DE CASTRO VENANDI CUM ARTIBUS | a cura di Falco, Girifalco e Metafalco |
di Maestro Anonimo Veneziano
PRESENTAZIONE
di Falco
Cari lettori e care lettrici, navigatori e navigatrici, filoesoterici e filofedericiani, castellani e castrari, religiosi e agnostici, bafomettiani e semplici cortigiani, cacciatori e greenpeaciani, musici e ciabattini, sacerdoti e adepti di tutti i mondi universalmente riconosciuti e non, di tutte le epoche e di tutti i tempi finora intercorsi, siete ancora disposti a dar credito a 3 miseri falchetti che continuano ininterrottamente il loro volo di ricognizione senza mai trovar stabile dimora, senza mai esser soddisfatti delle prede che si illudono di saper cacciare? Siete ancora lì, incollati allo schermo, pronti a partire per un altro viaggio alla scoperta di un’altra microsfaccettatura di questo indecifrabile e stramaledettissimamente affascinante scrigno di pietra che è Castel del Monte?
Cari amici, sono sicuro che anche questa volta non ci lascerete a mezz’aria, non vi limiterete a guardare in alto con i nasini puntati all’insù: vi vedo già attrezzati, scarponi da trekking, impermeabile, zaino in spalla e via! Mi raccomando a non dimenticare cappello, guanti e stufetta incorporata: in questo periodo il tempio di Federico II trasuda così tanto freddo da far concorrenza a un’industria di gelati e surgelati! Questa volta, dicevo, vi condurremo verso un’esperienza straordinaria, puntellata di tutti quegli aspetti che già conoscete: il mistero, la simpatica e ingenua tendenza a rendere un castello medievale l’ombelico del mondo, la ricerca dell’obiettività, la sete di conoscenza, l’ambiguità e la stranezza dei personaggi…
E poi, novità delle novità, abbiamo finalmente incontrato un giovane esploratore che ha percorso tutto l’Adriatico in gondola per poi trasferirsi in questi ameni boschi ed è stato qui, nel cuore della Murgia, che i nostri destini si sono incrociati: appena arrivato ai piedi della famosa collina l’abbiamo saputo distinguere in mezzo alla folla, l’abbiamo riconosciuto, non era l’inconsistente ombra nera giapponese che pende dalle labbra di un’audioguida, né l’insipida sagoma del turista ammorbato dai racconti e dai pseudostudi astronomici e astrologici, scusateci la modestia, ma ormai abbiamo affinato le nostre tecniche di ricognizione e non abbiamo avuto dubbi…
Lui era diverso! Aveva i tratti dell’interesse disinteressato, della curiosità primordiale, della speculazione incontaminata!!! Non vi dico la gioia, io e i miei due amici non abbiamo avuto dubbi né timori e il coraggio ci ha dato ragione: il nostro occhio rapace emanava bagliori, il nostro istinto aveva percepito il valore di quello che sarebbe scaturito dall’incontro con questo personaggio sconosciuto vestito a strisce bianche e blu; ci siamo fatti avanti e gli abbiamo chiesto donde veniva, dove andava, dove sarebbe andato… Lui, porgendoci il suo braccio, ci ha fatto accomodare, stava incominciando a raccontarci di sé e adesso, cari amici, siamo ancora qui che lo ascoltiamo… perché lui continua a raccontare…
«Corri
Pino Gadaleta, a Castel del Monte ci sono dei miei amici venuti da Venezia,
vorrei che tu facessi un po’ da guida».
Il
tempo di posare la cornetta del telefono, di mettere in moto il pacchetto di
lamiera a quattro ruote, ua vecchia ottocentocinquanta fiat, e dopo mezz’ora
ritrovarmi nel caldo accecante del mitico sito ottagonale, a far di conto non
solo con il caldo, ma con il gruppo di “amici!” a cui la Scolastica mi aveva
assegnato il ruolo virgiliano per la visita del castello. Li avevo trovati
seduti per terra alla sottile ombra dell’atrio interno del castello,
nell’attesa delle ore 13 e qualche minuto (legali) per raggrupparsi al centro.
«Oh no! Oggi è il 21 giugno, il giorno del solstizio!
Vuoi vedere che questi sono il
solito gruppo turistico “esoterico” imbevuti
dal mitico Graal custodito a Castel del Monte? Benedetta Scolastica!».
Il
pensiero mi si stampò in fronte perché fui oggetto di ampollosi complimenti
“scolastici” sul valore della mia laicità, di scrittore, sulla mia passione
per la storia medievale, con l’aggiunta raccomandazione di “non trattare
male” Federico lo svevo, come se fosse il solito fiammifero,
appunto, banalmente, svedese.
Nell’ora in cui il sole era allo zenit, “gli amici” conversero al centro del piazzale e s’irrorarono della “potente energia” che il castello emana in quel momento, energia a cui anch’io fui sottoposto, nolente.
La visita del
castello come fu? Una dotta polemica tra la razionalità e la metafisica,
l’epistemologia e la cosmologia, con innumerevoli gomitate e sguardi traversi
della Scolastica; alla fine, dovetti dare tregua seduto al bar del castello
sorseggiando una limonata fresca, rendendo omaggio ad Ermete Trismegisto e Pico
della Mirandola: il capo comitiva degli “amici” della Scolastica da qualche luna digiunava per prepararsi puro a questa irrorazione di
energia, che ahimè con 40 gradi all’ombra, l’aveva più che rinsavito,
quasi stecchito. Mi sembrò giusto adoperarmi per evitare rischi di
un’improvvida disidratazione esoterica.
Sul
“puer apuliae”, del resto, ognuno ha diritto alle sue opinioni, e
averne ricostruito ad arte il “mito”, para-templare del “nido
dell’aquila”, può essere una fonte per incrementare il turismo esoterico;
farlo passare, però, per san Genio, credetemi, se non è un’esagerazione è certamente una
sopravalutazione.
Lo “svevo”, meglio dire normanno svevo, perché la mamma era normanna, fu un irrequieto e complessato personaggio storico, che avvilì la popolazione del Mezzogiorno con il suo centralismo, mentre sorgeva l’Italia dei Comuni. Le guide, invece, lo descrivono come un genio misterioso, frutto di una letteratura apologetica e mistificatoria di alcuni narratori. |
Si favoleggia su tutto, che Federico era uno svevo, nato, guarda caso, nato non a Goteborg, ma a Jesi, sotto una tenda (richiamo alla natività) durante la discesa di Federico Barbarossa in Italia (invece il Barbarossa non è il padre, bensì il nonno, che poco incline al nuoto, morì innanzi tempo la sua nascita...), fu legislatore (è un “dovere” per un re saper amministrare), scrittore e poeta (per un paio di poesie in siciliano).
Si
racconta che fu un antesignano “antirazzista”, ma se fu proprio lui il
precursore delle deportazioni di massa, avendo “trasferito” migliaia di
ribelli saraceni siciliani nella città di Lucera, in Daunia (un’anteprima
del campo di concentramento).
Certamente
dobbiamo dargli atto di aver avviato processi interculturali... avendo istituito
un suo harem personale.
Ma
quello che inquieta di queste “guide” è il loro sottintendere per insinuare
una valenza esoterica del castello, difatti
si fa notare ai “turisti” che ad una attenta osservazione del
castello non sfugge la mancanza di stalle, prigioni e cucine e che forse,
sottolineo forse, il castello è un semplice maniero da caccia.
Del
resto, documentato da una insigne opera di falconeria, Federico era appassionato della caccia con il
girifalco (sì, vabbè, e la
cacciagione dove la cucinavano? Forse non si mangiava e non si beveva? Invero,
va detto che Federico, a prova di documenti, in quel castello non c’è mai
andato).
Oppure,
e qui si entra nella cortese affabulazione delle guide supponenti, si dà
fiato alle “voci” che il castello fosse un luogo santo costruito dai templari per custodire
il Graal, oppure che fosse un calcolatore astronomico! (Beh, almeno questa
tesi, bisogna darne atto, ha impegnato i suoi sostenitori in calcoli matematici,
studi astronomici, elaborazioni e creatività, insomma un bel da farsi di tutto
rispetto, ma il cielo è lì con la cupola stellare sempre uguale).
Ci
manca proprio la redazione di un bel fumetto: Federik!
Invece
il castello, come è documentato in una fonte del 1300, per cortesia leggetevi
Domenico di Gravina, cronista del ‘300, vi assicuro che ne vale la pena, era
circondato da mura (forse pentagonali), e sicuramente al suo interno vi erano
le stalle, le cucine, i magazzini, i casali degli inservienti; nel Medioevo
molte costruzioni erano di legno, e non potevano reggere all’usura del tempo.
Il
mistero mi affascina, non lo nego, e l’utopia mi intriga, ma essendo uno
studente di scienze storiche, sono più propenso
a vedere le cose su basi epistemologiche e, quindi, documentate: la
Storia non è invenzione, ma ricerca ed interpretazione di quello che si riesce
a scoprire nelle cosiddette “fonti”, e con le prospezioni archeologiche.
Sono iscritto ad un Forum virtuale di storia medievale,
moderato da un’espertissima in arte medievale, Stefania, collegato
direttamente a www.storiamedievale.net,
un sito che merita una visita. è
stato fondato da persone che la Storia la studiano da anni, e dal professor
Licinio, docente appunto di Storia medievale.
Questo
sito, insieme alla più poderosa raccolta di immagini e documenti su migliaia di
castelli sparsi per il mondo con circa 3000 pagine, non si esime dal presentare,
con ironia e allegria, gli scritti di un tale Gregorio, maestro di retorica,
archeologia e tettonica, ed eccellente scavatore di fosse, sotto cui si
celano le sembianze di uno dei più originali interpreti del mito
federiciano e non.
Gregorio
è un punto di riferimento per chi vuole esplorare gli arcani del castello di
Santa Maria del Monte, più noto come Castel del Monte, la cui effige è stata
consacrata nella monetina di un (o) centesimo dell’euro. Appunto, del
centesimo: per questo il centesimo è scomparso rapidamente dalla scala
significativa dei valori dell’euro. Ha fatto un po’ la fine
dell’Augustale, una moneta d’oro coniata da Federico, in un periodo in cui, per via di guerre
preventive, le monete del regno si erano così svalutate da essere coniate in cuoio.
Ma
torniamo agli amici della Scolastica, che ormai si erano ripresi
dall’insolazione per ricominciare a discutere su Baphomet, come loro sacrosanta interpretazione del fauno
scolpito nella significativa settima sala del castello! Prova inoppugnabile del templarismo federiciano (Baphomet, si dice, fosse un idolo templare) |
Inutile replica: «Ma signori, loro hanno visitato il castello di Issogne, o qualsiasi altro
castello medievale, o chiesa medievale? Troverete immagini simili ovunque, vabbè
che i Templari erano una multinazionale, ma l’iconografia dell’epoca era utilizzata come scacciapensieri!».
Non
c’era niente da fare o da discutere, più parlavo è più aggiungevo fascina
al loro fuoco, per cui anche il
castello di Issogne era divenuto un luogo
misterioso. Anzi tutto il pianeta era divenuto un mistero templare, rosacrociano,
gnostico. Se ne ripartirono felici e contenti, l’energia ricevuta gratis in
quel giorno li aveva ripagati e rinvigoriti nelle loro convinzioni.
Lezione numero uno: inutile convincere del
contrario chi è decisamente esoterico.
Lezione
numero due:
sono troppi i libri scritti su Federico II e Castel del Monte, e quando su una
cosa si scrive tanto, alla fine si rischia di confondersi, e trovare che gli
spiriti delle galline fanno l’uovo nel castello.
Lezione numero tre: Castel del Monte non è più un castello, è un monumento al sapere: matematico, astronomico, architettonico, religioso, metafisico, gestaltico (ma questa è una novità), forse storico. Meno male che conserva i più efficienti servizi igienici dell’epoca, almeno ce lo rende più “umano”!
Ho
aspettato che scendesse la sera, che turisti e guide del caravanserraglio
ottaedrico (non ci crederete, ma esiste davvero nel deserto un caravanserraglio
ottagonale!) ritornassero alla loro pace domestica, che il padre guardiano
chiudesse i battenti, e l’Enel sparasse i suoi chilowatts sulle bianche mura
del monstrum murgese.
Salutati
tutti e la permanente Scolastica, attesi il calar del sole solstiziale con i
suoi giochi di rosso, e solo, mi avviai a godermi il circuito poligonale con
il vento che soffiava da ovest, dal non troppo lontano diruto castello del
Garagnone, altro mistero legato alla via Appia, ma questo è un’altra storia,
in cerca di Sirio e delle stelle salomoniche. Mi aveva colpito l‘effigie
scolpita su una pietra, che si scorgeva appena sotto la doppia bifora che guarda
ad Andria, che rappresentava un elefante. Grazie alla luce dei riflettori, una
vera scoperta; difatti questa icona non si trova citata in nessuno dei
numerosi libri scritti sul castello.
Dalla
penombra, lì dove la vegetazione incomincia a farsi più folta, ho intravisto
un tipo che menava zappate sul terreno per scavare trincee e ogni tanto in un
andriese stretto si lamentava:
«Ah, Leicinue Leicinue, te leja dicere io ‘na cose... Leicinue...».
Ho ripreso a circuitare frettolosamente, ed un'altra scoperta mi meravigliò: sotto la doppia bifora della parte nord, quella che guarda ad Andria, verso la valle della mitica Femmina Morta (altra storia meritoria di racconto), l’elefante scolpito su una pietra dava l’impressione di muoversi. |
Mi domandavo: «Cos’altro è successo nell’illuminato 1756?».
Lo
scavatore notturno con la sua coppolarossa, con lo zappone appoggiato tra collo
e omero, mi si fece di presso e in un murgese stretto mi appellò: |
Sorpreso e
inquieto e diffidente risposi, per tranquillizzare l’interlocutore:
In
cambio ricevetti un’occhiata che mi catalogava come stranito ignorante, ed ebbi modo di chiarire
successivamente che non ero un professore, bensì uno studente “venerabile“, nel senso che studio quando i professori insegnano quando insegnano (ripeto epizeusi…camente ), e discendente da circa 15
generazioni (che fanno, lo dico per gli araldici mercenari, circa un mezzo miliardo di
discendenti) di una famiglia fiamminga amica di Giovanna, la prima, quella degli
Angioini, e pure della seconda.
Mi
accorsi che la pronuncia della parola “venerabile” aveva sortito una piega
nient’affatto rassicurante sul viso di coppolarossa, il quale, però, non
sembrò confuso dal mio peregrinare generazionale.
«Ah, vussite chidde de le sforati storici du’ professor’ Leicinue, che canusciane ‘bbuene Federico mangiapreti?» (trad.: «Ah, voi siete del gruppo del forum storico del prof. Licinio, che ben conoscono Federico II?»).
«In verità – mi affrettai a rispondere – qualche volta Federico mi viene in sogno con la barba del colore della vostra coppola e mi dà pure i numeri, gli ultimi sono 12 e 40, provi anche lei a giocarli al lotto, chissà che non vinca, considerando che qui tutto è magico!».
«Ah benedetto Leicinue, non ci si ditte a cus’, che
mangiapreti era calvo? Però vide comme iè insiste cuss’omme,
da’ pure le nummere, almeno pe’
fatte pigghià qualche terrise!» – replicò il coppolarossa (trad.:
«Benedetto Licinio, non gli hai detto che Federico era calvo, però nota come
è concreto quest’uomo che dà pure i numeri, almeno per farti vincere qualche
soldo»), che subito continuò:
«Dì
u’ mè, ma ti iè pigghiate la gocc’ che non vu diccere cissì tu?» (trad.:
«Dimmi signore, ma ti sei spaventato, ché non vuoi dirmi chi sei?»)
La
situazione incominciava a complicarsi e la Scolastica, a cui ricorro per le
dichiarazioni di verità inconfutabili, ormai mi aveva abbandonato, a cosa mi
dovevo appigliare? L’elefante di pietra, difatti,
si era materializzato e sceso
sul piazzale s’era posto alle spalle dello scavatore nottambulo, innalzando la
proboscide a mo' di punto interrogativo. Non sono un domatore di elefanti, ma la
sollecitazione pachidermica era chiara, dovevo rispondere ed affrontare la
situazione.
«Io? Riccardo!»,
dichiarai,
ispirandomi all’epigrafe che avevo letto, pensando che questo potesse essere
un salvacondotto per uscire da una situazione più curiosa che inquietante.
«Wè
u’ mè, cissì nù maumaun?» (trad.: «è signore, sei un mau
mau?» [movimento politico dei neri del Kenia, ma qui sta per
solecismo - mau mau = stupido]), replicò
il funaiolo, e aggiunse rapido
«Egregio
nossignore venerabile, te ja dicere che Riccardo e C. sono, per parlare
tricolore, i settebagnantidellospiritosanto della vasca asciutta del castello,
aiutanti del 17° grado, cioè quelli che pestano l’alluce destro a Federico,
per dare ordine al disordine piramidalcheopano».
La
proboscide dell’elefante si rizzò come un fuso verso l’alto, era un bel
punto esclamativo che non ammetteva repliche. Rimirai tanto esterefatto il
fungista cardoncelliano o tartufista, che questi mi apostrofò:
«Interessante
– riuscii a soffiare – e lei come fa a sapere tutte queste cose?».
E
toltosi la rugginosa berretta, lo zappatore mi chiarì:
«Sono
o non sono lo scavatore di questo sito? Sono o non sono il ricercatore di anime
di questo castello? Sono o non sono l’interprete monumentale? Non vedi che ci
ho pure l’elefante che mi funziona da memoria supplementare notturna? Non si facente cummè la monaca frecagnola, che jeie tutto ti posso dire”
(trad. di monaca frecagnola: una monaca che pratica, protetta dalla tonaca,
la virtù dell’immenso piacere terreno senza darlo a vedere).
Ero
cosciente che l’incontro aveva assunto tutte le tonalità del mistero e che
tanto valeva la pena continuare a dare corda all’Ovolo Rosso che affondava
sempre più il suo micelio sulla base del portale.
«Nossignore, non sono né una monaca e né un monaco
frecagnole, essendo invece orientato sulla visione più che patristica oserei dire
scolastica della vita... ma forse la monaca è una sua conoscenza?», così
risposi tanto per dare l’impressione di non aver capito e quindi di non essere
uno del luogo.
«Non si facenne u’ clandestine, ciovechiann’e ‘na bott’ de mazz’?» («Non fare il clandestino, vai in cerca di botte?»)
Il
linguaggio (tanto per rifarmi a Calvino) è come il formaggio, qui sulle Murge si gusta il caciocavallo: con la sua rotondità conserva i sapori lenti
del latte della mucca podonica, ma poi si posa sul palato il piccantino della
fermentazione, così com’era in fondo il comunicare del fungaiolo nottambulo.
Ripartii
nel colloquio più deciso e, interpretando al meglio il dizionario sui formaggi,
scelsi il pecorino, che perlomeno si
insapora d’odori più decisi e aggressivi:
Declamò: «Allora sì Nando u’ filosof’?, o La Seppia comunale, o il
Puer Gentile, o Andrea de la Chapelle?
Oh non mise dicenne?... sì
u fratre d’ Stefen La sceicca, o u’ canate di Fara La Normanna, o di
Lucifera, strega Amelia? – continuò – S’ì tù cumpare a’ sta comitive di sforati storici, che mann’e stufeaut’ k’e kiss
decotti federiciani!».
Non
sapevo più a che formaggio votarmi.
L’elefante
ciondolava la sua proboscide in un movimento pendolare, che sembrava più
inquietante del bel punto esclamativo che, innalzato nella notturna limpidezza
collinare, ti dà certezza, o del
seducente punto interrogativo che apre nel dubbio le porte alla soluzione.
Il
pendolo presuppone l’incertezza della incomunicabilità, lo spazio è ridotto
ad un arco di tempo, al di fuori di esso non c’è altro, o ci sei dentro o sei
fuori nel caos.
Dovevo,
invece, far di conto con Ovolo Rosso, il dizionario dei formaggi mi poteva
ispirare il gorgonzola, ma una risposta acremente variegata poteva indispettire.
Un caprice de dieux? No, troppo molliccio, un ragionamento troppo pastoso
avrebbe creato confusione. Optai per l’emmenthal, così svizzero e neutrale,
ma con tanti buchi che potevano agevolare il far cadere in trappola l’arguto
lingueggiare del fungere scavatore. Del resto è di buon gusto mangiare funghi
ed emmenthal insieme, provare per credere. Ripartii:
«Signore, le riconfermo che a buona ragione non conosco la catena di santantonio a cui fa riferimento, né il Professore, che tiene cordone a questa catena. Le ripeto che sono IO RICCARDO, e questo è il mio punto di partenza».
Non
diedi tempo di replica e continuai emmenthalmente:
«Ehi,
sì fatt’ nù k’ngtaun, a c’è la stammene stà canzone?» (
trad.: «Hai fatto un pasticcio, a chi lo vuoi raccontare questo ritornello»?),
replicò coppolarossa, con uno sguardo stranito e disorientato dal mio incedere
svizzero e continuò:
«Ma mo’ iè, mudum... stè a sciuq’ a zimbrill’ o pic capisc’? Parlerò tricolore così non potrai sfuggire!» ( trad.: ma mo iè = ma adesso è; mudum, intercalare tipico della marina barese; mudum non è arabo, forse sta per madonna mia; stai giocando al pisticchio = gioco infantile che consisteva nel colpire il taglio di mezza molletta da bucato, farla roteare in alto e ricolpirla al volo).
Breve
interruzione per riprendere susseguentemente:
©2005 Pino Gadaleta