Sei in: Mondi medievali ® Immaginario medievale


a cura di Felice Moretti


di Felice Moretti

Parte II

Legenda Maior, ms. 1266: le allodole cantano e volano su Francesco nel momento della morte.

    

La vita di Francesco nel mondo e nella sua esperienza religiosa, fu piena di figure e fattori puramente ludici; il ”ludere” però, quello di Francesco, «assume il significato originario e profondo di gioco, non inteso come svago, ma quale espressione di un mondo di idee che si manifesta attraverso il gesto e la rappresentazione di se stessi» [37].

Da questa prospettiva si arriva a comprendere la poesia dell’immagine con la quale Francesco giocava con tutte le componenti del creato e della società del suo tempo. «La stessa Madonna Povertà era la più geniale e la più giovanile di queste immaginazioni, di questi 'ludi', e certamente la più cavalleresca» [38]. E cavaliere gioioso e giocoso Francesco fu soprattutto con gli animali sui quali ebbe un ascendente straordinario che lo esercitò sempre con modi cortesi, con una sorta di gioco simbolico, «una pia pantomima, intesa a trasferire la distinzione vitale nella sua divina missione, perché egli non solo amava Dio, ma lo rispettava in tutte le sue creature. In tal senso avrebbe chiesto scusa non solo al gatto o agli uccelli, ma si sarebbe scusato anche con la sedia e col tavolo a cui sedeva» [39].

Francesco è stato uomo di cuore e di sentimento; era uomo fatto sentimento che dialogava con la natura, dialogava e giocava con gli animali e gli uomini in una fratellanza universale. A riguardo, così si esprime Giuliano da Spira, nell’evidenziare la sua capacità di intendere gli animali e di essere da essi inteso:

Dat aurem suis avium
Praedicans silvestrium
Verbis intendentem [40] .

Questa sua naturale e nello stesso tempo eccezionale predisposizione di comunicazione viene ulteriormente ribadita da Giuliano da Spira nell’episodio della predica agli uccelli quando «Ipsae vero aviculae, rostris apertis, alis collisque protensis, suo modo mirabiliter gestienses, sanctum Dei talia proponentem intuebantur, et verbis suis diligenter intendere videbantur» [41]: corrispondenza di linguaggio non limitata solo agli uccelli, ma estesa a tutta la natura animale («sed aves et bestias et quaslibet creaturas alias, fratrum vel sororum nominibus nuncupans ad omnium Conditoris laudem sollicitus invitavit») [42], in particolare alle allodole e alle rondini, le «sorelle rondini», il cui piumaggio richiama alla mente la veste bianco-nera delle Damianite, e come le Damianite sono umili, dolci e fedeli. Esse inoltre godono del privilegio della comune abitazione nei cieli e del libero volo e, per questo, assimilate al frate minore che, non vincolato dalla stabilitas loci del monaco, ma libero dai lacci del mondo, percorre le sue strade abbandonandosi alla Provvidenza che, per mezzo suo, sostiene le serve di Cristo. Scrive infatti Tommaso da Celano:« Questa la sua volontà per tutti i frati : essi dovevano servirle per amore di Cristo, di cui sono serve, ma in modo da guardarsi sempre, come uccelli, dai lacci tesi davanti a loro» [43].

La specificità del rapporto tra Francesco e gli uccelli e altre creature, fatta di piccoli gesti, liberi da ogni condizionamento, capaci di esprimere gratitudine al Creatore, ognuno a modo suo, crea il passepartout per una intesa ludica che non ha nulla a che spartire con precedenti monastici, né con bestiari né, tanto meno, con interpretazioni in chiave simbolica attribuite di volta in volta alle diverse fonti. Ad intendere questo rapporto ludico sarebbe anche fuorviante una interpretazione in chiave di «magia bianca» del modo di porsi di Francesco nei suoi rapporti con gli animali [44].

Il linguaggio e la gestualità del Santo sono inequivocabili. Egli guarda la natura e tutto ciò che è nella natura così come essa è. Sono gli stessi compagni a testimoniarcelo. Francesco non è colto al punto tale da porsi problemi di simbologia o di magia, e anche se lo fosse stato, non se li sarebbe posti ugualmente, sensibile com’era a cogliere l’essenzialità delle cose. Egli è troppo attento alla «letteralità» delle cose per non pensare che il « sole è il sole», che l’uccello è uccello e le sue ali gli servono per volare senza rinviare al desiderio dinamico d’elevazione e di sublimazione; gli era estraneo ogni allegorismo  o simbolismo che superasse la portata concreta delle cose [45].

Col Poverello d’Assisi ci troviamo di fronte non ad un mistico dalle profondità abissali di intuizione del divino, né di fronte ad un esempio di ascesi nel senso antico e tradizionale del termine, ma dinanzi ad un uomo dalla visione ingenua e non colta, molto vicina alla sensibilità, con una naturale inclinazione al gioco con tutti gli elementi della natura, da quelli inanimati, come gli astri del cielo, a quelli animati in cielo e in terra.

La sua originalità non si esaurisce nell’immersione nel Vangelo, ma nella fruizione nuova della natura e del creato che non conosce precedenti in nessun altro personaggio civile o religioso vissuto prima di lui o a lui contemporaneo. Francesco si colloca al di là e al di sopra della semplice concezione ecclesiastica, sia della spiritualità monastica, sia della religiosità dei movimenti eterodossi che travagliarono il suo tempo [46]. La sua è una concezione della realtà e della vita più umana e meno teologica e, pur nella aspirazione ideale di un ritorno al Vangelo, assegna alla  natura e alle creature un ruolo dominante prima sconosciuto, che racchiude tutta la forza capace di rovesciare l’odio ereticale per la creazione [47].

Il rapporto tra Francesco e il creato nasce da un corto circuito dello spirito. Egli ha con le creature un contatto diretto ed immediato senza l’intermediazione della riflessione e della razionalità a differenza dell’intellettuale e aristocratico Antonio da Padova. Fra l’uno e l’altro ci sono caratteristiche e doni incomunicabili. Ognuno restò se stesso, come se stessi rimasero frate Masseo, frate Ruffino, frate Bernardo o frate Leone pur imbevuti dello spirito dell’inimitabile frate Francesco, ma non investiti dei suoi carismi.

Per il Poverello d’Assisi le creature sono cose concrete, sono fratelli e sorelle; per Antonio sono allegorie e simboli. Per l’uno sono gli intermediari per la comunicazione immediata e diretta con Dio, per l’altro costituiscono gli strumenti necessari alla sua predicazione dalla gestualità sobria per le sue implicazioni morali, necessarie a comunicare con gli uomini [48].

Antonio non entrò in amicizia con l’usignolo, con il corvo, col fagiano, con lepri e con lupi. Invano si cercherebbe nelle Legendae antoniane, con eccezione forse della cosiddetta Rigaldina, quelle gestualità, quei ludi spirituali caratteristici delle Vite, delle Legendae sanfrancescane o delle Compilationes. Tuttavia, pur se rari, non sono meno pittoreschi alcuni «fioretti» del miracoliere antoniano come quello relativo al volo di due tortore intorno al leggìo, accanto al quale il Santo stava cantando [49]. L’episodio miracoloso, come altri che hanno per soggetto pesci, colombe o giumenta, sono presentati nelle Fonti antoniane in una cornice religiosa e liturgica attraverso il filtro dell’erudizione, diversamente da quelli sanfrancescani nei quali la familiarità con gli animali è parte integrante del quotidiano [50].

Non rientra nell’economia di questo lavoro l’indagine sistematica delle analogie e delle differenze nel modo di porsi di Francesco d’Assisi e di Antonio da Padova nei confronti del mondo animale. Storici di gran valore hanno già affrontato questo tema con risultati lusinghieri.

Ciò che è indagine specifica di questo studio riguarda il rapporto ludico fra frate Francesco e gli animali attraverso la lettura delle fonti, in modo particolare di quelle narrative, il cui valore è andato man mano accrescendosi con la lunga «questione francescana». Bisogna pur ammettere le difficoltà di arrivare a san Francesco ludico attraverso l’intreccio di Legendae e compilazioni con finalità e ispirazione diverse in un percorso lungo di almeno settant’anni circa (dal 1230 al 1300). Lo stesso Alfonso Marini ci avverte delle difficoltà di arrivare a Francesco al di là degli schemi ideologici, letterari e mentali dei suoi biografi [51].

Ora, per chi volesse impegnarsi in una indagine più puntuale alla ricerca del tipo di fauna sanfrancescana più comune e ricorrente nella letteratura minoritica medievale, noterebbe l’assenza pressocché totale di alcune specie animali come la razza canina, e di sporadiche apparizioni di felini e ofidi dalle connotazioni niente affatto simpatiche [52].  Il bestiario sanfrancescano comprende una fauna familiare che esclude incontri con quella esotica, ad eccezione del drago che, fra l’altro, ha stretti rapporti di parentela col serpente.

Intenso e costante è invece il rapporto dialogico del Santo col più conosciuto e vicino mondo animale, con gli uccelli soprattutto, dei quali egli comprende il linguaggio e dai quali riesce a far comprendere il suo. Questo rapporto, che in più di una occasione, si trasformerà in gioco familiare di intensa vivacità e commozione, scaturisce dalla consapevolezza della perfezione della innocenza e della povertà degli uccelli che, in pace con Dio, non si preoccupano né di seminare né di mietere perché il Signore procura loro il necessario [53].

    

La Povertà. è la Povertà la sorgente della letizia ed è la letizia che predispone al dialogo con le creature. Esse percepiscono istintivamente la predisposizione alla benevolenza e ad essa corrispondono con atteggiamenti e gesti in una reciprocità di relazioni affettive che si concretano in disponibilità ludica che, nei confronti di Francesco, fu pronta e senza riserve in una obbedienza e in un abbandono materno più che paterno o fraterno [54].

Uno dei tanti e graziosi episodi in cui si intreccia la vicenda di Francesco d’Assisi riguarda la sfida di canto che egli ebbe con l’usignolo a lode del Signore della Creazione. L’episodio, assente nelle principali fonti agiografiche del XIII secolo, non compare né negli Actus beati Francisci (1327-1337), né nei Fioretti (1380-1390), ma fu comunque edito più volte nel secolo scorso [55].  L’incontro comunque ci fu realmente e sul palcoscenico della natura andò in scena la gara canora giunta fino a noi da una frammentaria fonte francescana [56].

La sicura autenticità del breve testo, testimoniata da frate Leone narratore e dalla serietà dell’ignoto estensore, contribuiscono non poco a farci gustare la scenetta che si svolse all’ombra di una selva in una bella giornata estiva o primaverile di un anno imprecisato fra il 1215 e il 1218, prima comunque del viaggio di Francesco in Oriente (1219-1220).

Già il titolo originale del testo «De philomena cum quo cantavit beatus Franciscus» preannuncia una gara di canto che si trasformerà in un duetto nella lode al Creatore. In questo ludus canoro si possono indovinare i gesti, le movenze e i movimenti delle labbra del giullare di Dio che, rapito dalla melodia dell’usignolo, abbandona la misera mensa appena preparata, preso com’è da quel canto che dalla siepe si diffonde nell’aria. Francesco non rinuncia all’accattivante invito dell’uccellino di misurarsi con lui. è lì vicino l’inseparabile compagno frate Leone, la «pecorella di Dio», così affettuosamente chiamato dal Santo in una riaffermazione continua dell’intima familiarità col mondo animale e con alcune specie in particolare [57].

Col cuore pieno di tenerezza per i soavi gorgheggi, frate Francesco esorta il suo fedele compagno ad alzarsi dalla mensa perché tutti e due possano cantare lodi a Dio assieme all’usignolo: «Eamus ergo et nos et laudemus Dominum cum eo». In questa esortazione è racchiusa la profonda aspirazione a godere del gioco che sta per iniziare: «Solleviamoci dunque anche noi». L’ordine- invito è perentorio, non ammette repliche, la posta in gioco è alta: nientemeno che lodare Dio con un concerto. “Frate Pecorone”, sentendosi inadatto al canto e al gioco e, forse, in quei momenti, anche di troppo, declinò l’invito:« Pater, non habeo bonam vocem, sed te, qui habes vocem bonam et alia concurrentia, decet cum philomena cantare». Mancano a frate Leone le capacità necessarie e la bella voce di cui invece è dotato Francesco. Canti lui, pertanto, con l’usignolo. Le sue qualità canore non erano d’altronde una novità [58].

Con il canto il giullare di Dio si era già rivelato realizzatore di un vero sistema linguistico alternativo a quello colto, celere nella comunicazione dove il canto, la parola, la danza e la mimica formavano un tutt’uno con l’hilaritas e la jocunditas, necessarie alla creazione del gioco che ora ha inizio in un concerto a due voci alternate. Comincia per primo Francesco, mentre l’usignolo tace, e poi in una alternanza di voci e di versetti con cui l’uno risponde all’altro, la giornata trascorre fino a sera nel giubilo della benedizione e lode a Dio.

Nel gioco, si sa, c’è chi vince e c’è chi perde e Francesco confessò a “frate Pecorone” di essere stato sconfitto dall’usignolo nel canto e nelle lodi; ordinò dunque di mettersi a sedere e di mangiare. Avevano appena iniziato quando l’uccellino andò a posarsi sulla mano di Francesco come a pretendere il premio della sua vittoria; dopodiché, nutrito e benedetto dal Santo, volò via nel cielo [59]. Questo episodio richiama alla memoria un altro simile di insospettabile bellezza che si legge nella Cronica di Salimbene de Adam.

Egli racconta di un certo fra’ Vita da Lucca da lui definito il miglior cantore del suo tempo che, dotato di una voce tanto armoniosa, stupiva vescovi, arcivescovi, cardinali e persino il papa. La delizia del suo canto si manifestava soprattutto quando, in giocosa letizia, riprendendo il musicale motivo di un usignolo che gorgheggiava su un rovo o su una siepe, a voci alterne si esibiva con lui cantando [60]Della storicità dell’episodio non v’è motivo di dubitare anche per la conoscenza personale che frate Salimbene aveva di frate Vita, suo maestro di canto a Lucca nel 1230.

A sottolineare l’aspetto confidenziale tra Francesco e gli uccelli, Tommaso da Celano riferisce dell’idillio di una coppia di pettirossi, un maschio e una femmina che, preoccupati di nutrire i propri piccoli, volavano ogni giorno sulla mensa di Francesco per beccarvi a piacimento  briciole di pane. Ma un giorno, padre e madre presentano i loro figlioletti ai frati dai quali erano stati allevati a loro spese e, affidandoli alle loro cure, non si fecero più vedere. I piccoli familiarizzarono con essi, posandosi sulle loro mani e aggirandosi per casa non come ospiti, ma come membri della stessa famiglia, evitando le persone secolari perché si sentivano allievi solo dei frati. Il Santo osservava stupito ed invitava i frati a gioirne :«Vedete –disse- cosa hanno fatto i nostri fratelli pettirossi, come se fossero intelligenti? Ci hanno detto : “ Ecco, frati, vi presentiamo i nostri piccoli, cresciuti con le vostre briciole. Disponete di loro come vi piace, noi andiamo ad altro focolare”» [61].

Predominanti sono in questo episodio gli elementi ludici, a partire dal volo radente della coppia di pettirossi sulla mensa, che procura esultanza in Francesco fino alla eccessiva familiarizzazione dei loro piccoli con i frati, con i quali prendevano il cibo in un gioco continuo. E se i piccoli uccelli si sentono al sicuro solo con i frati, è legittimo il dubbio che non sia solo l’istinto naturale a dettare i loro comportamenti. D’altronde, Francesco che conosce bene gli animali e comunica con essi, non dubita della loro intelligenza e ragione, dichiarandolo apertamente ai frati: «Videte» – ait – «quid fratres nostri pectusrubei fecerint, quasi ratione vigerent?» [62]Per di più, chi conosce bene gli animali e riesce a dialogare con essi, non fa misteri quando afferma che anche gli animali hanno oltre all’istinto anche un’anima, per quanto misteriosa. L’avarizia e l’ingordigia del maggiore dei pettirossi ruppe infatti la concordia e il gioco fra le parti. Iniziò con superbia a perseguitare i più piccoli scacciandoli dal cibo, mentre lui si saziava a volontà. Il Santo predisse la sua fine. L’invidioso pettirosso finì annegato in un vaso d’acqua nel suo gioco d’ingordigia solitaria. Tommaso da Celano aggiunge che non ci fu gatto o altra bestia che avesse osato toccare il volatile maledetto dal Santo :«[…] nec gattus invenitur nec bestia quae ausa fuerit sancti anatema contingere» [63]. 

Benozzo Gozzoli, La predica agli uccelli, Montefalco, Chiesa di San Francesco.

In tutta l’agiografia cristiana non è riscontrabile una emozione così viva come quella che provava Francesco a contatto diretto con gli uccelli che fanno festa tra loro nei cieli. E quando il loro istinto intuisce la presenza di una sorgente umana pregna di confidenza e amore, allora è lì che dirigono il loro volo, intrecciando canti e giochi.

Durante il soggiorno senese, Francesco fece riacquistare la libertà a delle tortore che un ragazzo portava al mercato. Il Santo chiese di affidargliele per evitare che fossero uccise. Ispirato da Dio, il giovane acconsentì. Per esse fu preparato un nido dove proliferarono indisturbate. Poi, come a voler mostrare gratitudine, usarono tanta familiarità con Francesco e i frati da sembrare galline da essi nutrite: «[…] et tantam familiaritatem S. Francisco et ceteris fratribus ostendebant, quod videbantur quasi galline, semper a fratribus enutrite […]»; né si allontanarono da essi fino a quando il Santo, dopo averle benedette, diede loro licenza di volare: «[…] et numquam a fratribus recesserunt, donec s. Franciscus dedit illis cum benedictione licentiam» [64]. 

Il processo di umanizzazione degli animali da parte di Francesco e la sua affettuosità nei loro confronti, assumeva calore e accenti più vivaci soprattutto per quelli animati da principio vitale più affine a quello dell’uomo. Non dissimulava una certa predilezione per quegli animali che simbolicamente evocavano Cristo nei misteri dell’ Incarnazione, Passione e Morte redentrice. Nel mondo alato la predilezione per gli uccelli, in particolare per le allodole, era resa più viva per l’affinità fra queste e i frati [65].

Alla luce di queste premesse si intendono e si spiegano i processi di umanizzazione degli animali, messi in risalto dagli agiografi. Di documenti in merito ne abbiamo ad esuberanza. Uno fra i tanti riguarda l’episodio dell’accoglienza festosa degli uccelli a Francesco al momento del suo arrivo sul monte Verna dove uccelli “de diversis generibus”, uno per volta, sono mandati dal Signore intorno alla celletta di Francesco a cantare  per preannunciargli con i loro giochi canori le grandi consolazioni di cui sarebbe stato colmato: «[…] Et summo mane in aurora, cum staret in oratione de diversis generibus aves venerunt super cellam ubi manebat, non coadunate simul, sed prius veniebat una et cantabat, dulcem facendo versum suum, et postea recedebat; et alia veniebat et cantabat et recedebat; et sic omnes fecerunt. Et plurimum de hoc admiratus est beatus Franciscus et habuit inde maximam consolationem […]» [66].  L’episodio verrà ripreso da san Bonaventura con delle varianti che evidenziano invece il gioco di squadra degli uccelli che, all’unisono cantavano e volteggiavano nell’aria, manifestando la loro letizia con acrobazie: «[…] Cum ad eremum pervenisset Alvernae propter quadragesimam celebrandam in honorem Archangeli Michaelis, diversi generis aves circa ipsius cellulam volitantes concentu sonoro et laetitiae gestibus, quasi de eius adventu gaudentes, patrem pium invitare ac allicere videbantur ad moram[…]» [67].

Dai brevi ma essenziali riferimenti delle fonti, non è difficile immaginare ciò che successe in quel luogo, a quali e quante acrobazie e giochi nel cielo si esibirono le decine e centinaia di merli, allodole , pettirossi, usignoli, passeri, fringuelli e chissà quante altre specie di uccelli gorgheggianti attorno a Francesco. Un’esplosione d’amore si manifestò come epifania del favore del Signore della Creazione da cui Francesco ricevette la dolcezza della consolazione con la obbediente amicizia degli uccelli.

segue


SIGLE E ABBREVIAZIONI

Note

37 R. Manselli, La povertà, 201-222, in partic. 207; C. Frugoni, Vita di un uomo: Francesco d’Assisi, Torino 1995, 82-92; F. Cardini, Aspetti ludici, scenici e spettacolari nella predicazione francescana, in Storia della città XXVI- XXVII (1983), 53-64.

38 Stanislao da Campagnola, Francesco d’Assisi nei suoi scritti e nelle sue biografie dei secoli XIII-XIV, Santa Maria degli Angeli-Assisi 1981, 68. Contenuti e valori francescani della predicazione in Idem, Francesco e francescanesimo nella società dei secoli XIII-XIV, (Medioevo francescano. Saggi 4), Santa Maria degli Angeli-Assisi 1999, 403-425, qui 422-425.

39 G. K. Chesterton, Francesco d’Assisi, Napoli 1990, 72-73.

40 Cfr. Julianus de Spira, Officium Sancti Francisci 25: Ad Magnificat Antiphona: Ff, 1120.

41 Cfr. Julianus de Spira, Vita sancti Francisci:  Ff 37, 1058-1060.

42 Ibidem, 1060.

43 Cfr. II Cel. 207: FF 796; Ff,622-623; AF X, 249.

44 F. Cardini, Francesco d’Assisi e gli animali, in Studi Francescani 78 (1981), 7-45; Idem, Il “Cantico delle creature”. Una rilettura, in Studi Francescani 79 (1982), 283-288.

45 Sulle osservazioni allo studio di F. Cardini, v. A. Marini, Sorores alaudae, 13-14. Sulla estraneità di Francesco  a quanto andasse al di là della reale consistenza delle cose, R. Manselli, San Francesco d’Assisi, 404-405.

46 Cfr. R. Morghen, Francescanesimo e Rinascimento, in Jacopone da Todi e il suo tempo, Todi 1959, 13-14.

47 Cfr. Stanislao da Campagnola, Insopprimibile presenza di Francesco d’Assisi nella storia del suo tempo, in Idem, Francesco e francescanesimo, 1-34, qui 17-22.

48 Sui tentativi di confronto tra la visione della creazione di Francesco e di Antonio di Padova e la forma in cui vengono trattate le creature, F. Uribe, È francescana la visione antoniana della natura?, in Il “Liber Naturae” nella “Lectio” antoniana. Atti del Congresso Internazionale per l’VIII centenario della nascita di Sant’Antonio di Padova (1195-1995), a cura di F. Uribe, Roma 1996, 251-275.

49 Cfr. V.Gamboso, Le creature nelle fonti agiografiche antoniane, in Il “Liber Naturae”, 277-286.

50 Sulle fonti erudite citate da Sant’Antonio nei suoi sermoni, K. L. Jansen, Le fonti erudite nella Lectio antoniana del Liber Naturae in Il “Liber Naturae”, 145-159. Tra i tanti contributi relativi al tema, si veda anche B. Costa e B. Smalley, Le fonti dei “Sermones” antoniani, in Il Santo 21 (1981), 3-27; F. Zambon, La simbologia animale nei “Sermones” di Sant’Antonio, in Le fonti e la teologia dei sermoni antoniani, a cura di A. Poppi, in Il Santo 22 (1982), 255-267. Su analogie e differenze di connotazioni da prospettare come “francescane” o “antoniane”, Stanislao da Campagnola, Letteratura francescana e letteratura antoniana, in Idem, Francesco e francescanesimo,319-343.

51 A. Marini, Sorores alaudae, 21.

52 Cfr. II Cel. 68: FF 654; Ff, 506-507; AF X, 171 ss..

53 F. Cardini, Francesco d’Assisi e gli animali, 20.

54 Cfr. Legenda Monacensis, nn. 59 ss.; AF X, 710; Spec. Perf. 113: Ff, 2035-2036.

55 Per una esauriente disamina storica di questo testo, L. Di Fonzo, Lodi e canto di S. Francesco al “Bon Signore” per la fraternità e nella vita, in Miscellanea francescana 102 (2002), 473-491; Idem, Il canto di San Francesco con l’usignolo, in Il Santo 43 (2003), 621-631.

56 La trascrizione e traduzione del più antico e miglior testo del 1320-40 circa, è stata tratta da Lorenzo di Fonzo dal ms E 60, f. 26rv della Biblioteca comunale di Sarnano (Macerata); cf. L. di Fonzo, Il canto, 630-631. Il testo fu segnalato da G. Abate in Miscellanea francescana 39 (1939), n. 43, 654.

57 Tale familiarità si traduceva in un gioco di immagini animali con cui alcuni frati venivano caratterizzati per le loro maniere di comportamento. Per cui, un famoso ladrone, poi convertitosi, divenne frate Agnello della Verna e, in una tradizione più tarda, figurerà come frate Lupo, con chiara allusione al suo passato poco raccomandabile. La storicità di questa conversione è da attribuirsi a Bartolomeo da Pisa, De conformitate vitae beati Francisci ad vitam Domini Jesu: AF IV, 110, 443, 562; V, 142 (per Agnello della Verna); Mariano da Firenze (per frate Lupo): cf. A. Agnelli ofm, Il sasso di fra Lupo (tradizione e storia), in La Verna XI (1913), 350-354; C. Cannarozzi, Dialogo del Sacro Monte della Verna di fra Mariano da Firenze, Pistoia 1939, 37-41. Cfr. a riguardo G. Miccoli, Francesco e La Verna, in Studi francescani 97 (2000), 21-56, qui 39. Si fa menzione anche di un certo frate Stefano soprannominato corvus, uomo nobile e lascivo convertitosi e divenuto poi frate minore; cf. AF III, 345-346. Fra Bernardo invece è aquila per “sottilità d’intelletto” (Fioretti I); egli ancora “a modo che rondine, volava in alto per contemplazione” (Fioretti XXVIII). Frate Masseo, quando pregava, emetteva un suono “ottuso”, simile al tubare di una colomba (Fioretti XXXII). Sulla fortuna dei Fioretti nei secoli, E. Menestò, Introduzione agli Actus Beati Francisci: Ff, 2057-2084; F. Uribe, Introduzione, 442-468; F. Accrocca, «Viveva ad Assisi…», 129-138.

58 Già ancora nel secolo, Francesco nominato Signore della Compagnia del Bastone, irrompeva nella piazza di Assisi con l’allegra brigata al ritmo di canzoni eroiche: cf. A. Fortini, Nova vita di S. Francesco, Assisi 1959 (rist. anast. Assisi 1999, 5 voll.), II, 121-129. Ha cantato anche dopo essere stato malmenato dai briganti nella selva allorquando «nive a se discussa, illis recedentibus, se fovea exsilivit, et magno exhilaratus gaudio, coepit alta voce per nemora laudes Creatori omnium personare»: cf. I Cel. 16: FF 346-347; Ff, 291. Ha cantato in lingua gallica: «Franciscus lingua Francorum psallere coepit» -versifica Enrico d’ Avranches-  quando «sic ubi cantando nemoris pervenit ad oram»: cf. Henricus Abricensis, Legenda S. Francisci versificata: Ff, IV, vv. 29,53, 1152-1153. Ha cantato in lingua gallica mentre lavorava a restaurare la chiesa di San Damiano: cf. Leg3soc: Ff 24, 1397. Canta anche quando cammina con Frate Egidio verso la Marca d’Ancona: «[…] sed vir sanctus, alta et clara voce laudes Domini gallice cantans, benedicebat et glorificabat Altissimi bonitatem»; cf. Leg3soc: Ff, 1406. Sulla fortuna e problematicità della Legenda, F. Accrocca, La Legenda trium sociorum: una peculiare attenzione all’umanità di Francesco, in Frate Francesco 71 (2005), 543-574; Idem, «Viveva ad Assisi…», 61-78; F. Uribe, Introduzione, 173-193. Ha cantato le lodi del Signore accompagnandosi con un pezzo di legno a mo' d’archetto di una viola: «Lignum quandoque, ut oculis vidi, colligebat e terra, ipsumque sinistro brachio superponens arculum filo flexum tenebat in dextera, quem quasi super viellam trahens per lignum, et ad hoc gestus repraesentans idoneos, gallice cantabat de Domino»: II Cel. 127: FF 712; Ff, 559.

59 L’episodio è narrato con vena poetica da D. Silvestri, S. Francesco d’Assisi e gli animali, Roma 1928, 17-22 e da A. Fortini, Nova vita, I, 247-249. Presentato in una cornice storicamente più attendibile, risalente alla tradizione del “nos qui cum eo fuimus”, l’episodio lo si legge al cap. 63 della Vita del povero et humile servo de Dio Francesco, 174-176. Cfr. anche AFH 10 (1917), 93 col titolo Descriptio codicis 23. J.60 Bibliothecae fr. Min. Conventualium Friburgi Helvetiorum. Nel concerto di lode a Dio Creatore, san Francesco si oppone senza sottigliezze scolastiche o disquisizioni a tutta una serie di manifestazioni ereticali, senza mai andare contro nessuno. Su questi aspetti, R. Manselli, S. Francesco e l’eresia, in Idem, I compagni di Francesco, 235 ss.; Idem, San Francesco d’Assisi, 400-407.

60 Cfr. Salimbene, Cronica, I, 264-266: «[…] Item si quando cantabat philomena sive lisignolus in rubo vel sepe, cedebat isti, si cantare volebat, et auscultabat eum diligenter nec movetur de loco, et postmodum resumebat cantum suum, et sic alternatim cantando voces delectabiles et suaves resonabant ab eis[…]».

61 Cfr. II Cel. 47: FF 633; Ff, 488-489; AF X, 160.

62 L’esperienza sanfrancescana ci riporta alle ricerche di Konrad Lorenz, che ha dimostrato nei suoi scritti di etologia come parlare agli uccelli o al lupo non è privilegio del mito o della leggenda agiografica. Cfr. F. Cardini, Francesco d’Assisi e gli animali, 16.

63 Sull’episodio, E. A. Armstrong, Saint Francis : nature mystic. The derivation and significance of the nature stories in the Franciscan Legend, Berkeley-Los Angeles 1973, in partic. 104-108.

64 Cfr. Actus: Ff, cap. XXIV, 2137-2138.

65 Egli amava soprattutto «illas in quibus aliquid de Deo vel aliquid ad religionem pertinens figurabat»; cf. Spec. Perf., cap. 113: Ff, 2035.

66 Cfr. Comp. Ass. 118: Ff , 1682-1684. Sulla fortuna di questa opera, scoperta da Ferdinando Delorme e pubblicata dallo stesso nel 1922 col titolo di Leggenda antica di san Francesco a cui prevalse poi il nome di Legenda Perugina, vedi la prefazione di M. Bigaroni alla “Compilatio Assisiensis” dagli scritti di fra Leone e compagni su San Francesco d’Assisi, Santa Maria degli Angeli-Assisi 1992, VII –XLII; E. Menestò, Introduzione alla Compilatio Assisiensis: Ff, 1449-1469; F. Uribe, Introduzione, 276-307; F. Accrocca, «Viveva ad Assisi…», 113-120.

67 Cfr. Legenda maior, VIII, 10: FF, 1157; Ff, 851-852.

                               

  

©2007 Felice Moretti. Il saggio è stato pubblicato a stampa in «Il Santo», 46 (2006).

    


indietro   su Immaginario medievale: indice Home avanti