MARCO
BRANDO
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Monteleone
di Puglia
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La
rivolta delle donne contro
la guerra
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Nell’agosto 1942 il piccolo centro del Subappennino scese in piazza contro la guerra. Un movimento spontaneo di popolo che fu represso con un centinaio di arresti |
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«Abbasso la guerra! Ridateci i nostri figli! Ridateci i nostri martiri!», urlavano sessantadue anni fa centinaia di donne, come testimoniano i rapporti dei carabinieri. Urla che furono soffocate e dimenticate. Oggi a Monteleone di Puglia vivono 1413 persone divise in 574 famiglie. È uno dei comuni più piccoli del Tacco d’Italia e il più alto della regione, abbarbicato a 850 metri sul Subappennino dauno, a metà strada tra Avellino e Foggia. Lassù s'è consumato, sebbene pochissimi lo sappiano (persino tra gli storici), un episodio che fa onore alla storia della nostra democrazia: il 23 agosto 1942 ci fu la prima rivolta popolare contro il regime fascista, soffocata con centinaia d'arresti e la minaccia, per fortuna rientrata, d’una deportazione di massa.
Non solo. Seguì un processo che incredibilmente - nonostante la fine del fascismo, della guerra e della monarchia - terminò con un proscioglimento solo nel 1950. Una storia ricordata la mattina dell'8 novembre durante una manifestazione promossa dal Comune, alla presenza delle massime autorità istituzionali locali e regionali, compreso il presidente della giunta pugliese Raffaele Fitto e il rettore dell’ateneo foggiano Antonio Muscio, con un ospite d’onore: il ministro canadese delle Risorse umane e dello Sviluppo professionale Joe Volpe, che è nato proprio a Monteleone e vi ha vissuto fino all'adolescenza. In quell’occasione è intervenuto Vito Antonio Leuzzi, direttore dell’Istituto pugliese per la Storia dell' Antifascismo e dell’Italia contemporanea (Ipsaic), autore del recentissimo volume
Donne contro la guerra. La rivolta di Monteleone di Puglia (23 agosto
1942), edito da Edizioni dal Sud. Mentre il giornalista del Tg Puglia Rai Costantino Foschini ha presentato un documentario dedicato all’evento.
Oggi l’opera di Leuzzi, scritta soprattutto sulla base d’atti processuali dell’epoca, riaccende i riflettori su un episodio che contribuisce anche a riscrivere la storia del ruolo effettivo dal Mezzogiorno nell’opposizione al fascismo. «Anch’io ne sapevo poco - dice il sindaco Giovanni Campese - poi mi capitò di leggere un libro e altri appunti scritti dall’allora parroco del paese, don Rocco Paglia. Così decisi di mettermi in contatto con l’Ipsaic».
Il risultato è in quel prezioso volumetto: «La massiccia sottrazione di uomini validi, inviati sui diversi fronti di guerra - scrive Leuzzi - rendeva ancor più dura la realtà quotidiana delle famiglie rurali, ridotte alla miseria e alla fame. A Monteleone diverse donne nel corso di manifestazioni religiose agitavano drappi bianchi o gridavano: “Abbasso la guerra, ridateci i nostri figli, ridateci i nostri mariti”». Poi: «Le notizie relative allo stato di malessere che serpeggiava in Puglia e nel Mezzogiorno vennero diffuse da Radio Londra che sottolineò la latente avversione alla guerra e al regime da parte degli italiani».
Così «a Monteleone di Puglia la collera popolare esplose nella prima mattinata del 23 agosto del 1942 in conseguenza, come riferiscono alcuni testimoni, della decisione del comandante della stazione dei carabinieri di sequestrare alcune pignatte di granturco ad alcune donne che erano in fila davanti ad un forno del paese. Subito dopo le donne, che erano aumentate di numero, si recarono dal podestà, proprietario della farmacia, gridando: “Vogliamo il pane, vogliamo sfarinare”». La gente - donne, anziani e bambini - si radunò poi sotto la caserma; i militari spararono, ferendo alcune persone.
Leuzzi: «A Monteleone si recò personalmente il Prefetto Dolfin
(che in seguito aderì alla Repubblica di Salò, ndr) alla testa di un gran numero di carabinieri... Sottoposero l’intero paese ad un gigantesco rastrellamento, casa per casa, fermando e interrogando centinaia di monteleonesi. Alla fine... le autorità fasciste disposero l’arresto di novantasei persone », compresi molti minori di diciotto anni.
Finirono nelle carceri di Lucera, Bovino, San Severo e d’altre città della Capitanata. Il 3 settembre 1943, malgrado Mussolini fosse già stato destituito e arrestato nel luglio precedente, il Sostituto procuratore generale del Re rinviò a giudizio novantuno imputati e chiese l’arresto di altri quindici cittadini. Il magistrato, che pareva non essersi accorto della fine del fascismo e degli sviluppi della guerra, considerò la protesta contro le restrizioni alimentari «indice della volontà di sopraffare ad ogni costo i poteri della pubblica autorità e di sostituire alla legalità la licenza e l’arbitrio».
Molti arrestati rimasero in carcere per quattordici mesi. Furono liberati solo tra il 27 e 28 ottobre 1943, grazie alle avanguardie alleate: il destino volle che proprio i soldati canadesi, prima di scontrarsi con le retroguardie tedesche attestatesi sulle alture daune, aprissero le celle di Lucera. Non solo. Furono due detenute canadesi, in galera come prigioniere di guerra con le donne di Monteleone, a chiedere ai compatrioti di liberarle.
Tutto finito? Neanche per idea. Il calvario dei sessantaquattro imputati «superstiti» proseguì nel Dopoguerra con il rinvio a giudizio davanti alla Corte d’assise di Lucera e l'accusa di «devastazione anche mediante incendio e saccheggio». Il 9 maggio del 1950 i giudici dichiararono che non si sarebbe dovuto «procedere per i reati contestati perché estinti per amnistia». In quegli anni molte famiglie si trasferirono in Canada.
Oggi una numerosa comunità di monteleonesi, circa ventimila considerando le ultime tre generazioni, vive a Toronto, nell'Ontario. Tra questi, il ministro Joe Volpe. La morale? «La rivolta di Monteleone sia pure per cinque o sei ore, tolse ogni potere alle autorità fasciste - disse nella sua requisitoria l’avvocato Quintino Basso, difensore (a titolo gratuito) degli imputati - Se lo stesso si fosse verificato in moltissimi comuni d’Italia, il fascismo non sarebbe caduto un anno dopo, ma sin da allora».
Marco
Brando
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