corno di meraviglioso splendore in mezzo alla fronte.

Insomma, un caso banalissimo: una semplice confusione tra dati zoologici abbastanza esatti; riguardanti il rinoceronte (ma con qualche probabile confusione con qualche altro animale, come l’antilope tibetana o l'orice), e dati forse d'origine mitica passati dalla cultura vedica e da quella mazdaica all'Occidente attraverso Ctesia prima, Megastene e il ciclo leggendario di Alessandro poi. In un certo senso, l’unicorno è il primo segnale della "vocazione all’esotismo " della cultura occidentale.

Ma che cosa c'è, in questo piccolo groviglio di malintesi, di tanto importante? Che cosa può aver giustificato il fatto che l'unicorno è divenuto una figura simbolica di primaria importanza nell'immaginario cristiano?

Essenzialmente, la sua presenza - ancora sulla base di alcuni malintesi linguistici - nella Bibbia. Nei libri dei Numeri, del Deuteronomio, dei Salmi, di Giobbe, di Isaia, si parla spesso del re'em. Si tratta di un animale arduo da identificare, ma che è stato messo in rapporto almeno etimologico- linguistico con il rim arabo (l'orice) o con il rimu assiro (il grande uro).

A una specie di grande bufalo, talora rappresentato come unicorno, ha fatto ricorso la tradizione talmudica. Il fatto è che la versione biblica in lingua greca, detta "dei Settanta" (secolo III d.C.) non esitò a rendere il termine re'em con la parola monòkeros e che tale traduzione, che ebbe fortuna, inserì l'unicorno fra gli animali della Bibbia.

È dal Physiologus greco, dove gli animali sono riportati all'unità di misura simbolica costituita da Gesù Cristo, che i dati proposti dalla precedente tradizione classica e la figura del forte animale biblico si armonizzano in una realtà mitica nuova: e compare la leggenda della vergine che può ammansire la fiera. Così, nelle sue celebri Etymologiae, Isidoro di Siviglia parlava del monoceron o unicornus:

«... È  tanto forte che è impossibile per i cacciatori catturarlo; ma, come asseriscono coloro che hanno scritto sulla natura degli animali, gli si pone dinanzi una fanciulla vergine che offre il grembo a lui che sta arrivando; ed esso, posta da campo ogni ferocia, ci pone la testa, e così viene invaso da sopore ed è catturato come se fosse indifeso».

Una volta fondate così le basi della leggenda, la sua "moralizzazione", vale a dire la sua lettura etico-allegorica, procedeva rapidamente. Già Tertulliano aveva paragonato la ferocia dell'unicorno al rigore del Cristo in quanto giudice, e il suo corno alla croce; Ambrogio e Basilio avvicinano il mistero dell'unicorno a quello dell'Unigenito, e Onorio di Autun, nello Speculum de mysteriis Ecclesiae, scrive:

«Per mezzo di questo animale viene rappresentato il Cristo, e per mezzo del suo corno la sua indomabile forza. Colui che si posò in grembo alla Vergine, fu catturato dai cacciatori; ovvero fu scoperto in forma umana dai suoi amatori».

Fra XII e XIII secolo, l'unicorno raggiunge il suo aspetto “classico”: è ormai - sia pure con parecchie varianti possibili - un candido cavallo dal mento barbato e dagli zoccoli bifidi (due attributi caprini), e reca sulla fronte un corno di narvalo.

Si sottolinea il suo carattere di guaritore, sia perché il suo corno purifica le acque e allontana i veleni, sia perché - come si vede nell'unicorno donato da Candace, regina di Etiopia ad Alessandro nell'Alexanderlied, oppure nel Parsival di Wolfram von Eschenbach - incastonata nella sua fronte c'è una pietra preziosa, il carbonchio, dal magico po tere. Il corno, il candore, l’elemento acqua avvicinano d'altronde l'unicorno al regime femmineo del simbolo, e di esso si fa talora non solo il simbolo del Cristo, ma anche della vergine stessa.  

D'altronde, il simbolo è per sua natura ambivalente: e così, al pari di altri animali nobili quanto lui, anche all'unicorno spettò di rappresentare talora il Cristo, ma tal altra anche il suo avversario. La sua ferocia poteva essere interpretata come simbolo di malvagità; e san Basilio non aveva dubbi nell'intendere l'unicorno come il demonio, allo stesso modo del Libellus de natura animalium, che sentenziava: «L'alicornus indica il diavolo, in quanto così terribile e malvagio da non poter essere catturato se non dall'odore della verginità, cioè dalle buone opere e dalle virtù».

In ogni caso, la moralizzazione degli animali, quale veniva presentata nei bestiari, non esauriva l'interesse che il medioevo provava per loro: specie quando - come nel caso dell'unicorno - il premio in palio era il prezioso corno taumaturgico che poteva essere ben pagato. Quando, con il XII-XIII secolo, le frontiere dell’Asia profonda cominciarono a schiudersi di nuovo per l’Europa, si riaprì la caccia all'unicorno. Non a caso, nel documento apocrifo conosciuto come Lettera del Prete Gianni di metà XII secolo, gli unicorni erano tra le meraviglie dell'Oriente. E l'illusione di trovarne durò a lungo, poiché anche il grande naturalista Gessner si aspettava che esistessero in realtà. Ma già Marco Polo, che aveva veduto degli "unicorni", cioè dei rinoceronti, avvertiva che si trattava di brutte e grosse bestiacce, e che la storia della fanciulla vergine non rispondeva a verità.

E allora perché, fino ai medici del Rinascimento, ai cacciatori del Nuovo Mondo e agli psicologi del profondo, si è continuato a cercar l'unicorno? Evidentemente, perché Marco Polo e i bestiari parlavano due lingue diverse, e il rinoceronte visto dal primo non cancellava affatto la creatura mitico-allegorica proposta dal secondo.

La forza del linguaggio dei bestiari non stava affatto nella credibilità "reale" degli animali proposti, ma nella creazione di un sistema di segni capace 'di ricondurre la natura al Cristo in ogni sua rappresentazione, in ogni sua parte, in ogni suo aspetto. La sua almeno ordinaria estraneità all'esperienza quotidiana non era affatto argomento che potesse servire a porre in dubbio la sua esistenza, in quanto egli era anzitutto un segno, il testimone di una realtà diversa da quella dell'uomo. Inoltre, un filo tenace legava il mostro, la belva e il dio. L'umano, il divino, il demonico, il ferino si incontravano e si fondevano continuamente; e se ciò non accadeva nel sistema mitologico-religioso grecoromano in quanto esso era profondamente antropomorfìco, il tema della metamorfosi introduceva anche in esso una correzione che ricollegava l'uomo, il dio, il demone e la belva. 

Un collegamento, anzi una sorta di circolarità degli stati dell'essere, garantita dal carattere politeistico e dalla natura immanentistica dei sistemi mitico-religiosi dell’antichità. Rispetto ad essi, il cristianesimo e già l’ebraismo avevano introdotto un elemento nuovo: il Dio unico, trascendente, creatore; e l’uomo sua creatura diletta, suo primogenito spirituale, che compartecipa della sua natura e che quindi (come si vede nel Cristo, Dio e Uomo) è mediatore tra Dio e il creato, quindi  padrone del creato in quanto possiede un’anima materiale, un nephesh che ha per dimora il sangue, un principio vitale – egli si distingue  dagli animali in quanto ha anche il principio comuni catogli dal soffio divino, lo spirito, la Ruah.

Ne consegue che l'ebraismo, il cristianesimo, l'Islam sanciscono nei confronti del mondo animale un'estraneità più profonda dei precedenti sistemi immanentistici. D'altronde, il bagaglio delle culture precedenti - la greco-romana non meno di quelle orientali e di quelle "delle steppe", che irrompono nel mondo cristiano fra IV e VI secolo - già presente nello stesso apparato simbolico della Bibbia, è troppo forte perché il cristiano possa (e, del resto, voglia) liberarsene. Mostri, belve, animali alimentano l'immaginario demoniaco, ma al tempo stesso passano sotto il velo dell'allegoria a far parte dello stesso tessuto religioso cristiano (si pensi all'Agnello, alla Colomba, al Tetramorfo) o prolungano la loro vigorosa presenza culturale antica per popolare delle loro immagini il pensiero allegorico e morale del mondo cristiano.

Li ritroviamo nella scultura romanica e gotica, nei simboli araldici, nei trattati enciclopedici. Elaborazioni culturali o presenze reali che siano, essi sono sempre e comunque "segni": non ha, quindi, molto senso distinguere il mostro dall'animale reale, non serve a nulla osservare che i centauri e le sirene non sono esistite mentre il lupo e l'orso sì. L'uomo medievale non ragionava secondo categorie di questo tipo. In un certo senso, il centauro e la sirena gli erano altrettanto famigliari non solo del lupo e dell'orso, ma anche del cane e del cavallo: nel senso, vogliamo dire, dell'uso allegorico che egli ne faceva. Ed è questo diverso modo d'intendere la realtà che noi dobbiamo comprendere: questo, e questo solo, è il "disincanto" che bisogna realizzare rispetto alle radici del nostro Immaginario.

                        

NOTE

Atharveda è una delle quattro samhitā (raccolte) che costituiscono i Veda, la più antica letteratura religiosa dell'Induismo. è composta di venti libri, di massima in versi, che riportano formule magiche e incantatorie, inni e scongiuri, pratiche e formule di magia nera, inni per cerimonie matrimoniali e funebri, inni liturgici e tutti quegli inni e formule connessi con la funzione di atharvan (sacerdote).

2  «Il termine avatāra, che è generalmente reso con espressioni occidentali aventi il valore di "incarnazione", "manifestazione incarnata", significa propriamente "discesa", e designa, più che una manifestazione del dio (teofania), una vera e propria discesa della persona divina in un  corpo umano o animale, un suo incarnarsi nel tempo, al fine di restaurare l'ordine del cosmo, di garantirne la continuità e la soluzione e di rivelare la sua essenza in modo accessibile, prossimo all'uomo e ai mondi» (A. Di Nola, E. R. V. III, p. 1066).

3  Mahābarāta (Grande racconto di Bhārata): è il più grande poema epico dell'India antica. Composto in un periodo temporalmente molto esteso, collocabile tra IV secolo a.C. e IV secolo d.C. , narra il conflitto tra i cugini Kaurava e Pandava, entrambi discendenti da Bhārata. Intorno a questo nucleo è raccolto un patrimonio ricchissimo di mitologie, leggende trattazioni religiose e ritualistiche.

Bundahishn (Creazione Primordiale): opera pahlavica del medioevo persiano che narra la storia cosmica dall'inizio fino alla distruzione e al rinnovamento della fine dei tempi. I questa trama sono inserite leggende religiose e nozioni di zoologia, di geografia, di botanica e di astrologia. 

    

BIBLIOGRAFIA:

Fondamentali sull'unicorno due opere: J. W. Einhorn, Spiritualis Unicornis, München, Münstersche Mittelalterschriften, 1976; e O. Shepard La Leggenda dell'Unicorno, tr. it., Sansoni, Firenze 1984. Sul piano dell'interpretazione psicologica, impossibile non rinviare a C. G. Jung, Psicologia e alchimia, tr. it., Boringhieri, Torino 1981. Riguardo a Marco Polo, si vedano le osservazione che sull'unicorno-rinoceronte sono nell'Indice ragionato a cura di  G. R. Cardona, di Marco Polo, Milione, Adelphi, Milano 1975.

     

 

      

© Franco Cardini (e rivista «Abstracta»). 

   


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