a cura di Felice Moretti |
Il delfino nella Historia Animalia di Konrad Gesner (1604, seconda edizione).
Se la Sirena, Scilla, Tritone e le "belve di
mare" del Liber monstrorum sono
nemiche del navigante e se Alessandro Neckam e Tommaso di Cantimpré
sottolineano la natura feroce e vorace delle altre creature marine, solo il
delfino - essi affermano - è tra esse l'unico che ama l'uomo, ne riconosce la
voce, non lo attacca e anzi lo aiuta se è in pericolo; salvo tuttavia il caso
in cui la persona in pericolo abbia mangiato carne di delfino, cosa questa di
cui l'animale, non si sa come, s'accorgerebbe immediatamente.
Aristotele,
Eliano, Solino e Plinio sono le fonti classiche piú autorevoli che ci parlano
del delfino, delle sue metamorfosi divine, di metamorfosi umano-ferine, di
miti e di salvataggi. Accanto a questi miti che ci fanno scorgere fondazioni di
città marittime, porti, santuari legati alla salvezza delle acque in tempesta,
rimbalzano anche notizie sugli aspetti e i caratteri del delfino. Plinio, in
particolare, pone correttamente il problema della loro natura di mammiferi e
del loro modo di respirare. Ed è ancora Plinio a rilevare la loro
caratteristica di emettere suoni simili a quelli della voce umana e che essi
amano essere chiamati Simon: nome
con il quale greci e latini li chiamavano per il loro profilo camuso (simòs
in greco e simus in latino significano
«camuso»). Seguiamo un po' Plinio: «Il
delfino è il più veloce di tutti gli animali, non solo dei marini;
egli vince di velocità l'uccello e la saetta... I delfini, contro la natura
degli altri animali d'acqua hanno la lingua mobile, corta e larga, poco
differente da quella del porco. In cambio della voce hanno un gemito simile a
quello dell'uomo, la schiena arcuata, il muso schiacciato, che in latino si dice
simo e perciò tutti meravigliosamente conoscono questo nome Simone ed hanno
caro d'essere così chiamati. Sono i delfini non solo amici dell'uomo, ma
anche della musica e soprattutto si dilettano del suono degli organi…».
Nel
XII secolo, il Bestiario di Cambridge sintetizzava così le conoscenze acquisite
dagli autori dell'antichità classica:
«Delfini
sono chiamati quei pesci che hanno l'abitudine di seguire la voce umana, o
anche la musica, raccolti in gruppi. Niente vi è in mare più veloce dei
delfini. Oltrepassano le navi con grandi salti, ed è tradizione comune ritenere
nunzi di tempesta i delfini che giocano fra i flutti e si oppongono alla
potenza delle onde con grandi balzi. Sono anche chiamati symones».
Il delfino gioca con un uomo; in alto un pesce fantastico (da una stampa del XV-XVI secolo).
Il
delfino presso i Greci era legato al culto di Apollo e aveva dato il suo nome a
Delfi. Formalmente riconosciuta la provenienza iperborea di tale culto, la
rappresentazione precristiana del mammifero si è sviluppata sulle rive del
bacino nord-orientale del Mediterraneo e su quelle del Mar Nero, in Grecia e in
Italia. I naviganti di questi paesi lo considerarono un animale di buon augurio,
un compagno di rotta simpatico, dotato di tutti i doni dell'intelligenza e del
cuore. «E d'altronde - scrive Franco Cardini - proprio una delle conquiste
scientifiche dell'etologia e della zoologia moderne - la grande intelligenza
del delfino e soprattutto la qualità di essa, la più simile forse a quella
umana nell'intero mondo animale - induce per non dire obbliga a rivisitare gli
antichi miti e a chiedere addirittura quanto in essi vi sia di simbolico, di
metaforico, di fantastico, e quanto invece di verità fattuale». Dopo questa
rivisitazione, ci accorgeremo di avere a che fare con uno dei grandi animali
simbolici come l'aquila, il
leone,
l'elefante,
l'orso, il lupo o la
pantera.
Dalle
culture minoica e greca arcaica ci vengono le prime e più belle raffigurazioni
iconiche del delfino la cui stessa silhouette
piegata ad arco, quei colori cerulei, le pinne taglienti e il simpatico
muso atteggiato ad una sorta di eterno, dolce e feroce sorriso, non ci fanno
intravedere quanto ci sia in essi di reale e quanto d'immaginario.
Gli
stessi autori dell'antichità classica ci hanno pensato a confonderci le idee.
Aristotele assicura che la velocità del delfino è inimmaginabile e che è
capace di portare in salvo grossi navigli; Plinio scrive che dalla riva
sorveglia con amore i bagnanti «onde evitare che siano travolti dai
flutti». Nonostante l'antica tradizione letteraria in cui il reale e
l'immaginario si confondono, questa solidarietà, questa simpatia ricambiata,
questa antica affinità uomo-delfino, ritrascritte dal mito greco e rivisitate
niente meno che da san Francesco di Sales, non hanno perduto la loro perenne
attualità e continuano a deliziare generazioni di fanciulli e anche di adulti
sia attraverso i cartoons
sia attraverso "Quark" e Piero
Angela. «Attraverso i mass media che
rigurgitano di elogi all'intelligenza e alla bontà dei cetacei, si è
scoperto che neppure l'orca è davvero "assassina"».
Si
dice che gli antichi consideravano un crimine contro le leggi dell'amicizia
trattenere nelle reti i delfini che vi capitavano e questo amore, questo
rispetto dell'uomo verso il cetaceo, spiegano le molteplici rappresentazioni
pagane che troviamo su monumenti ed oggetti d'arte. Numerose furono in Grecia le
città le cui monete portavano incise la figura del delfino: Argo, Sagunto,
Messina, Catania, Taranto. Sulle monete tarantine è raffigurato Taras, il
mitico
fondatore della città, anch'egli giunto dal mare sul dorso di un delfino: un
tema che diverrà familiare all'iconografia.
Ma
il cetaceo non esauriva il suo mito nelle caratteristiche della socievolezza;
attorno a lui si coagulò anche il complesso mitico-simbolico della psicacogia.
Il suo portare in salvo gli uomini su lidi sicuri poteva essere preso a
simbolo del passaggio dalla vita, alla vita dopo la morte: il delfino diveniva
così animale psicopompo come l'aquila e come il
grifone. Divenne pertanto
naturale e comprensibile che esso, proprio in virtù di queste caratteristiche,
venisse accolto nella simbolica e nella iconografia cristiana anche se fino alla
fine del II secolo e agli inizi del III secolo non vi occupò un posto di
privilegio, in quanto svolse fino ad allora il ruolo generico del pesce,
animale, com'è noto, simbolo del Cristo e della salvezza. Fin dalle
catacombe, l'iconografia cristiana aveva fatto ricorso al delfino sia per
rappresentare l'anima del cristiano che giunge nel porto della salvezza
attraverso
le acque marine dell'esistenza, sia per raffigurare il Cristo stesso. L'ancora e
il tridente potevano prendere in questo contesto il ruolo della croce.
Con
tutto il suo patrimonio di mitologia greco-romana, il delfino entra nella
simbolica cristiana dalla porta principale per trasformarsi in Cristo, così
come Nettuno si era trasformato in delfino per portare via la ninfa Melanto, o
come Apollo, sotto quelle sembianze, balzò un giorno su una nave di mercanti
cretesi diretti a Pilo e la dirottò verso il porto di Crisa, luogo su cui
sarebbe sorto piú tardi il santuario di Delfi.
Anche
nell'agiografia il cetaceo occupa un posto importante. Due delfini portano a
riva san Callistrato, che Diocleziano aveva fatto gettare in mare; il corpo di
Luciano d'Antiochia è trasportato da un altro delfino; san Martiniano fugge
cavalcando un delfino le tentazioni della lussuria. Personaggi a cavallo di un
delfino si trovano anche nel
pavimento a mosaico della cattedrale di
Otranto.
La
sua fedeltà all'amicizia fino alla morte di cui parla Plinio citando Teofrasto
e ricordando fatti narrati anche da Erodoto, Pausania, Eliano, Cicerone e
Ovidio, spiega come il cetaceo, che presso i Greci è talora compagno di
Afrodite - cosa del resto agevole a spiegarsi, data l'origine marina di quest'ultima
- sia preso anche a simbolo della fedeltà coniugale. Plinio riferisce di un delfino
che, ai tempi di Augusto Imperatore, entrò nel lago Lucrino dove un fanciullo,
che andava a scuola da Baia a Pozzuoli, lo vide e cominciò a chiamarlo e ad
allettarlo con pezzi di pane.
Giovanni Della Robbia, Putto su delfino (1520-1525 circa).
Nacque
così la grande amicizia. Il fanciullo montava sul delfino che lo portava a
scuola da Baia a Pozzuoli e poi a casa. Ma il fanciullo, dopo un po' di anni, si
ammalò e morì. Poco dopo, anche il delfino morì di dolore per l'amico
perduto. E Plinio prosegue con altri fatti che egli dà per certi, come
quello, ad esempio, di delfini che, nel territorio di Nimes in Provenza,
accorrono alla voce di pescatori di muggini perché li aiutino nella pesca:
«I
delfini subito soddisfano i loro desideri, quando regna il vento di tramontana
che porta loro la voce; quando tira Ostro, odono piú tardi. Ma pur sono in
tempo e anche allora vanno in aiuto. Stretti in schiera da alto mare spingono
addosso ai pesci e li cacciano in alto mare. Allora i pescatori li circondano
con le reti, con le forche le sollevano...».
Per
i Padri della Chiesa fu quindi naturale la trasposizione del delfino nella
simbolica cristiana. I mistici cristiani lo salutarono nell'immagine che
soccorre i naufraghi perduti nell'ombra della notte; fu l'immagine stessa di
Cristo Salvatore che viene in soccorso dell'anima, soprattutto nell'ora
tenebrosa della morte: del trionfo di Cristo su Satana che gli contende l'anima
del moribondo. Una testimonianza singolare della lotta fra Cristo e Satana è
stata raffigurata su un anello pastorale del vescovo Ademaro d'Angouleme che
resse l'episcopato di quella sede dal 1070 al 1101. Sull'anello, forse del III
secolo d.C., è incisa l'immagine del delfino attorcigliato al tridente: figura
emblematica di Cristo sulla croce. Fra i suoi denti maciulla la testa della
piovra i cui tentacoli battono l'acqua. L'incisione rappresenta in chiave
simbolica
la vittoria di Cristo sul male, su Satana. Vicino al delfino nuota un piccolo
pesce che richiama alla memoria un passo di Tertulliano, che chiama i fedeli «piccoli pesci rispetto al grande Pesce»: Gesú Cristo.
Da leggere:
Charbonneau–Lassay, Le Bestiaire du Christ,
Milano 1980.
H. Zug
Tucci, Il mondo medievale dei pesci tra
realtà e immaginazione, in L’uomo
di fronte al mondo animale nell’alto
Medioevo, Spoleto 1985
F. Cardini, Il delfino, in
«Abstracta», 21 (1987).
F.
Moretti, Specchio del mondo. I ‘bestiari fantastici’ delle cattedrali,
Fasano 1996.
©2003 Felice Moretti