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a cura di Felice Moretti |
Parte III
Il lupo e le pecore (1280 circa, Chalon sur Saone, Biblioteca Municipale, ms. 14, f. 85v)
Quello
dell’obbedienza delle creature a Francesco è un tema su cui cade
l’enfasi dei biografi più colti, siano essi “ufficiali”, come
Tommaso da Celano, o non “ufficiali” come il compilatore dello Speculum
Perfectionis. Tommaso da Celano riporta a riguardo il grazioso episodio dell’uccellino acquatico dato in dono al Santo da un pescatore. All’invito di Francesco di andarsene libero, l’uccello si accovacciò invece fra le sue mani come in un nido. La tenerezza si fa gioco in due momenti: l’uno quando il volatile si rifugia fra le mani chiuse a forma di nido del Santo; l’altro, nella gestualità dello stesso che lo spinge al volo: «[…] Quam beatus pater gaudenter suspiciens, apertis manibus, ut libere abiret illam cum mansuetudine invitavit. Quae cum ire nollet, sed velut in nidulo in illius se manibus reclinaret, sanctus erectis oculis in oratione permansit […]» fino a quando gli ordinò di riprendere la libertà senza timore [68]. Una
testimonianza interessante sul rapporto confidenziale e di obbedienza
tra Francesco, i suoi frati e gli animali ci è offerta da Tommaso di
Eccleston. Nell’episodio il protagonista non è Francesco ma un
frate di nome Pietro di Spagna, guardiano del convento di Northampton
che, accompagnandosi in viaggio con un novizio tentato a lasciare
l’Ordine, gli predicava per via la virtù della santa obbedienza. Un
uccello di bosco precedeva i due frati. Il novizio, di nome Stefano,
tentò di prenderlo fra le mani e, non riuscendovi, pregò il compagno
perché, in virtù dell’obbedienza, quello si lasciasse catturare.
Pietro di Spagna acconsentì. All’ordine l’uccello si fermò. Il
novizio lo prese tra le mani e lo trattò nel modo desiderato
[69]. San
Bonaventura narra di un giovane studente di Parma che, infastidito dal
garrire di una rondine, memore dell’obbedienza che a San Francesco
prestavano gli uccelli, le ordinò in suo nome di andare da lui e di
tacere. La rondine, udito il nome di Francesco subito tacque e andò a
rifugiarsi con tutta sicurezza nelle mani dello studente [70].
Anche in questo episodio sono le parole e i gesti che rappresentano il
gioco nelle sue cause ed effetti. L’affetto
di Francesco per gli animali dà vita ad un processo di umanizzazione
degli stessi e, in alcuni casi, ad uno di animalizzazione del Santo. Con sembianze di uccello Francesco, ormai morto, apparve in sogno a frate Leone, con ali di penne splendenti e con artigli simili a quelli di un’aquila d’oro. Alla domanda di fra’ Leone che gli chiedeva le ragioni di quell’insolito aspetto, Francesco rispose che, fra i tanti doni, la pietà di Dio gli aveva concesso anche quello di portare in cielo il più velocemente possibile, quasi volando, le anime dei frati più devoti, che lo avrebbero invocato nelle tribolazioni; con gli artigli avrebbe invece straziato i malvagi, i persecutori dell’Ordine e i falsi frati [71]. L’animalizzazione
di Francesco in uccello, pur ricca di elementi allegorici e simbolici,
non deve farci perdere di
vista il rapporto specifico del Santo con le creature, la cui ludicità
espressa dal verbo volans , richiama alla mente non solo il
gioco di ali così caro a Francesco nei suoi frequenti incontri con
gli uccelli, ma anche la sua perfezione di povertà simile alla loro.
Anzi, la sua va oltre la povertà degli uccelli, perché il Signore li
nutre e li veste, mentre la povertà eroica dei frati, proposta dal Sacrum
Commercium, supera la povertà naturale delle creature. Perciò,
solo le anime di quei frati fedeli a Madonna Povertà meriteranno di
essere portate in cielo da Francesco–uccello che, nel sogno di frate
Leone assume un preciso significato nella storia e nella evoluzione
dell’Ordine, a prescindere dal suo ruolo psicopompo. Un significato altrettanto preciso assume il processo di animalizzazione del Santo in gallina nel sogno che lo spinse a chiedere al papa Onorio III la designazione di Ugolino a cardinale protettore dell’Ordine. Gli parve di vedere una piccola gallina bruna, con le zampette piumate come una colomba domestica. Aveva intorno una quantità di pulcini tale, che non riusciva a riunirli sotto le ali, e così i piccoli erano costretti a girarle intorno. Svegliatosi, prese a riflettere su quel sogno; e subito lo Spirito Santo gli fece capire che quella chioccia simboleggiava lui stesso: «Sono io –si disse-quella gallina, perché piccolo di statura e bruno di colorito, e che devo essere semplice come una colomba e volare verso il cielo con le piume delle virtù. Il Signore, nella sua misericordia, mi ha dato e darà molti figli, che non sono in grado di proteggere con le mie sole forze; bisogna quindi che li affidi alla santa Chiesa, che li proteggerà e guiderà all’ombra delle sue ali» [72]. In
questa visione, la femminizzazione animale di Francesco
[73], a prescindere dalla connotazione istituzionale per la guida della fraternitas
che egli vuole affidata alla Chiesa, si veste di elementi ludici
individuabili non solo nel ruolo inedito di Francesco-gallina con
zampe di colomba, ma anche nei suoi movimenti tesi a riunire sotto le
sue ali, in un gioco non riuscito, i suoi frati-pulcini. Se
il Francesco-uccello nel sogno di frate Leone dà il senso della
verticalità che caratterizza il movimento delle ali, elementi
ascensionali per eccellenza, e quindi, come tale, simbolicamente
adattabile al ruolo di animale psicopompo, disanimalizzato a vantaggio
della funzione o assume il ruolo protettivo nella figura materna della
chioccia, altre immagini ornitologiche ci conducono, invece, nella
realtà quotidiana, fra “uccellini” e “uccellacci”. La Cronica XXIV Generalium riporta un episodio divertente, verificatosi agli inizi dell’Ordine in un convento del regno di Aragona. In esso si racconta delle disavventure di un frate laico “simplicissimus et perfectus” che era addetto alla cucina. Questi, ogni qualvolta portava in tavola il pane per i confratelli, una moltitudine di passeri canterini, svolazzando su di essa, ne mangiava a sazietà, mettendo a dura prova la pazienza del frate costretto a subire molestie non solo per il pane beccato quanto per la sporcizia dei loro escrementi con cui insozzavano il pane e la mensa. Impotente a trovare un rimedio adeguato a mettere in fuga gli uccellini che a frotte assalivano la mensa con gran confusione delle loro stridule voci, il frate si rivolse al Signore che venne in suo soccorso inviando a sua difesa un uccello da rapina chiamato sparviero che teneva testa agli assalti dei passeri in modo deciso, mettendoli in fuga: «Nam affluit ibi, quando mensam posuit, avis quaedam rapinae, quam nisum vocant, qui passeres intrantes ferociter invadebat, fugabat vel occidebat et sic mensam a passeribus defendebat. Et erat mirabile et stupendum». Né di lì si allontanava fino al momento in cui, dopo mensa, non fossero stati raccolti tutti i frammenti di pane. Tutto ciò durò fino a quando i passeri atterriti non osarono più entrare nel refettorio [74]. In
un contesto e in un clima tipicamente e squisitamente francescani, i
momenti ludici si intrecciano con quelli comici, conferendo a questo
episodio il sapore di una pagina letteraria di un certo gusto. Come in
una scena teatrale, i passeri e il frate, si cimentano in una gara
senza fine che, negli uni stimola la fame, nell’altro, invece,
acuisce il senso di frustrazione nell’impotenza di difendere la
mensa e il pane. I protagonisti principali
sono i piccoli volatili che beccano e insozzano, mentre il
ruolo di spalla è affidato al frate e alla sua disperazione. Con
l’entrata in scena di un terzo attore, lo sparviero, il gioco
diventa tragico e violento al punto tale da suscitare meraviglia e
stupore. In
questa battaglia fra «uccellini» e «uccellacci» non si vuole
forzare il testo attribuendogli una lettura simbolica. La causale
puramente anedottica -direbbe Cardini- resta primaria, anche se si
potrebbe ipotizzare che il messaggio sotteso alla lotta fra uccelli e
sparviero potrebbe voler dire che gli uccelli come altri animali delle
Fonti francescane, dei Bestiari e dei Fabliaux, non sono sempre
e solo animali. Hanno virtù e vizi umani, anzi sono uomini travestiti
da bestie
[75]
e che i passeri potrebbero non essere altro che
i frati fannulloni che divorano il pane guadagnato da altri, come quel
«frate mosca» che non vuole lavorare e resta ozioso [76]
o
quei frati vessati da pericoli interni o esterni all’Ordine, difesi
da un personaggio autoritario nel governo dello stesso. Qui non si vuole entrare nel delicato problema delle chiavi di lettura metaforico-simbolica nell’esame di un rapporto tra Francesco e gli animali. I diversi aspetti della questione sono stati chiaramente ed esaustivamente affrontati da Alfonso Marini [77]. Quello che interessa è la concretezza storica in cui si inseriscono gli episodi, così come ce li hanno trasmessi le fonti ufficiali o non ufficiali, interne od esterne all’Ordine. «La nozione di fatto - scrive Jacques Dalarun - non è la stessa per gli agiografi del Duecento e per noi. Essi sono sempre pronti ad una lettura allegorica, mentre noi vogliamo, a seconda del lessico intellettuale loro proprio, una lettura “storica”. Per essi, un fatto è un sogno. Per noi importa che il fatto sia materialmente esatto. Per loro, è un fatto vero quello che svela una verità più alta» [78]. La metodologia suggerita dal Marini è che tra i biografi più colti (e prendiamo fra tutti, Tommaso da Celano), si deve riuscire a distinguere la notizia in sé che ha a monte una testimonianza spontanea anche se in una esposizione di carattere colto, teologico-letterario ed ideologico politico [79]. Insomma, importante è che gli storici abbiano potuto dimostrare che il rapporto confidenziale tra Francesco e gli animali e i numerosi episodi che testimoniano questo rapporto hanno una consistenza storica pur se inseriti come modelli di comportamento in un discorso generale di natura ideologica. La Legenda maior di S. Bonaventura, che mostrò il suo talento teologico nella realizzazione di un ritratto di Francesco in grado di offrire le risposte necessarie ai problemi da cui l’Ordine era travagliato, non è stata fedele interprete della figura e della spiritualità storiche di Francesco [80]; talvolta ne ha forzato le fonti rileggendo in chiave miracolistica i momenti fondamentali della sua vita; ha utilizzato testimonianze e biografie già scritte, in particolare quelle di Tommaso da Celano, la biografia di Giuliano da Spira e la Leggenda dei tre compagni. è comunque importante il fatto di non aver falsificato o alterato totalmente la biografia di Francesco; che resta intatto il nucleo storico nella Legenda Maior pur in un continuo crescendo della lettura della storia in un clima di ricca spiritualità e creatività che si respira nella narrazione degli episodi che evidenziano i rapporti tra Francesco e gli animali con relativo corollario di elementi ludici in una dimensione di santità e umanità. In
questa dimensione, allora, va trovata la radice di questi rapporti che
emergono dalle pagine della Legenda. In essa, calore e accenti
vivaci caratterizzano l’agire di Francesco nei confronti della
moltitudine di uccelli delle paludi veneziane, che se ne stavano a
cantare sui rami. Egli se ne rallegrò e invitò il compagno ad andare
in mezzo a loro a cantare le lodi del Signore e le ore canoniche. La
loro presenza non spaventò gli uccelli che continuarono ad esibirsi
in quella orchestra di voci, impedendo però ai due di sentirsi l’un
l’altro nell’alternare i versi dell’ufficio. Francesco li invitò
a tacere giusto il tempo di finire di recitare le lodi . Quelli
tacquero fino a quando il Santo, terminate le lodi, dette loro licenza
di cantare [81]. La ludicità dell’episodio, non raccolto da
Tommaso da Celano, si manifesta sin da principio dell’incontro tra
Francesco e gli uccelli che lo accolgono cantando. Un pellegrino
distratto non avrebbe fatto caso, né dato ascolto a quel concerto.
Francesco, invece, lo sente come lode a Dio creatore. E se lo lodano
le creature prive di ragione, a maggior ragione intende lodarlo lui:
«Sorores aves laudant Creatorem suum; nos itaque in medium ipsarum
euntes, laudes et horas canonicas Domino decantemus». L’invito al
suo compagno di andare in mezzo a loro, preannuncia il gioco. Anche
gli uccelli sono pronti, tant’è che la presenza dei due frati né
li spaventa né li allontana. Ma, se nella gara canora fra
l’usignolo e Francesco, l’alternarsi sincronico delle melodie
aveva sortito effetti speciali, qui, invece, l’alternarsi dei versi
dell’ufficio e quello dei canti degli uccelli andavano fuori tempo,
generando una confusione di suoni e di voci. Il gioco doveva essere
momentaneamente sospeso, giusto il tempo di recitare le ore: «[…]et
quia propter garritum ipsarum in dicendis horis se mutuo audire non
poterant, conversus vir sanctus dixit ad aves: “Sorores aves, a
cantu cessate, donec laudes Deo debitas persolvamus”». Nel
temporaneo e rispettoso silenzio dei canti, gli uccelli erano rimasti
in attesa di riprendere le loro esibizioni canore. Concessa loro
licenza, ripresero a cantare: «At illae continuo tacuerunt, tamdiu in
silentio persistentes, quamdiu, dictis horis spatiose et laudibus
persolutis, a sancto Dei cantandi licentiam receperunt. Dante autem
eis viro Dei licentiam, statim cantum suum more solito resumpserunt». Non furono solo le creature del cielo e della terra a sperimentare la tenerezza del cuore di Francesco. Anche verso i pesci egli nutrì affetto. Un giorno, trovandosi su una barchetta nel porto del piccolo lago di Piediluco, un pescatore di Rieti gli regalò una tinca appena catturata, che Francesco accettò con gioia, facendola poco dopo scivolare nell’acqua laddove giocava giuliva senza allontanarsi dalla barchetta. Il Santo osservava da spettatore divertito la serie di immersioni ed emersioni, tuffi ed evoluzioni con cui il pesce si esibiva, fino a quando ricevuta la benedizione, ebbe licenza di allontanarsi: « Piscis vero coram viro Dei in aqua ludebat, et quasi amore ipsius allectus, nullatenus recessit a navi, nisi prius ab eodem cum benedictione licentia sibi data» [82]. La tenerezza ludica dell’episodio che esprime fiducia e gratitudine senza riserve dell’uomo di Dio verso la creatura e della creatura verso l’uomo di Dio viene messa in risalto anche dai versi di Enrico d’ Avranches: «[…] Dixit, et in medias salvandum reicit undas./ Qui libertatis quamvis dispendia passus,/ Exitiique metum, tamen imperterritus altas/ Fluminis egrediens latebras, in margine coram/ Servatore suo ludit, nullumque recusat/ Accessum tactumve pati: fiducia tanta/ Exspertae pietatis inest; nec ludere cessat/ Donec eum tandem iubeat Franciscus abire […]» [83]. L’episodio è riportato anche nel Trattato dei Miracoli del Celanese, dove però è assente la preghiera di Francesco [84], e in Giuliano da Spira [85], dove si coglie una sua veloce considerazione sul particolare rapporto fra Francesco e gli animali: «Confugiebant quoque saepius ad beatum Franciscum bestiae silvestres, veluti ad portum tutissimum, ac si ratione ductae ipsius erga se cognoscerent pietatis affectum» [86]. La
pregnanza di questa espressione la si coglie in numerosi episodi nei
quali sono confluite testimonianze dei «nos qui cum eo fuimus» e
varie altre che fanno riferimento a “socii” o a singole persone.
Prendiamo ad esempio quello del corvo che faceva vita comune con i
frati condividendo con essi sia i momenti della vita attiva, sia
quelli dedicati alla preghiera, quando in loro compagnia era solito
frequentare il coro, e quando, imitando le loro buone maniere, si
lavava il becco prima di assumere cibo. In seguito, per continua
frequentazione e per grazia di Dio, il corvo cominciò a parlare in
modo tale da farsi intendere. Il beato Francesco, pieno di ammirazione
e di gioia, gli ordinò un giorno di andare in infermeria per
prendersi cura dei frati infermi e di procurare ad essi il necessario:
«Et beatus Franciscus hoc videns cum admiratione et gaudio semel in
refectorio sibi precepit, quod (corvus) iret ad infirmitorium et curam
haberet de infirmis et eis necessaria procuraret». Il corvo obbedì.
Girava infatti per Assisi accompagnandosi ad un frate e chiedendo
elemosina per i poveri nelle case dei ricchi che, stupiti, donavano
spontaneamente nelle mani del frate. Un giorno, al vescovo che
celebrava e raccoglieva offerte dai fedeli, il corvo chiese, come era
solito, elemosina per i frati infermi. Il vescovo rifiutò,
promettendogli comunque di donargli qualcosa in un altro momento. Il
pennuto, indignato per quel rifiuto, strappò dal suo capo la mitra e
la cedette ad un macellaio da cui ebbe in cambio pezzi di carne per i
frati ammalati: «Corvus vero quasi indignatus eius mitram accipiens
ipsam cuidam carnefici apportavit et pro duobus infirmis fratribus
carnes recipiens sibi mitram pro solutione dimisit». Il vescovo,
sconcertato, riuscì a recuperare la mitra solo in cambio di denaro:
«Episcopus vero miratus hoc audiens, dato pretio, mitram recuperavit». Con
un modo di fare altrettanto dispettoso, il corvo punì l’avarizia di
un cavaliere che in un giorno d’estate, andandosene scalzo per la
città, rifiutò di fargli elemosina. Questo allora, per dispetto, gli
corse dietro martoriandogli le tibie con il becco. Il cavaliere, per
difendersi, lo colpì con un bastone. A distanza di qualche giorno il
corvo si imbatté di nuovo nel cavaliere inter Assisium et
Portiunculam equitantem. Aveva in testa un bel cappello che il
pennuto, memore delle percosse ricevute qualche giorno innanzi, gli
strappò dal capo abbandonandolo sulla cima di un albero. Quegli,
sceso dal cavallo, si arrampicò sull’albero per recuperarlo. Ne
approfittò il corvo che, per vendetta, volato sulla groppa del
cavallo, lo tormentò violentemente con il suo becco, costringendolo
ad una rapida fuga: «Corvus autem statim super equum volavit et ipsum
rostro fortiter percutiens eum rapido cursu fugere coepit et sic se de
milite vindicavit». Subito dopo la morte di S. Francesco, il corvo rifiutò il cibo e si ammalò gravemente. I frati, preso consiglio fra di loro, insistettero perché si portasse sulla tomba del Santo. Quello obbedì e non volle più allontanarsi da lì dove, senza cibo né acqua, si lasciò morire di dolore [87]. La ricchezza degli elementi ludici dà movimento a tutto l’episodio. Ma qui, ci si trova anche di fronte a particolari narrazioni, ben lontane dalle esaltazioni ufficiali. Proprio per questo esse costituiscono testimonianze storiche importanti sia in riferimento al contesto ambientale e geografico in cui le azioni si svolgono,-pur in uno spazio geografico dalle delimitazioni troppo generiche- sia in riferimento al genere di vita dei frati e ai loro rapporti con l’esterno [88]. L’episodio
mette in luce una disposizione d’animo permanente di Francesco non
solo verso i poveri, i lebbrosi e tutti coloro che vivono ai margini
della società, ma anche verso i suoi frati, soprattutto, quelli
ammalati, per i quali si preoccupa di procurare loro il necessario. Ora, per dirla col Manselli, «non vogliamo indulgere al pittoresco e all’oleografico» [89], vogliamo semplicemente sottolineare che non solo Francesco come uomo ha sentito profondamente la condizione degli esseri viventi, ma anche gli esseri viventi come gli animali (e l’episodio del corvo ce lo ricorda), hanno sentito e sperimentato l’amore di Francesco e la sua condizione, tant’è vero che il corvo si lascia morire di dolore sul suo sepolcro da dove «recedere noluit nec comedere nec bibere, sed ibidem prae dolore decessit», perché – scrive Fortini – «è un dolore degli esseri inferiori che è così simile al dolore degli uomini» [90]. Il Papini riferisce che lo scheletro di quel corvo fu ritrovato sulla tomba del Santo cinquantasei anni dopo la sua morte [91]. Fra i tanti episodi che mettono Francesco a contatto con gli animali, nessuno sembra più personale ed intenso di questo fra quelli riferiti dai compagni che con lui vissero gli ultimi anni della sua esistenza e, sulle cui testimonianze, tutti i biografi, sia pur con alcune variazioni, furono d’accordo. Né l’autenticità può essere messa in dubbio se questi passi, come è noto, si trovano inglobati, in ordine e modi diversi, in varie raccolte di episodi della vita di San Francesco [92]. Comunque, è da Tommaso da Celano, suo primo biografo, che bisogna partire per un’indagine puntuale sugli episodi che riguardano il rapporto tra il Santo e gli animali, provenienti da direzioni diverse in obbedienza alla richiesta di Crescenzio da Iesi nel 1244. Molto rilevante è il fatto che nella lettera di Greccio, premessa alla Legenda trium sociorum [93], i compagni di Francesco ribadiscano di essere stati con lui più a lungo e di testimoniare pertanto sulle sue gesta di cui sono stati spettatori: «[…] visum est nobis qui secum licet indigni fuimus diutius conversati, pauca de multis gestis ipsius quae per nos vidimus, vel per alios sanctos fratres scire potuimus, et specialiter per fratrem Philippum visitatorem pauperum dominarum, fratrem Illuminatum de Arce, fratrem Masseum de Marignano, et fratrem Iohannem socium venerabilis patris fratris Egidii, qui plura de his habuit ab eodem sancto fratre Egidio, et sanctae memoriae fratre Bernardo primo socio beati Francisci, sanctitati vestrae veritate praevia intimare» [94]. Ovviamente,
nel rispetto del tipo di indagine dato a questo studio, saranno prese
in considerazione quelle “gesta” che riguardano i rapporti ludici
tra il Santo e gli animali, trascurando i significati dei valori
simbolici pur da lui
compresi, ma sui quali egli non si sofferma. Dalla
metà del Duecento si fanno via via numerosi gli episodi relativi alla
presenza di Francesco sulla Verna, dove Bonaventura collocherà quello
del falcone che, fatta amicizia col Santo, veglierà sul suo sonno. La
fonte è comunque Tommaso da Celano che non riferisce il luogo esatto,
limitandosi a situarlo «in quadam eremo»: «Cum beatus Franciscus,
aspectum et colloquium hominun more solito fugiens, in quadam eremo
commaneret, falco in loco nidificans magno se illi amicitiae foedere
copulavit». Il patto di amicizia non si esaurisce nel canto e nel rumore del corvo per svegliare il Santo alla preghiera notturna: «Nam semper horam nocturno tempore, in qua sanctus ad divina obsequia surgere solitus erat, cantu suo praevenibat et sono». Esso richiede da parte di Francesco un affetto spontaneo, ricambiato dal volatile con giocosa e amorevole sollecitudine, tant’è che quando il Santo si sentiva spossato più del solito dalla malattia, il falco dimostrava ogni cautela ritardando il segnale di sveglia. Come istruito da Dio, solo verso il mattino faceva risuonare con tocco leggero la campana della sua voce: «Cum vero sanctus aliqua infirmitate plus solito gravaretur, parcebat falco, nec tam tempestivas indicebat vigilias. Siquidem velut instructus a Deo, circa diluculum vocis suae campanam levi tactu pulsabat» [95]. Lì, sulla Verna, si assiste ad un passaggio per gradi sempre più alti, dal rapporto delicato e giocoso tra Francesco e il falco al rapporto tra Francesco e il dolore che, di lì a poco lo avrebbe librato sulle ali della contemplazione con l’apparizione del Serafino che in quella esperienza umana e spirituale gli farà perdere la sua carica dolorosa [96]. Un fagiano rifiuta di prendere il cibo se non da Francesco (Legenda Maior, ms. 1266) L’affetto
e la simpatia di Francesco verso il mondo animale non scadevano
nell’incoerenza tra la proclamata fratellanza a quel mondo
partecipata e certe sue golosità di cui a fare le spese erano proprio
gli animali che, ovviamente, non venivano consumati vivi, ma fatti
allo spiedo come uccelli e animali da cortile, oppure cotti sulla
brace o in padella come i pesci, o macellati e cotti come i capi di
bestiame per l’uso, anche se limitato, ai casi di infermità o per
proteggersi dal freddo con le pelli ricavate. Francesco, anche se
santo, era un uomo «a giustificazione si può addurre anzitutto il
fatto che neppure per i santi cade in prescrizione istintiva l’alibi
di diritto comune Homo
sum: humani nihil a me alienum puto»
[97]. In proposito, si vorrebbe dare rilievo all’episodio del cappone tramutato in pesce. Il Santo che predicava al popolo «in civitate Alexandriae Lombardiae» fu ospitato da un uomo timorato di Dio, che lo invitò a mangiare di tutto «quello che gli fosse posto davanti», come prescrive il Vangelo. Egli acconsentì volentieri, e il padrone di casa gli preparò con cura un cappone. Improvvisamente si presentò in casa un tale che, fingendosi povero, chiese di essere aiutato. Il Santo, prese una coscia di cappone e gliela mandò. Il mendicante, che era un eretico cataro, la mise via per screditarlo dinanzi al popolo. A questo punto la vicenda assunse contorni tragicomici determinati dal fatto che, come in gioco di prestigio, la coscia di cappone tenuta fra le mani dell’eretico, si trasformò improvvisamente in pesce tra gli insulti della folla e la conseguente vergogna del disgraziato che invano ostentava quello che lui credeva essere carne di cappone: «Ecce-garrit- qualis est Franciscus iste qui praedicat, quem honoratis ut sanctum: videte carnes quas mihi sero dum comederet dedit. Increpant illum pessimum universi, et velut daemone plenum omnes obiurgant. Piscis revera omnibus apparebat quod nitebatur ille asserere membrum fore caponis» [98]. Il miracolo fu una ulteriore conferma dell’appartenenza di Francesco al popolo che lo sentiva veramente suo perché «con lui e con i suoi compagni rinasceva quella comunione di spirito fra mondo religioso e mondo laico che un secolo indietro era stata quasi ordinaria e poi si era andata sperdendo» [99]. Con Francesco anche il popolo era stato coinvolto, senza averne coscienza, nel recupero dell’armonia del mondo e della natura. Come una carezza sulla guancia dell’umanità, Francesco l’aveva svegliato da un torpore antico per coinvolgerlo nel riso della natura, nei fiori dei prati, nel canto degli uccelli del bosco e in quello stridulo della cicala, il cui bellissimo episodio è riportato dalla Compilatio Assisiensis, testo base di cui si sono serviti Tommaso da Celano e Bonaventura [100]. Il racconto è preciso e minuzioso anche nella individuazione del luogo: apud Portiunculam, come scrive Tommaso da Celano o apud eundem locum, cioè sempre alla Porziuncola, come si legge nella Compilatio Assisiensis, che indica anche il punto preciso della cella di Francesco, cioè l’ultima dietro la casa vicino alla siepe dell’orto, occupata dopo la sua morte dall’ortolano frate Raniero: «Quodam tempore in estate, cum esset beatus Franciscus apud eundem locum et maneret in cella ultima iuxta sepem orti retro post domum, ubi post mortem eius manebat frater Rainerius ortolanus, accidit ut quadam die, cum descendisset de illa cellula, cicada erat in ramo arboris fici, que erat iuxta eandem cellam, ita quod poterat ipsam tangere» [101]. Il ramo di fico su cui si era posata la cicala pendeva dunque quasi ad altezza d’uomo, dando a Francesco la possibilità di allungare un po’ verso l’alto il suo braccio come a sollecitarla a saltare sulla mano. All’invito gestuale del Santo seguì il salto. Fu il preludio ad un gioco canoro atteso e desiderato. Tommaso da Celano evidenzia la reciprocità della relazione affettiva e razionale che si manifesta all’invito di Francesco e alla disponibilità della cicala che «velut rationis compos, statim super manus eius ascendit. Et ait ad eam: Canta, soror mea cicada, et Dominum creatorem tuum iubilo lauda!» [102]. La Compilatio Assisiensis, con poche ma significative varianti accentua i movimenti di un gioco delicato, originato dallo sfregamento carezzevole del dito di Francesco sul dorso della cicala per sollecitarla al canto :«Veni ad me, soror cicada. Et statim ascendit in digitis manus eius, et cum digito alterius manus cepit tangere cicadam, dicens sibi : Canta, soror mea cicada» [103]. I
particolari della descrizione narrativa dell’episodio fanno supporre
la presenza reale di testimoni e conferiscono allo stesso gli aspetti
caratterizzanti un percorso ludico che si risolve nel canto e nelle
lodi a Dio. Né è difficile, senza forzare le fonti, immaginare la
corrispondenza ludica colta nei gesti delicati di Francesco e nella
risposta canora della cicala che, tenuta per un certo tempo fra le
mani, viene poi deposta sul ramo del fico: «Et sic per magnam horam
tenuit ipsam ita in manu; postea reposuit ipsam in ramo fici, unde
ipsam abstulerat». La gestualità di Francesco aveva dato inizio ad
un gioco che si protrasse per ben otto giorni. Ogni mattina, nel
momento in cui il Santo usciva dalla cella invitava con una carezza la
cicala a cantare e quella cantava: «Et sic usque ad continuos VIII
dies, cum descenderet de cella, cum dicebat ei ut caneret, tangendo
ipsam, canebat». Note 68
Cfr.
II
Cel. 167: FF 753; Ff, 592-593; III Cel. 23: FF 846; Ff,
664. 69
Cfr.
Thomae
de Eccleston, Liber de adventu Fratrum Minorum in Angliam: AF
I, 232: «[…] Cum igitur incederent per viam, incepit frater Petrus
predicare ei de virtute sanctae obedentiae; et ecce avis quaedam
silvestris precessit eos ambulans in via. Dixit
ergo novitius, Stephanus nomine, ad fratrem Petrum: “Pater, si sic
est ut dicis, praecipe per virtutem obedentiae, ut capiam avem hanc
silvestrem, ut ipsa expectet me”. Qui
cum sic fecisset, statim stetit avis et accessit novitius et tenuit
eam et tractavit, sicut voluit […]».
70 Cfr.
Legenda maior, XII, 5 : FF 1208 ; Ff, 883. 71
Cfr.
AF III, 71 : «Cum autem frater Leo beatum Franciscum iam
defunctum affectaret videre et ob hoc in loco Heremitae ieuniis et
orationibus se coram Domino afflixisset, ecce oranti apparuit beatus
Franciscus iucundus et splendidus habens alas cum pennis fulgentibus
et cum unguibus ad modum aquilae deauratis. Cumque frater Leo ex tam
mirando aspectu et affatu mellifluo multum recrearetur, interrogavit
eum, quare sibi in tali effigie apparebat. Cui sanctus Franciscus
respondit : "Inter alia dona, quae mihi pietas divina
concessit, est, ut devotos Ordinis mei adiuvem citius quasi volans, in
tribulationibus invocatus, et eorum ac bonorum fratrum animae ad
coelestia regna perducam ; daemones vero quasi unguibus feriam et
fratres reprobos se Ordinis persecutores dura punitione corrigam et
discerpam"». 73
Su
questi originali aspetti, J. Dalarun, Francesco : un passaggio.
Donna e donne negli scritti e nelle leggende di Francesco d’Assisi,
109-140, qui 129. 74
Cfr.
XXIV Generalium:
AF III, 232. Sul
significato dell’episodio di cui non è stato possibile individuare
la fonte tra quelle due e trecentesche, M. T. Dolsa, La Cronica
XXIV Generalium. Il difficile percorso dell’unità nella storia
francescana, Padova (Centro Studi Antoniani) 2003, 92, nt. 123. 75
F. Cardini, Francesco
d’Assisi e gli animali, 45-46. 76
Cfr.
II Cel. 75: FF 663; Ff,
513; Comp. Ass. 97: Ff, 1626-1631; Spec. perf. 24:
Ff, 1888-1889. 77
A. Marini, Sorores
alaudae, 30-47. 78
J.
Dalarun, La malavventura di Francesco d’Assisi, Milano 1996,
52. 79
Sull’importanza
di questo aspetto, E. Pásztor, Tommaso da Celano e la “Vita
Prima”: problemi chiusi, problemi aperti, in Tommaso da
Celano e la sua opera di biografo di S. Francesco. Atti del
Convegno di studio, Celano 1985, 50-73 e R. Manselli, Tommaso da
Celano e i «Soci» di Francesco: la «Vita II», ibidem 74-85; cf.
A. Marini, Sorores alaudae, 80-81.
80
Stanislao
da Campagnola, Introduzione alla Legenda Maior Sancti
Francisci: Ff, 755-773; F. Uribe, Introduzione, 229-269; F.
Accrocca, «Viveva ad Assisi…», 93-103. 81
Cfr.
Legenda maior,
VIII, 9: FF 1154; Ff, 850. Cfr.
anche Jacobus de Voragine,
Vita S. Francisci: AF X, 688. 82
Cfr.
I
Cel. 61: FF 428; Ff, 336; Legenda maior , VIII, 8: FF 1153; Ff,
850; AF X, 595. 83
Cfr.
Henricus
Abricensis, Legenda S. Francisci versificata IX: Ff, 1185, vv.
45-62. Su Enrico d’Avransces, sulla sua attività e produzione
poetica, G. Cremascoli, Introduzione alla Legenda: Ff,
1125-1130. Su questo poeta grava il giudizio di essere stato un
semplice e puro versificatore della Vita Prima di Tommaso da
Celano e, pertanto, è letto solo in funzione del Celanese. Raoul
Manselli ci ricorda invece che l’arcipoeta Enrico non era un
mediocre e che costituisce inoltre un testimone d’eccezione di
Francesco e della sua fama in un periodo in cui il Santo, pur
certamente noto, non è ancora al centro di quel dibattito interno
all’Ordine Minoritico. Cfr.
R. Manselli, Henri d’Avranches
e l’ Islam: S. Francesco in Terra Santa, in Francesco e i
suoi compagni, 278-286. 84
Cfr.
III
Cel. 24: FF 847; Ff, 664-665. 85
Cfr.
Iulianus
de Spira, Vita 40: Ff, 1061-1062. Su Giuliano da Spira e sulla
sua opera non sono mancati problemi e controversie; a riguardo, G.
Cremascoli, Introduzione alla Vita Sancti Francisci:
Ff, 1017-1023. Sul valore spesso trascurato della Vita,
E. Prinzivalli e L. Fioretti, Alcune riflessioni sulla Vita S.
Francisci di Giuliano da Spira, in Hagiographica 3 (1996),
136-161. 86
Cfr.
Iulianus
de Spira, Vita 39: Ff, 1061. 88
Su
questi aspetti, U. Nicolini, La struttura urbana di Assisi, in Assisi
al tempo di Francesco. Atti del V Convegno Internazionale della
Società Internazionale di Studi francescani, Assisi 1978, 248-270; L.
Pellegrini, I frati Minori ad Assisi fra Due e Trecento, in Assisi
anno 1300, a cura di S. Brufani e E. Menestò (Medioevo
francescano. Saggi 6), Assisi 2002, 113-137, in partic. 123, nt. 21;
Stanislao da Campagnola, La società assisana nelle fonti
francescane, in Idem, Francesco e francescanesimo,
118-145, in partic. 136-141. 89
R.
Manselli, Nos qui cum eo fuimus, 271.
90
A.
Fortini, Nova Vita , I, t. II, 244. 91
N.
Papini, La vita di San Francesco d’Assisi, Foligno 1825, 2
voll., II, 27.
92
R. Manselli, La povertà,
215 ss. 93
Sulla
autenticità e integrità della Legenda e della sua connessione
con la Lettera di Greccio, vedi L. Pellegrini, Introduzione alla
Legenda trium sociorum: Ff, 1355-1371; F. Uribe, Introduzione,
173-193; F. Accrocca, «Viveva ad Assisi…», 61-70. 94
Cfr.
FF
572-576; Ff, 1373-1374. 95
Cfr.
II
Cel. 168: FF 754; Ff, 593; III Cel. 24: FF 847; Ff, 665; Legenda
maior VIII, 10: FF 1158; Ff, 851. 96
F. Cardini, Francesco
d’Assisi e gli animali, 37-38; A. Marini, Sorores alaudae,
107-108. 97
M. De Marzi, S.
Francesco d’Assisi e l’ecologia, Vicenza 1981, 94. 98
Cfr.
II
Cel. 78: FF 666; Ff, 515-516; Bartolomeo da Pisa, De conformitate:
AF IV, 478-479. 99
L.
Salvatorelli, Vita di san Francesco d’Assisi, Torino 1982,
100-101.
100
Cfr.
Comp. Ass.110: Ff, 1664-1665; Legenda maior VIII, 9: Ff,
850-851; Jacobus de Voragine, Vita: AF X, 689. Nelle
annotazioni dei biografi si intuisce come la Porziuncola,
nell’immaginario collettivo, fosse divenuta un luogo di importanza
destinata a fortune più grandi. 101
Cfr.
Comp. Ass. 110: Ff,
1664. 102
Cfr.
II Cel. 171: FF 757; Ff,
595-596. 103
Sulle
diversità di tono tra la Comp. Ass. e la II Cel., relative
all’episodio, A. Marini, Sorores alaudae, 126-129.
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©2007 Felice Moretti. Il saggio è stato pubblicato a stampa in «Il Santo», 46 (2006).