Sei in: Mondi medievali ® Immaginario medievale |
a cura di Felice Moretti |
Parte IV
Francesco e il lupo di Gubbio (Assisi, portale gemino di accesso alla Basilica Inferiore di San Francesco, sec. XVI, pannello con scena a bassorilievo).
La
vena ludica tenera e delicata che accompagnava Francesco nei suoi
frequenti incontri con gli animali divenne patrimonio comune anche dei
primi compagni, che furono non solo testimoni, ma anche partecipi
degli eventi che dettero origine alla scelta singolare dell’Assisiate.
Le sensibilità erano certamente diverse così come diverse erano le
predisposizioni nei confronti del mondo animale e le relazioni che con
esso riuscivano ad intrattenere. Di certo, le frequentazioni continue
col Santo e il suo rapportarsi con le creature, avevano accentuato le
loro già delicate emotività e sensibilità. Il beato Egidio d’Assisi si inserisce a pieno titolo come uno dei protagonisti di quella straordinaria proposta di vita evangelica che vedeva nella natura e nelle sue creature il respiro di Dio. Accolto nella primitiva fraternità come terzo compagno di Francesco, dopo Bernardo di Quintavalle e Pietro Cattani, la vita di Egidio che si protrasse fino al generalato di Bonaventura, si concluse nel 1262. Tommaso da Celano che lo conobbe in vita, lo elogiò con queste parole: «Hunc Franciscum vero, post non multum temporis, sequitur frater Aegidius, vir simplex et rectus ac timens Deum, qui longo tempore durans, sancte, iuste et pie vivendo, perfectae obedientiae, laboris quoque manuum, vitae solitariae, sanctaeque contemplationis nobis exempla relinquit» [104]. Nell’Anonymus Perusinus e nella Legenda trium sociorum vengono descritti con vivacità di particolari alcuni episodi della vita comunitaria del primi compagni di Francesco e del viaggio di Egidio nella Marca Anconetana assieme al Poverello. Uno dei tratti più belli della sensibilità di Egidio nei confronti degli animali è ricavato da alcuni passi della Chronica XXIV Generalium. Anch’egli, come Francesco, sentiva nel canto della cicala non solo la lode a Dio creatore, ma anche un invito a ben operare: «O domina caucalia, volo venire ad te ad auscultandum de laudibus Domini». E poi, con un gioco vocale fra labiali e gutturali, ammonisce gli uomini a ben operare in questa vita. Il canto della cicala, infatti, non si esprime con monosillabi che indicano la dilatazione nel tempo, ma con quelli che ne accentuano l’immanenza: «Volo recordari, quia non dicis la,la, sed dicis ca, ca; quasi diceres: non illuc in alia vita, sed hic studeas meritorie operari» [105]. Il ricorso dei frati alla spontanea imitazione del linguaggio degli animali scaturiva dal contatto continuo e familiare con essi. Di questi venivano colti gli aspetti e i comportamenti assimilabili alle naturae et mores hominum che lasciavano lo spazio ad un gioco mentale tale da trasformare certi messaggi in momenti didattici o, più in generale, in strumenti di comunicazione immediata e naturale. Frate Masseo, ad esempio, quando pregava, esprimeva con aspetto ilare e giocondo tutto il suo spirituale ardore emettendo versi simili alla voce flebile di un colombo: «Et saepe quando orabat, faciebat quendam iubilum uniformem voce obtusa sicut columbus: hu, hu, hu continue replicando, et sic facie hilari et iucunda contemplationi vacabat» [106]. Nell’agiografia cristiana medievale non è riscontrabile una emozione così intensa come quella che provava Francesco nei suoi incontri con gli animali, anche se taluni di essi non godevano della sua amicizia e simpatia e, pertanto, esclusi dalla sua naturale propensione al rapporto ludico. Come avrebbe potuto Francesco dialogare con i topi che, per ben cinquanta giorni lo avevano tormentato a S. Damiano di notte e di giorno? Per di più, se a volte provava a riposarsi o dormire, in quella cella dove giaceva (ricavata in un angolo della casa) vi era un gran numero di topi che scorazzavano sopra e d’attorno al suo giaciglio e non lo lasciavano dormire. Lo molestavano soprattutto durante la preghiera, e giorno e notte lo assalivano; quando mangiava, gli salivano sul piatto. Tanto lui quanto i suoi compagni pensavano che questa fosse una tentazione del diavolo [107]. Né Francesco nutriva simpatia verso certi minuscoli parassiti, abitatori abituali, ma non graditi ospiti, che si annidavano fra pieghe, suture e risvolti della sua tonaca non sottoposta a lavaggi frequenti, ed usata anche come coperta da letto. In un codice domenicano del 1250 si legge che il Santo «eadem tunica diebus et noctibus pro indumento et lecto utebatur quae vermibus operta, frequenti excussione baculi tollerabilior reddebatur» [108]. Tommaso da Celano scrive che anche poco prima di morire Francesco avesse provato fastidio per la presenza di pidocchi che, annidatisi fra le pieghe della tonaca, gli tormentavano il corpo. Solo l’intervento di un frate che ne aveva intuito la molesta presenza, riuscì ad alleviare il suo tormento sbattendo la tonaca: «Alter quidam de fratribus, curiosa inquisitione nisus videre quod aliis erat absconditum, dixit sancto patri die quadam: “Placetne, tibi, pater, ut excutiamus tunicam tuam?”. Cui sanctus: “Retribuat tibi Dominus, frater, quoniam indigeo quidem”» [109]. I
pidocchi, come i topi non
rientravano nel catalogo degli animali amici di Francesco; per i frati
furono anzi considerati strumenti del demonio, così come lo furono
per frate Gilberto da Vyz contro il quale il diavolo se la spassò
gettandogli contro una manciata di pidocchi per poi sparire, così
come racconta Tommaso da Eccleston nel cap. III del suo De adventu
fratrum minorum in Angliam. Ma non per questo bisogna confondere
questi momenti di scontro per catalogare quegli insetti fastidiosi e i
topi nelle categorie di animali negativi, altrimenti in esse dovremmo
anche includere il pettirosso ingordo, la scrofa assassina o il lupo
di Gubbio, la cui presunta ferocia nasce dal fatto di essere carnivoro
e che, pertanto, ha bisogno, come gli uomini, di mangiare. Le formiche e le api, a differenza dei pidocchi, godettero invece del privilegio di far parte della grande famiglia di fratelli e sorelle di Francesco. Giacomo da Vitry nei suoi sermoni ai frati minori paragona la formica all’umiltà e alla sapienza dei santi e a quei frati che partecipano con le proprie mani al lavoro di altri fratelli e a quelli che raccolgono per tutti le elemosine dei fedeli [110]. Bartolomeo da Pisa, nell’intento di mettere in evidenza gli atteggiamenti concreti dei frati di vivere in obbedienza all’interno della propria fraternità, riferisce un episodio avvenuto « in castro Cisternae, dioecesis Castellanae ». Recatosi in quel posto per predicare al popolo, Francesco ordinò alle sorelle formiche (sororibus formicis) di allontanarsi dall’albero al cui tronco egli si era appoggiato. Non era sua intenzione sfrattarle, tant’è che quelle, allontanatisi di là, presero possesso di una quercia più grande, messa loro a disposizione, per sua espressa volontà, dalla gente del posto. Qui, l’intesa tra Francesco e le formiche acquista una forma di gioco che ha come spettatori il popolo e il Santo stesso divertiti e stupiti dal trasferimento in massa di quell’esercito di insetti da un albero all’altro. Allo stesso modo Francesco riuscì a farsi obbedire dalle rane che disturbavano gracidando in una pozzanghera nei pressi della chiesa dove egli predicava al popolo. Ordinò che tacessero. Subito tacquero. A fine predica il Santo dette loro licenza di riprendere con il loro canto l’antico concerto con cui a modo loro lodavano Dio: «[ …] data licentia Deum laudandi eis, illico cantum suum pristinum reassumpserunt» [111]. Francesco
non si intende di etologia e quando guarda all’animale o a creature
inferiori come gli insetti sa che questi, in quanto provvisti dalla
natura di tutte le doti necessarie a fare il buon frate minore, sono
forse maestri per lui
[112]. Per questo aveva nei loro
confronti dei debiti di riconoscenza tant’è che - come racconta
Giuliano da Spira - si preoccupava perché alle api non mancasse vino e
miele: «… ne deficerent, forte vinum vel mel in hieme ministrabat»
[113],
trascorrendo poi in cella un giorno intero a lodare la loro laboriosità
e la finezza d’istinto. Tommaso da Celano scrive che quando Francesco abbandonò la cella sul monte Verna, nessuno prese il suo posto. Lì rimase anche il vasetto di terra che gli era servito per bere. Un giorno vi si recarono alcune persone per devozione al Santo: il vaso era pieno di api che, con arte mirabile vi stavano formando le cellette dei favi. Certamente volevano indicare la dolcezza della contemplazione, di cui si era inebriato in quel luogo il Santo di Dio: «In ipso autem vase mirabili arte favorum cellulas fabricabant, revera significantes contemplationis dulcedinem, quam ibi hauserat sanctus Dei» [114]. L’espressione
celaniana ci rinvia al laborioso dinamismo e al ludus delle api
che, iniziato da Francesco nel procurare loro miele e vino, non fu più
interrotto. Scena allegorica con lupi e asino vestiti da monaco (Parma, Duomo, capitello della navata centrale, sec. XII). Come
precedentemente detto, non è certo nutrita la schiera degli animali
«nemici» del Santo, anche se ha poco senso parlare di animali amici,
poco amici o nemici, dal momento che la sua capacità di amare non si
manifestava in queste gradualità emotive e affettive. Effettivamente
vi erano animali che facevano parte della quotidianità della sua vita
e con i quali aveva intrecciato rapporti confidenziali più intimi che
con altre specie animali, anche per effetto di naturale e istintiva
simpatia che spesso si trasformava in vera e propria ludicità fra le
parti. Tommaso
da Celano e poi Bonaventura riportano l’episodio di un fagiano che
fu portato in dono a Francesco ammalato a Greccio da un nobile della
terra di Siena, perché se ne cibasse. Il Santo lo accettò con
piacere, non per cibarsene, ma per l’amore che portava per le
creature e che esse ricambiavano. Il fagiano, infatti, non volle più
allontanarsi da lui nonostante i tentativi dei frati di portarlo
lontano nei suoi luoghi abituali e più adatti alla sua natura.
L’amore di Francesco voleva le creature libere nei cieli o nei
profumi delle selve, ma quel volatile invece faceva sempre ritorno
alla porta della sua cella, schivando con giochi di movimento veloci
ed improvvisi le azioni di contrasto dei frati, zigzagando fra le loro
tonache fino a guadagnare l’ingresso. La capacità di sintesi del
Celano non solo evidenzia la ludicità della scena su cui il fagiano
si muove come attore protagonista che, «quasi vim faciens sub tunicas
fratrum qui erant in ostio introivit», ma dà anche risalto alla
partecipazione di Francesco come spettatore divertito da quelle
evoluzioni. Più che al gioco, qui assistiamo ad una competizione al
cui vincitore viene assegnato il premio alla fedeltà. Il Santo
infatti dette ordine che il fagiano, abbracciato e vezzeggiato con
dolci parole, fosse subito ben nutrito: «Iussit proinde illum sanctus
diligenter nutriri, amplexans illum et dulcibus verbis demulcens». L’episodio, collocato da San Bonaventura alla Verna durante la quaresima di San Michele, si arricchisce di particolari che evidenziano da una parte la spirituale simpatia del Santo verso il fagiano, dall’altra la gioia e il gradimento di questo per il suo ritorno che festeggia con appetito e con esibizioni di allegria: «Reportatus tandem ad famulum Dei, statim ut conspexit eundem, quibusdam hilaritatis praetensis gestibus, avide manducavit» [115]. Sembra
evidente anche da questo episodio che nel rapporto tra Francesco e gli
animali la teologia e l’allegoria non hanno nulla a che vedere, anzi
tra l’uno e gli altri vi è una analogia di condizione vissuta non
in modo simbolico, ma reale e quotidiana. L’episodio del fagiano ricorda per vari aspetti quello del leprotto che, come tanti altri, non può essere risolto in termini di rapporto simbolico, ma in sé e per sé, con un suo sviluppo in un paesaggio agricolo umanizzato. Non v’è bisogno di forzare le fonti per cogliere in questo incontro di Francesco col leprotto gli elementi ludici in un contesto di serena e pacata umanizzazione dove anche l’azione violenta della caccia e della relativa cattura dell’animale si stempera nelle carezze materne del Santo nel cui grembo esso saltella, come ad un luogo sicuro. Né i ripetuti tentativi ed inviti a tornare libero nel bosco valsero ad allontanarlo, perché il leprotto, messo a terra più volte, rimbalzava in braccio a Francesco, finché questi non lo fece portare dai frati nella selva vicina [116]. Giuliano da Spira è ancora più realistico nel tratteggiare in modo più vivace la dinamicità dell’animale che trasforma l’azione in gioco con quei saltelli ripetuti dalla terra al grembo del Santo. La briosità ludica è precisata dai due avverbi «quotiens» e «toties» ad indicare la consequenzialità del comportamento giocoso di ambedue gli attori [117]. Con altrettanta realistica vivacità si esprime S. Bonaventura in merito allo stesso episodio nel quale la percezione del gioco è definita dall’effetto di altri due avverbi, «pluries» e «semper» [118]. L’accentuazione
di questo rapporto confidenziale, affettivo e ludico tra Francesco e
gli animali è segnalata alla fine dell’episodio dai biografi,
quando riferiscono di un caso simile che si era verificato
nell’isola del lago Trasimeno con un coniglio. Nel sottolineare la
sua difficile addomesticabilità, «animal valide indomesticum», per
Tommaso da Celano e «animal valde indomabile» per Giuliano da Spira,
viene lasciato alla immaginazione del lettore lo sviluppo scenico: «Simile
quiddam contigit de quodam cunicolo» del Celano; «modo quoque
consimili» di San Bonaventura e «huic simile quiddam fecit» di
Giuliano da Spira.
Anche il famoso episodio del lupo di Gubbio fa parte del rapporto celebrativo tra Francesco e gli animali, con molteplici piani di lettura e più percorsi di indagine: quello del lupo, quello di Francesco come personaggio, e quello di San Francesco «cavaliere» al servizio di Dio [119] dove i fattori ludici sono parte integrante ed imprescindibile del suo modo di essere, «sempreché, beninteso, il ludus venga inteso come già Huizinga o, con diversa curvatura, Hermann Hesse lo intendevano, nel senso cioè non già di svago bensì nel suo più intimo e profondo significato di espressione ritualizzata e stilizzata di una Weltanschauung» [120]. Se Francesco «gioca a vincersi» nell’abbraccio dei lebbrosi, tragugitando avanzi nauseabondi pieni di pus dalla stessa scodella di uno di essi; se gioca col suo corpo mentre predica, come ci testimonia Tommaso da Spalato che lo vide predicare nella piazza principale di Bologna il 15 agosto del 1222 [121]; se gioca quando tratta con i potenti della terra o con i poveri e i diseredati; se gioca col suo cantare gallice; se gioca con la parola volgare in qua et muliercule comunicant quando canta il creato, come avrebbe potuto non essere un grande giocatore anche con il lupo? «Questo Francesco, “puro folle” al pari di Perceval, non è forse in realtà, innanzitutto e soprattutto, un meraviglioso giocatore, serio nel gioco come sanno esserlo solo i grandi e autentici giocatori, quelli che hanno il gioco nelle vene come una forma di ascesi?» [122]. Ma
attenzione a non considerare questi rapporti tra Francesco e gli
animali solo alla luce del gioco in sé e per sé! La spontaneità e
la naturalezza del gesto di Francesco ludico talvolta si trasformano
in invettiva che incute terrore. Egli sa essere duro anche con gli
uomini, quando lo ritenga necessario. L’esempio più fulgido del nuovo senso della natura scoperto da Francesco con la famosa «predica agli uccelli» in realtà, se interpretato secondo il punto di vista di Ruggero di Wendover e di Matteo Paris, acquista tutt’altro significato rispetto a quello che hanno voluto cogliere il pennello di Giotto o la penna di S. Bonaventura [123] In un capovolgimento di significati, i passaggi interpretativi dal positivo al negativo del ruolo degli uccelli - secondo l’interpretazione dei due cronisti inglesi -, hanno un percorso inverso per il lupo che, da oppressore e nemico, diventa il campione dell’amicizia con Francesco e con il popolo di Gubbio [124]. L’episodio non deve necessariamente essere letto in chiave allegorica e fantasticare su prepotenti feudatari o su feroci briganti ammansiti dal Poverello d’Assisi. «Oltretutto - scrive Cardini - casi di banditi convertiti da Francesco ce n’erano: perché porre un ipotetico bandito eugubino sotto il velame dell’allegoria? E com’è per contro pensabile che una storia, i cui contorni ambientali e temporali erano tutto sommato tanto circostanziati, avrebbe potuto circolare a lungo, narrata pochi anni dopo il suo supposto accadere, se non ci fosse stato qualcosa di vero?» [125]. Comunque, pur ammesso che l’episodio sia sfuggito ai primi biografi, «la eventuale sua storicità - scrive ancora Cardini - non contrasta in alcun modo a priori con il suo valore e significato simbolico, semmai, è la tipologia del miracolo in Francesco d’Assisi che dovrebbe essere oggetto di uno studio attento, e in essa il lupo eugubino prendere il posto che gli spetta. Insomma il problema centrale rimane quello della scelta interpretativa» [126]. In proposito, non va trascurato il tentativo di P. Bartolomasi di separare nell’episodio gli elementi storici da quelli leggendari e di venire a capo del problema relativo al fatto se trattavasi di un lupo o di una lupa [127]. In
ogni caso, per non uscire fuori tema, si devono necessariamente
trascurare le diverse interpretazioni dell’episodio eugubino
rinviando per queste al denso
saggio di Cardini. Quello che interessa cogliere è l’aspetto
ludico-gestuale dei due protagonisti che agiscono in una cornice
territoriale e antropica ben precisa in cui la situazione di impotenza
e di terrore degli Eugubini per il lupo si evolve e si modifica. La
presenza del lupo era tipica del medioevo
[128],
e il terrore
che suscitava era tale e tanto «che niuno era ardito d’uscire fuori
della terra», né le tradizionali difese contro i nemici di quella
specie erano valsi ad evitare il pericolo mortale. Solo l’intervento
compassionevole, gratuito e non sollecitato di Francesco, libera il
popolo di Gubbio, determinando con l’incontro-scontro un rapporto di
convivenza fra la bestia e gli Eugubini ed una reciprocità affettiva
tra quella e il santo prima e fra quella e gli Eugubini dopo. Il tutto
è preceduto da una gestualità propedeutica e necessaria alla
sanzione di un patto di non belligeranza, che si trasforma
successivamente, in modo naturale e graduale, in rispetto e in pace
reciproci in una cornice del «meraviglioso cristiano», in contatto
comunque con Francesco pur attraverso una fonte tarda. Quello che
interessa è il fatto che, nonostante il diaframma delle fonti, siamo
in contatto con i suoi gesti e, in qualche modo, in relazione con lui. Il percorso gestuale del Santo ha come punto di partenza la consapevolezza dell’ostacolo e della lotta necessaria a superarlo. Il segno della croce è quindi il primo momento della gestualità [129]: «[…] e facendosi il segno della santa croce, uscì fuori della terra egli co’ suoi compagni, tutta la sua fidanza ponendo in Dio» [130]. Con tale «fidanza» Francesco avanza verso il lupo che gli si fa incontro con la bocca aperta in una minacciosa ostentazione della sua ferocia mandibolare [131]. La sfida è iniziata. A distanza ravvicinata, Francesco fa il secondo segno di croce a cui segue l’invito alla bestia ad avvicinarsi. Quella ferma la sua corsa, chiude la bocca e, come un agnello, giace ai suoi piedi [132]. La sfida si è conclusa. Ha inizio il gioco fra i due protagonisti con fasi preliminari in crescendo che partono dall’atto di accusa di Francesco contro il lupo, ritenuto degno di morte orrenda per tutti i delitti commessi contro gli uomini [133]. Alla breve fase processuale segue l’offerta del Santo di farsi fideiussore di una pace duratura fra quello e gli Eugubini [134]. Alla proposta di pace segue l’assenso del lupo, che manifesta con una gestualità che dà a tutta la scena il senso di una ludicità carica di segni, fatta di movimenti del corpo, della coda, delle orecchie e della testa [135]. Il patto è suggellato. Ma la scena non si chiude. Francesco prepara le fasi preliminari per un secondo patto sulla base di alcune proposte-condizioni che saranno accettate dal lupo con una sequenza di gesti che si concluderanno in una stretta di zampa sollevata sulla mano del Santo in una situazione ludica ideale, che si risolve in un linguaggio di spirito cavalleresco [136]. Il
processo di metamorfosi del lupo conferisce alla sua gestualità una
delicatezza che è propria della ideologia cavalleresca, ed è
concretizzata dal movimento gentile di porgere la sua zampa anteriore
destra sulla mano del Santo «blande et leniter». Suggellato il patto di pace fra i due protagonisti principali, il gioco ora coinvolge anche il popolo tutto di Gubbio. La scena si sposta in città. Il patto stipulato fuori porta deve essere ripetuto e confermato con gli Eugubini nei cui confronti Francesco si è fatto mallevadore. E il lupo «se ingeniculans cum inclinatione capitis, et gestibus corporis et caudae et aurium blandimentis, se servaturum pacta promissa omnibus evidenter monstravit » [137]. I consensi gestuali da parte del lupo ci sono tutti. Si sono compiuti a questo punto i rapporti di beneficio e di vassallaggio Francesco/lupo. Il codice cavalleresco è stato rispettato [138]. L’eroismo
cavalleresco di Francesco di cui si era nutrito con i suoi sogni
giovanili di gloria ha qui la possibilità di esprimersi nel
linguaggio corrente attraverso immagini e riferimenti noti a tutti
[139].
Per cui il lupo, pur inserito in un tipo di narrazione dal valore
monitorio, metaforico o simbolico, assume nella realtà
dell’avvenimento il ruolo di vassallo del Santo in una scena che si
trasforma nella sua drammaticità in connotazioni ludiche, a tratti
comiche, non sospettabili in certe specie animali come il lupo. Questi
insospettabili aspetti si colgono anche in altri episodi come quello
riferito dal cronista inglese Ruggero di Wendover, morto nel 1236, che
non sembra inventato, sebbene non se ne abbia conferma da altre fonti. Egli racconta che quando Francesco si recò a Roma dal papa Innocenzo III, fu da questi inizialmente trattato male perché, disgustato per l’aspetto del postulante malvestito, brutto, con i capelli lunghi «dispetto a maraviglia», gli disse: «“Fratello, và a cercare dei porci, tu che somigli a questi più che agli uomini, rotolati con loro in mezzo al brago e realizza tra i porci l’ufficio della tua predicazione, consegnando loro la Regola che hai preparato”. All’udire ciò Francesco chinò il capo e uscì, e trovati infine dei porci si rotolò con loro nel fango finché, nel corpo e nell’abito, non fu sporco dalla testa ai piedi. Così, tornato in concistoro, si presentò al cospetto del papa dicendo: “Signore, ho fatto come mi hai comandato; ora ti supplico, esaudisci la mia richiesta”. Di fronte all’esempio di tanta umiltà, il papa riconobbe nel misero uomo qualità non umane e, commosso, accolse le sue istanze e lo congedò con la sua benedizione» [140]. Trattato
come un folle, oggetto di disprezzo e derisione, Francesco reagisce
nell’unico modo con cui sa reagire, con l’obbedienza, che si fa
spettacolo, si fa gioco nel porcile e nel concistoro. Ma
l’immagine di Francesco ludico giganteggia nel lungo racconto della
notte di Natale a Greccio. Nella forte componente recitativa e
rappresentativa dell’episodio emerge un Francesco immediato,
popolare che con entusiasmo fanciullesco rende concreto un simbolo,
quello dello Agnello di Dio, perché nell’agnello egli vede Cristo
debole, innocente, perseguitato ed ucciso. E gli era tanto dolce pronunciare il nome di Cristo o «Bambino di Betlemme» che, imitando il belato della pecora, faceva scorrere la sua lingua sulle labbra per cogliere con quel gioco labiale tutto il sapore e la dolcezza di quel nome, come a volersene cibare [141]. Al tempo di Francesco e anche prima, la notte di Natale era scenicamente rappresentata con tavole dipinte o con statue messe accanto all’altare o con attori, sacerdoti o semplici fedeli, che richiamavano in maniera suggestiva Maria, il Bambino, Giuseppe, gli angeli, i pastori e i Re Magi. In maniera sorprendente mancavano invece nel presepio voluto da Francesco proprio i protagonisti principali, cioè la Madonna e il Bambino. Non mancavano la greppia, il fieno, il bue e l’asino chiesti e ottenuti da Giovanni di Greccio. Tuttavia, pur senza la presenza di un bambino reale o in immagine, Francesco a Greccio riuscirà ad evocare la visione della mangiatoia facendo ricorso alla sua capacità oratoria e ad una immagine mentale che si tradurrà, almeno per uno degli astanti, nella visione della mangiatoia [142]. Se nella notte di Natale Francesco pensava al bue e all’asino, non aveva tuttavia dimenticato la Vergine Maria e il Bambino Gesù che succhiava dal suo seno. La compassione che egli provava per quel Bambino povero ed indifeso, gli faceva balbettare parole di dolcezza alla maniera dei fanciulli. La sua immensa capacità di amare aveva a tal punto affinata la sua sensibilità da rendergli naturali certi comportamenti e certi linguaggi, per cui i suoi giochi labiali nell’imitare il belato della pecora o il balbettìo di un fanciullo non muovevano al riso, ma ad una tenerezza particolare: quella tenerezza che Francesco aveva per gli agnellini. è lo stesso Tommaso da Celano più di ogni altro ad informarci sulla originalità di comunicazione di Francesco che aveva fatto lingua tutto il suo corpo: «de toto corpore fecerat linguam» [143]. La
predilezione particolare di Francesco per agnelli e pecore,
contraccambiata con il loro affetto e amicizia, è messa in evidenza
da Bonaventura. Egli racconta di una pecora donata al Santo d’Assisi
che, nel sentire alla Porziuncola cantare i frati nel coro, entrava
anch’essa in chiesa al momento dell’elevazione e col suo belato
partecipava al canto, inginocchiandosi dinanzi all’altare della «Vergine,
Madre dell’Agnello»
[144], impreziosendo con quella sacra e
ludica gestualità i momenti sacri. Altrettanto
ludici erano quei gesti e quei salti dell’agnello che Francesco, in
partenza da Roma, affidò alle cure di Jacopa dei Sette Soli, quando
la donna, tardando ad alzarsi al mattino, veniva sollecitata a farlo
dai saltelli sul suo letto. L’agnello era solito infatti svegliarla
con piccoli colpi di corna e con belati, incitandola con tali gesti e
segni ad affrettarsi in Chiesa
[145].
Sono pennellate di un
artista quelle di Bonaventura, che condensa la vivacità degli episodi
e la loro ludicità con brevi frasi ad effetto che sottolineano la
particolare predilezione di Francesco per l’agnello. Un
legame intimo ed affettuoso li unisce tant’è che quando un
agnellino appena nato nella casa accanto al monastero di S. Verecondo
in cui Francesco è ospite, viene ucciso da una scrofa, il Santo,
mosso a pietà, loda «frater agniculus» perché animale innocente e
molto utile agli uomini, «clamans semper et annuntians bene», e
maledice la scrofa che muore dopo tre giorni Con la voce dell’agnello che fa «be-be-be» e l’imitazione di quella voce da parte di Francesco col gioco di labbra balbettanti e belanti nella tensione di assaporare tutta intera la dolcezza del divin Bambino, il Poverello d’Assisi -l’aveva ben capito Ėmile Gebhart- ha riportato l’Italia al patto evangelico con la pietà e l’amore; ha ringiovanito e rinvigorito la Chiesa senza la teologia, senza la scolastica e senza le eresie. Egli è uscito dal Medioevo riconciliando l’uomo con Dio, cacciando le antiche angosce, insegnando che la vita è gioia e letizia [147]. Pochi anni dopo la sua morte, i poeti della Scuola Siciliana cantavano il riso, il sollazzo e il gioco «traducendo senza saperlo forse, il risus, ludus, iocus che già Roma antica aveva raccolti insieme sulla tomba di Plauto» [148].
Note 104
Cfr.
AF X, 65-66. Lo
stesso Bonaventura testimonia e conferma la veridicità del dono della
contemplazione di Egidio. Sulla sua vita, S. Brufani, Egidio
d’Assisi. Una santità feriale, in I compagni di Francesco e
la prima generazione minoritica. Atti del XIX
Convegno Internazionale della Società Internazionale di Studi
francescani, Spoleto 1992, 285-311; Stanislao da Campagnola, La «Leggenda»
di frate Egidio d’Assisi nei secoli XIII-XV, in Idem, Francesco
e il francescanesimo, 369-402; L. Di Fonzo, L’anonimo
perugino tra le fonti francescane del sec. XIII. Rapporti letterari e
testo critico, in Miscellanea francescana (1972), 201-208 e
passim 105
Cfr.
XXIV Gener. : Vita
fratris Aegidii, viri santissimi et contemplativi:
AF III, 74-115, qui 86. 106
Cfr.
XXIV Gener. : Vita
fratris Massaei de Marignano, viri perfectissimi: AF III, 115-121,
qui 119. 107
Cfr.
Comp. Ass. 83: Ff,
1596: «[…] Immo etiam si aliquando vellet quiescere et dormire, tot
mures erant in domo et in cellula ubi iacebat, que erat facta ex
storiis ex una parte illius domus, euntes [et] discurrentes supra
ipsum et in circuitu eius, quod non sinebant ipsum dormire. Immo
tempore orationis valde impediebant ipsum: et non solum de nocte, sed
etiam de die nimis tribulabant ipsum, ita ut, etiam quando comederet,
ascenderent super mensam eius ita ut socii eius et ipsemet
considerarent quod esset temptatio diabolica, sicut et fuit». L’episodio
è riportato anche da Leg. per. 43: FF 1591; Spec. perf.
100: FF 1799; Ff, 2010-2011. Sulla paternità dello Speculum,
F.Accrocca, «Viveva ad Assisi…», 121-128; L. Pellegrini, Introduzione
allo Speculum Perfectionis: Ff, 1829-1847. 108
Giovanni
da Ceprano, Legenda brevis, 10. La citazione è tratta da De
Marzi, San Francesco…, 93, nt. 31. 109
Cfr.
II Cel. 138: FF 722; Ff,
566-567. Si
sa dalla I Cel. 95: FF 486; Ff, 370-371 che quel quidam de
fratribus fu Elia, il solo che potè vedere la ferita al costato,
mentre Rufino ebbe la possibilità di toccarla: «Sed felix Helias,
qui, dum viveret sanctus, utcumque illud videre meruit; sed non minus
felix Rufinus qui manibus propriis contrectavit ». Riguardo al fatto
che il Celano abbia taciuto nella Vita secunda il nome di Elia,
è certamente da attribuirsi al fatto che, quando l’autore scriveva
queste pagine, Elia era stato già scomunicato, perciò ne aveva
taciuto il nome per evitare motivo di scandalo fra gli altri frati.
Sulla questione, G. Barone, Da frate Elia agli Spirituali,
Milano 1999, 38-39; Dolso, La Cronica, 49 passim 110
Cfr.
H. Felder, Jacopi
Vitriacensis (1180-1240) Sermones ad Fratres Minores, in Analecta
Ordinis Minorum Capuccinorum, XIX (1903), 22-24, 114-122, 149-158. 111
Cfr.
Bartolomeo da Pisa, De
conformitate: AF IV, 476; AF V, 13. 112
F. Cardini, Francesco
d’Assisi, Milano 1989, 239-240. 113
Cfr.
Iulianus De Spira, Vita:
Ff 44, 1065. 114
Cfr.
II Cel. 169: FF 755; Ff,
594; I Cel. 80: FF 458-459; Ff, 355-356; III Cel. 28: FF 851; Ff, 667.
L’episodio è riportato anche da Iacobus de Voragine, Vita:
AF X, 687. 115
Cfr.
II Cel. 170: FF 756; Ff,
594-595; III Cel. 26: FF 849; Ff, 665-666; Legenda maior VIII,
10: FF 1156; Ff, 851-852. 116
Cfr.
I Cel. 60: FF 427; Ff,
335-336; III Cel. 29: FF 852; Ff, 667. 117
Cfr.
Iulianus de Spira, Vita
39: Ff, 1061: «Quoties autem a beato viro super terram depositus est
ut abiret, toties ad illum, non aliam libertatem quaerendo, recurrit,
donec tandem ad vicinum nemus ipsum a fratribus asportari praecepit». 118
Cfr.
Legenda maior VIII,
8: FF 1150; Ff, 849: «Cumque pluries in terra positus ut abscederet,
semper in sinum patris rediret […]». 119
G.
P. Caprettini, San Francesco, il lupo, i segni, Torino 1974,
41.
120
F.
Cardini, L’avventura di un cavaliere di Cristo. Appunti per uno
studio sulla cavalleria nella spiritualità di S. Francesco, in Studi
Francescani 73 (1976), 127-197, qui 130. 121
Cfr.
Thomas Spalatensis, Historia
Pontificum Salonitanorum et Spalatensium, in M. G. H.
Scriptores, XXIX, Hannover 1892, 580; L. Lemmens, Testimonia
minora saeculi XIII de S. Francisco Assisiensi, ad Claras Aquas
1926, 9-10. 122
F. Cardini, L’avventura,
131. 124
È
noto che l’episodio del lupo di Gubbio è tratto da un passo degli Actus
beati Francisci et sociorum eius; cf. l’ed. di J. Cambell con
testo dei Fioretti a fronte, a cura di M. Bigaroni e G.
Boccali, Santa Maria degli Angeli-Assisi 1988. Sulla loro storicità,
Stanislao da Campagnola, Francesco d’Assisi nei suoi scritti,
dove a p. 119 scrive: «Eccettuati alcuni particolari e le frequenti
amplificazioni-aspetti per i quali andrebbero fatte osservazioni
speciali-, la sostanza dei Fioretti è storica o di tradizione
orale di buona vena, e solo talvolta fioritura leggendaria». Sugli Actus,
fonte latina dei Fioretti, cf. l’Introduzione di E.
Menestò, Ff, 2057-2084; F. Uribe, Introduzione, 442-461, F.
Accrocca, «Viveva ad Assisi…», 129-138. 125
F. Cardini, Francesco
d’Assisi, 240. 126
F. Cardini, Il lupo di Gubbio.
Dimensione storica e dimensione antropologica di una «leggenda»,
in Studi Francescani 74 (1976) 315-343, qui 319. 127
P. Bartolomasi, Il lupo
di Gubbio, in Miscellanea Francescana X, (1906), 33-56; A.
Fortini, Vita nova, I, pars II, 239-243. 128
Sulla
storia del lupo dall’età antica al medioevo, G. Ortalli, Lupi
genti culture. Uomo e ambiente nel medioevo, Torino 1997, 138-145. 129
Cfr.
Actus, cap. XXIII,
284-285.
130
Cfr.
Fioretti, cap. XXI,
in Actus, 285. 131
Cfr
Actus, 286: «…lupus
ille terribilis contra S. Franciscum, aperto totaliter ore, cucurrit». 132
Ivi:
«Contra quem s.
Franciscus opposuit signum crucis, et tam a se quam a socio virtute
divina lupum compescuit, et cursum retinuit, ac os truculenter apertum
conclusit. Et demum advocans illum ait: Veni huc, fr. lupe, et ex
parte Cristi tibi precipio, quod nec michi nec alteri noceas. Mirabile
dictu quod, statim facta cruce, clausit os illud terribile! Et facto
mandato, statim se ad pedes sancti, de lupo iam factus agnus, capite
inclinato prostravit». 133
I
concetti giuridici medievali contemplavano precise responsabilità
penali per gli animali colpevoli di delitti orrendi. Su
questi aspetti, M. Pastoureau, Nouveaux regards sur le mond
animal à la fin du Moyen Age, in Micrologus. Natura,
Scienze e Società Medievali
4 (1996), 41-54; Idem, Medioevo simbolico, Roma-Bari 2005,
21-39; Caprettini, San Francesco, 57-59; F. Moretti, Aspetti
ludici fra l’uomo e l’animale nella società medievale, in Studi
Bitontini 80(2005), 49-73. 134
Actus,
288: «Sed, fr. lupe, ego volo inter te et istos facere pacem, ita
quod a te ipsi amplius non ledantur, et tibi omnem offensam preteritam
dimittentes, nec canes nec homines te amplius persequentur». 135
Ivi:
«Et lupus gestibus corporis et caude et aurium ac capitis
inclinatione monstrabat illa que sanctus dicebat omnimode acceptare». 136
Ibidem,
289-290 :«Frater lupe, ego volo quod tu des mihi fidem ut possim
confidenter credere quod promittis. Et quum extendisset sanctus
Franciscus manum pro recipienda fide, lupus etiam levavit pedem
anteriorem dexterum, et blande et leniter posuit super manum sancti
Francisci signo quo poterat fidem dando». Sul
pericolo di interpretare come autenticamente «cavallereschi» frasi o
gesti di Francesco, presentati come tali ma che tali non potevano
essere «nella logica mentale del Santo, o almeno non nel contesto di
quel particolare momento», F. Cardini, L’ avventura,
134-135. 138
Caprettini,
San Francesco, 63. 139
Su
questi aspetti cavallereschi, G. Miccoli, La storia religiosa,
I, 736. 140
Cfr.
Ruggero
di Wendover, Cronica, sive Flores historiarum, in Rerum
Britannicarum medii aevi Scriptores, II, 328-333; L. Lemmens, Testimonia
minora, 26-32; C. Leopardi (a cura di ), La letteratura
francescana, I, Francesco e Chiara d’Assisi, Milano 2004,
266-277. 141
Cfr.
I
Cel. 86: FF 470; Ff, 361: «Saepe quoque cum vellet Christum
“Iesum” nominare, amore flagrans
nimio, eum “puerum de Bethlehem” nuncupabat, et more balantis ovis
“Bethlehem” dicens, os suum voce sed magis dulci affectione totum
implebat. Labia sua etiam cum “puerum de Bethlehem” vel
“Iesum” nominaret, quasi lambebat lingua, felici palato degustans
et deglutiens dulcedinem verbi huius». 142
C. Frugoni, Sui vari
significati del Natale di Greccio, nei testi e nelle immagini, in Frate
Francesco 70 (2004), 35-115; F. Accrocca, Il Natale di
Francesco a Greccio nel 1223, in Frate Francesco 67 (2001),
163-176; Idem, Il Natale di Greccio nelle testimonianze
delle fonti, in Frate Francesco 70 (2004), 7-25. 143
M.
Biihl, De S. Francisco predicante ita, ut de toto corpore faceret
linguam , in AFH 20 (1927), 196-199. F. Accrocca, Il Natale di
Greccio, 18. 144
Cfr.
Legenda
maior, VIII, 7: Ff, 848: «Nam audiens fratres in choro cantare,
et ipsa ecclesiam ingrediens, sine alicuius informatione flectebat
genua, vocem balatus emittens ante altare Virginis, Matris Agni, ac si
eam salutare gestiret. Insuper, et cum elevaretur sacratissimum
Christi corpus inter Missarum solemnia, flexis curvabatur poplitibus,
tamquam si reverens pecus de irreverentia indevotos argueret
Christoque devotos ad Sacramenti reverentiam invitaret». 145
Cfr.
Legenda
maior, VIII, 7: Ff, 849: «Si matutinali hora domina tardaret
exsurgere, agnus consurgens impellebat eam cornulis et balatibus
excitabat, gestibus adhortans et nutibus, ut ad ecclesiam properaret». 146
E. Pásztor, S. Francesco,
l’agnellino e la scrofa, in Francesco e la “questione
francescana”, a cura di A. Marini, pref. di G. G. Merlo
(Medioevo Francescano. Saggi 5), Santa Maria degli Angeli-Assisi 2000.
L’episodio è narrato nel ms Little 197, nella II Cel. 111: FF 698;
Ff, 544-545 e nella Legenda maior VIII, 6: FF 1145; Ff, 847. La
maledizione di Francesco contro la scrofa o contro il pettirosso
ingordo mette in luce certi suoi atteggiamenti improntati a durezza
anche nei confronti di quei frati che con il loro cattivo esempio
distruggono ciò che Dio, tramite i frati, ha edificato. Nel Testamento
Francesco stabilisce infatti una precisa procedura disciplinare,
talvolta repressiva che prevede la detenzione del frate deviante fino
al momento in cui questi giunga dinanzi al cardinale protettore
dell’Ordine, Ugolino da Ostia. Su questi aspetti , G.G. Merlo, Tra
eremo e città. Studi su Francesco d’Assisi e sul francescanesimo
medievale (Medioevo Francescano. Saggi 2), Santa Maria degli
Angeli-Assisi 1991, 36-40. 147
E.
Gebhart, L’Italie mystique. Histoire de la renaissance religeuse
au Moyen Âge, Paris 1906. 148 Pepe, Francesco d’Assisi, 172.
|
©2007 Felice Moretti. Il saggio è stato pubblicato a stampa in «Il Santo», 46 (2006).