LA
CASA EDITRICE
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Rolandino, Vita e morte di Ezzelino da Romano
(Cronaca)
a cura di Flavio Forese, trad. italiana con
testo latino a fronte)
Fondazione Lorenzo Valla - Mondadori,
2004.
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«Vita e morte di Ezzelino da Romano
(Cronica), finora mai tradotto in Italia, è uno dei tre capolavori della storiografia italiana del tardo Medioevo. Possiamo mettergli vicino soltanto la
Cronica di Dino Compagni e la Vita di Cola di
Rienzo dell'Anonimo Romano. Lo ha scritto, verso la metà del XIII secolo, un coltissimo notaio del comune di Padova, Rolandino di Balaiardo (1200-1276), che aveva studiato all'Università di Bologna e insegnato in quella di Padova. Il dono straordinario di questo libro è che Rolandino aveva visto, da vicino o da lontano, quasi tutto quello che racconta. Aveva visto Venezia e Treviso, Padova e Ferrara, Rovigo, Brescia, Verona, Vicenza, Bologna, Milano, Crema, Cremona. Qualche volta, anche noi abbiamo l'impressione di scorgere, attraverso i suoi occhi, le città, le campagne, le chiese e i castelli, i fiumi, i torrenti, le feste, i vestiti elegantissimi, gli ermellini, i Carrocci, come se fossimo di nuovo lì, ad ascoltare Federico II di Svevia, o alcuni grandi personaggi di Dante, come Sordello, Cunizza ed Ezzelino da Romano...
All'improvviso, tra le terre e le acque dolcissime della pianura Padana apparve Satana (o l'Anticristo). Tutto era decaduto: l'ospite non poteva fidarsi dell'ospite, il fratello del fratello, il figlio del padre: i patti venivano violati, i massacri si succedevano ai massacri, i bambini in fasce venivano legati con catene di ferro; risse, frodi, furti, rapine, rivolte, inimicizie mortali, impiccagioni; in cielo comete funeste, nelle città terremoti,
mentre sullo sfondo appariva una pallida Provvidenza. Satana aveva preso un nome: Ezzelino III da Romano, uno dei personaggi più grandi della letteratura
medievale, attorno al quale aleggia un'aria da tragedia storica di Shakespeare. Astuto, spergiuro, vendicativo, tenebroso, posseduto da una sete di sangue, Ezzelino aveva massacrato amici e nemici, incarcerato innocenti, mandato al patibolo i cavalieri sulla piazza di Padova, distrutto castelli, violando qualsiasi legge umana e
divina» (dalle Note di copertina del
volume).
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GABRIELE
PEDULLà
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Il
Medioevo in fiamme di
Rolandino da Padova
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Pieno di verbali meraviglie, questo duecentesco reportage sulle efferatezze di Ezzelino da Romano si sarebbe potuto aggiungere alle letture di Elias Canetti per
Massa e potere
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Una delle caratteristiche più marcate e persistenti delle cronache medievali è la non selezione. Con questo termine gli studiosi indicano la tendenza degli autori dell'età di mezzo a registrare nelle proprie opere anche eventi privi di qualsiasi rapporto con la narrazione principale per il solo fatto che essi appaiono insoliti, singolari o semplicemente degni di una qualche memorabilità. Un vitello a due teste, un matrimonio celebrato con particolare sfarzo, l'incendio di un'abitazione, l'invio di un dono molto ricco da parte di un principe straniero, il motto arguto di un concittadino si sovrappongono così, senza apparente difficoltà, ai grandi avvenimenti della storia pubblica: guerre, carestie, rivolte, scismi religiosi, successi e bancarotte commerciali, edificazioni di ponti e cattedrali. Non è un caso che l'atto di nascita della storiografia umanistica, gli
Historiarum florentini populi libri di Leonardo Bruni, affermi a gran voce la propria discontinuità da questa tradizione proprio sottoponendo le antiche cronache cittadine (assunte come fonti documentarie) a un radicale processo di «disseccamento» e «dimagrimento»: non tutto quello che può raccontarsi in volgare merita di essere accolto in un'opera concepita appositamente per competere con le deche di
Livio.
La
Chronica duecentesca di Rolandino da Padova, che ora meritoriamente si ristampa - per la prima volta in traduzione italiana con testo latino a fronte - con il titolo di
Vita e morte di Ezzelino da Romano (a cura di Flavio Fiorese, Fondazione
Valla-Mondadori), costituisce da questo punto di vista una rilevante eccezione. Rolandino, che ha scelto per la sua opera un tema fortissimo (l'ascesa e il declino nel Veneto e nella Marca Trevigiana del tiranno e rappresentante imperiale Ezzelino, narrata appena tre anni dopo la sua morte, nel 1260), non nutre nessuna ambizione di totalità e lascia ai margini del racconto tutto ciò che non ha direttamente a che vedere con l'alterna lotta di Padova per mantenere (e poi recuperare) la propria libertà.
Padova ed Ezzelino - questo nuovo Anticristo, che con le sue scelleratezze assume nel corso del libro una dimensione mitica, al punto che Burckhardt lo avrebbe scelto come prototipo dell'individuo rinascimentale impegnato nella caparbia affermazione di sé - rappresentano l'unico fulcro della sua esposizione. In questo e nell'abbondanza delle orazioni, si percepisce l'influsso, più marcato che in altri autori medievali, delle opere della classicità latina - cosa in sé niente affatto strana se teniamo conto dell'origine geografica di Rolandino (Padova era allora il centro maggiore degli studi umanistici) e delle stesse prima parole del suo libro:
auctoritas antiquorum, l'autorità degli
antichi.
Il racconto di Rolandino, disseminato di espressioni meravigliose (aquam biberunt et mortem, «bevvero insieme acqua e morte», detto di un gruppo di persone che cercano scampo nel fossato), presenta però un altro aspetto tipico della prosa (in questo caso non soltanto della storiografia) medievale: una particolare forma di sinteticità e di reticenza che sfiora il diniego quando si confronta con le motivazioni dei diversi personaggi. Curiosamente, colui che ha meglio compreso e analizzato questo aspetto della letteratura medievale non è uno studioso ma un romanziere contemporaneo. Nella seconda metà degli anni cinquanta John Steinbeck si era infatti messo a lavorare a una riscrittura in inglese moderno de
La morte di Artù di Thomas Malory. Il progetto lo assorbì per qualche anno e non venne mai portato a termine, ma fu egualmente pubblicato postumo. La vera perla non è però tanto l'adattamento del romance quattrocentesco, quanto le riflessioni epistolari sul proprio lavoro che Steinbeck inviava periodicamente alla moglie e all'editore. Se infatti il suo impegno si riassume grosso modo in un'esplicitazione di ciò che in Malory rimane implicito e sfocia nella gran parte dei casi in una sostanziale normalizzazione del testo di partenza, ricondotto di peso ai modi del romanzo novecentesco (dunque un'operazione meramente divulgativa), il racconto di come (e perché) egli sia portato ad espandere in una certa direzione il testo di partenza è all'altezza delle più grandi «lezioni di lettura» del secolo scorso.
Un avverbio, una ripetizione, un silenzio bastano per schiudere al romanziere americano un mondo lontano e sino a quel momento inaccessibile («il libro è pieno zeppo di queste cose»).
Che poi la fase successiva del suo lavoro (l'esplicitazione di questo mondo) sia di scarso interesse e persino corriva non è qui ciò che conta di fronte al modo ammirevole (e sempre pertinente) in cui Steinbeck riesce ad evidenziare i motivi segreti dell'opera di Malory e a far balenare «un'intera personalità» da un dettaglio apparentemente marginale, guidando il lettore moderno tra i non detti della vicenda di Artù.
Le cronache medievali non richiedono meno dedizione; gli storici moderni dovrebbero leggerle anzi con la stessa sollecita empatia adoperata da Steinbeck con Merlino o con la regina Igraine. Per quanti le sanno apprezzare, il fascino letterario di queste opere consiste in gran parte nell'offrirsi al lettore non frettoloso come un imaginifico e personale
ouvroir de littérature potentielle, allo stesso tempo dalle regole ferree (nulla va inventato e tutto va trovato) e dalle possibilità quasi infinite. Ancora una volta, però, Rolandino scarta (assieme a pochi altri) dalla gran massa delle cronache duecentesche. Una delle particolarità della sua opera è infatti appunto l'assoluta trasparenza della azioni di Ezzelino e dei suoi, contro cui non c'è sinteticità o reticenza che valga. I loro obiettivi sono sempre in qualche modo trasparenti perché è la pura logica del potere che parla nei loro gesti, offrendosi al computo del cronista come qualcosa di comprensibile e di immediatamente calcolabile (non a caso le pagine di Rolandino sono piene di considerazioni sulla superiorità della forza del timore sull'amore o sulla violenza che trionfa anche sulla giustizia di Dio).
L'intelligenza dello storico mima i pensieri di Ezzelino-Anticristo e dei suoi oppositori e tocca qui alcuni dei suoi vertici; le pagine sui collaboratori del tiranno che incrudeliscono per paura, operando «sugli altri cose tali quali avrebbero potuto aspettarsi nei propri confronti», o sulla sua abilità nel far venire da Padova gli uomini per punire i ribelli veronesi «come si chiamano gli operai a tagliare gli alberi», dovrebbero suggerire ai moderni teorici della «zona grigia» considerazioni non meno profonde di quella che la biografia di Filippo Maria Visconti composta da Pier Candido Decembrio ispirò al Canetti di
Massa e potere.
Per Rolandino le azioni diventano misteriose solo quando si svolgono ai margini della lotta politica, preferibilmente quando sono compiute da donne. Qui soltanto possono proliferare i
sive e il racconto ammette per un istante quelle divagazioni che l'immanità del soggetto Ezzelino aveva precluso sin dall'inizio, lasciando contemplare allo storico una serie di catene di causalità alternative. Così l'unico momento in cui le intenzioni del tiranno diventano opache è quando prende moglie e nessuno sa dire se questa scelta preluda a una rappacificazione con i nemici o annunci magari il suo ritiro a vita privata (per «finire la vita tra delizie e sollazzi»). Ma è solo un momento, la breve incertezza di un attimo prima che la storia e la violenza riprendano il loro corso. Fino all'immancabile punizione divina.
Gabriele
Pedullà
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