Si parla tanto d’identità, da noi in Italia. Ma, a riprova della cinica strumentalizzazione attuale di molti temi storici e del provincialismo, dell’ignoranza sulla quale certe attuali "riappropriazioni identitarie" sono fondate, si chiamano in causa i Latini, gli Etruschi, i Greci, soprattutto – com’è noto: e anche troppo... – i Celti (scimmiottando irlandesi e francesi): mentre del popolo che forse più d’ogni altro, dopo gli Etrusco-Romani (e, in Sicilia, gli Arabo-Berberi), ha segnato di sé le tradizioni e i linguaggi della penisola, i Longobardi, non si parla quasi mai. E sì che i "lùmbard", così fieri delle loro vere o supposte origini celtiche, dei Longobardi portano ancora il nome; e che al di là del mondo padano anche l’Italia centrale (specie la Toscana e l’Umbria) e meridionale (Campania, Puglia, Basilicata) è ricchissima di memorie longobarde.
Ma sui poveri Longobardi è calata più volte la mannaia dell’oblio o della damnatio memoriae. Cominciarono i Franchi, che dopo essere stati più volte con essi alleati, invasero l’area centrosettentrionale della penisola italica nel tardo VIII secolo: e, anche se il loro re Carlo si dichiarò
rex Francorum et Langobardorum e recuperò gran parte della loro aristocrazia, fecero di fatto in modo che il loro ricordo restasse per sempre offuscato dall’ombra della violenza, della barbarie, della superstizione pagana. Eppure i Longobardi non erano e non erano mai stati peggiori di loro: anzi, si può semmai sostenere il contrario. Del resto fu un monaco e cronista dell’VIII secolo, longobardo sì, ma "collaborazionista", Paolo Diacono, a fornire del suo stesso popolo un’immagine barbara e feroce, che si sarebbe redenta solo da quando, a partire dal VII secolo, anch’esso fece quel che i Franchi avevano fatto già più o meno da due secoli prima (e che sarebbe stato del resto alla base della loro fortuna storica): abbracciare il cristianesimo nella forma liturgica, teologica e disciplinare proposta dal vescovo di Roma.
Sul piano linguistico e antropologico, quel che si può dire con una certa sicurezza è che i Longobardi appartenevano al gruppo delle popolazioni indoeuropee detto dei "Germani dell’Elba" e che avevano subìto, tra V e VI secolo, l’influenza determinante dei Goti e degli Unni (i quali ultimi erano tuttavia, non indoeuropei). La loro migrazione verso l’Italia era durata quasi due secoli, nel corso dei quali la fiera gente nordica era venuta in contatto con popoli e culture differenti che non mancarono di lasciar tracce non solo nella civiltà longobarda, ma anche nella sua stessa composizione etnica: è bene ricordare, infatti, che al momento di scendere in Italia il popolo longobardo era composto – oltre che di Germani del nord – di Gepidi, di Germani orientali e persino di Sarmati, popolazione di stirpe iranica.
Molte testimonianze concorrono nel darci un’immagine dell’assetto socio-culturale dei Longobardi che li pone quale perfetto esempio di sincresi tra la civilizzazione dei Germani nordoccidentali e quella degli orientali o addirittura dei nomadi delle steppe. Per parlare dell’organizzazione sociale dei Longobardi è opportuno partire dai rapporti che durante la lunga e stabile permanenza presso le foci dell’Elba li avevano collegati ai Germani più occidentali, quali Sassoni e Frisoni. Vivendo a stretto contatto con i Celti, i Germani occidentali ne avevano acquisito la rigida suddivisione in caste, difficilmente riscontrabile fra le altre popolazioni germaniche. L’organizzazione sociale e il diritto longobardi avevano molto in comune con quelli dei Sassoni, ma con una spiccata sottolineatura della funzione guerriera: dalle necropoli dell’Elba risulta che i guerrieri erano tumulati con il loro equipaggiamento in tombe appartate rispetto al resto della popolazione. Di fronte al nucleo di coloro che erano degni di portare le armi stava il ceto degli aldii, vicini alla condizione degli schiavi.
Quando, tra 568 e 569, i Longobardi, al seguito del leggendario re Alboino , attraverso le Alpi nordorientali arrivarono in Italia, erano in parte ancora pagani ma ormai largamente convertiti al cristianesimo "ariano". Se altre "invasioni barbariche" in territorio già imperiale romano furono piuttosto "migrazioni di popoli", caratterizzate da una sostanziale assenza di violenza, quella longobarda fu una vera e propria invasione, con eccidi ed espropri territoriali. Ma la prossimità con quel che ancora restava (moltissimo) delle tradizioni e delle istituzioni romane e la tenacia del substrato latino li conquistarono: a metà del VII secolo, il re Rotari emanò il suo celebre Editto, modello d’una legislazione "barbarica" finalmente posta per iscritto e redatta in lingua latina. Ai Longobardi si deve e anche un rigoroso inquadramento territoriale della penisola, distinta in "ducati" che avevano ciascuno a capo una città – sede anche di diocesi – e dotata d’una buona amministrazione regia.
Alessandro Manzoni ci ha lasciato nell’Adelchi un quadro commosso della fine del regno longobardo e di questo popolo di fieri conquistatori alla fine piegato da un altro, più forte e crudele, e a sua volta quasi costretto a fondersi con i vinti. Ma da queste complesse e sovente dure forme di acculturazione emerse, nell’Alto Medioevo, la nazione-mosaico della nostra italia, celtoetruscoromanogermanica a nord e grecolatinoaraba a sud. La nostra diversità, la nostra differenza, la nostra
ricchezza.
Franco
Cardini
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