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TUTTE LE FORTIFICAZIONI DELLA PROVINCIA DI Napoli
in sintesi
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«La Casina Spinelli, nome preso dai signori Spinelli, è detta anche di Calabricito, in quanto situata nella omonima contrada. Questa contrada, ricca di un armonioso paesaggio, fatto di querce, castagni, betulle, alberi selvaggi ed animata da daini, volpi, lupi, lepri, cinghiali e cervi, è stata scelta nel 1778, dal Conte di Acerra, Ferdinando III de Cardenas, per edificarvi una casina dove il re Ferdinando IV di Borbone, amante della caccia, potesse intrattenersi durante il periodo invernale. Nel bosco che si estende lungo la villa, è nascosta la città di Suessula con la sua pregevole necropoli. Il complesso architettonico non si esaurisce soltanto nella casina, ma si compone di diversi edifici. Osservando la planimetria (partendo da sud, in senso antiorario), troviamo la casina vera e propria, quindi la torre, la casa per foresteria e servitù, il cancello ed infine le stalle con i magazzini che chiudono la corte. La casina è un edificio con scheletro in muratura tradizionale, caratterizzato da una "rete murale", formata da maglie chiuse che delimitano gli ambienti interni. Il primo corpo dell'edificio è stato edificato a pianta longitudinale nel 1778 e presenta al piano terra una serie di locali e una cappella ad uso privato. Al primo piano (costituito da ambienti rettangolari che affacciano sul cortile) vi sono una serie di sale, comunicanti tra loro, coperte con volta a vela. Al secondo livello abbiamo sale caratterizzate dalla tipologia detta "a schifo". Due stanze del primo piano, in particolare, si differenziano per la loro forma ellittica e per la visuale verso l'esterno indipendente dalle altre. Probabilmente, questi due ambienti sono stati progettati in questo modo proprio per ospitare il Re di Napoli. Il terzo livello è caratterizzato da un ampio terrazzo che ricopre l'intera casina. Il lato orientale del complesso è addossato ad una torre la cui struttura sembra di epoca Medioevale, forse longobarda. Sempre sul lato orientale, la struttura è completata da una casa rustica per i "fittavoli". Qui le stalle e i magazzini si presentano come corpo indipendente, il livello del calpestio è ribassato rispetto a quello della corte, ed esprime una volontà di separare nettamente la vita lavorativa da quella ricreativa del giardino. Il cortile di pianta quadrata, un tempo destinato a giardino, è chiuso sull'ultimo lato da ruderi di fabbrica romana, che per la particolare disposizione ricurva fanno pensare che apparterebbero all'antico anfiteatro della città di Suessola».
http://www.cittadelfare.it/palazzi/acerra1.htm
«Il complesso monumentale del Castello di Acerra è situato nell'omonima piazza, ai margini del centro storico della città. Il suo nucleo centrale sorge sui resti di un teatro romano, come testimoniano alcune strutture murarie dell'epoca ed altri reperti (cocci, parti di colonne, scritte su marmo) rinvenuti nell'ultima opera di ristrutturazione iniziata negli anni '80 ed attualmente in corso. Le prime notizie storiche del castello di Acerra risalgono all'anno 826 d.C.: a partire da questa data saranno sempre più frequenti i riferimenti e le testimonianze. Nel 1793, in occasione del matrimonio tra Maria Giuseppa de Cardenas, ultima contessa di Acerra, ed il generale Francesco Pignatelli, l'edificio è sottoposto ad un imponente opera di abbellimento e ristrutturazione. Sul pavimento delle sale, ad ogni angolo, viene inquadrato un mattone verniciato su cui è impresso uno stemma, sormontato da corona ducale, ripartito in due campi: in quello a destra è rappresentata la famiglia de Cardenas; in quello a sinistra è raffigurato il simbolo della famiglia Pignatelli. I mattoni verniciati e le decorazioni sono andati distrutti nella seconda guerra mondiale. Esiste, però, ancora lo stemma ripartito che ora si trova nella Sala Consiliare. Nel 1920 il Castello viene acquistato dal Comune e diviene sede amministrativa. Circondato parzialmente dall'antico fossato, vi si accede da un ponte fisso a due piloni, che sostituì quello mobile nel 1795. Dopo il ponte si trova la porta d'ingresso, l'unico varco nella poderosa murazione che circonda l'edificio: per le sue proporzioni dà subito la sensazione della fortezza. L'ingresso, che mantiene nella volta ancora tracce di affresco, permette l'accesso ad un primo spazio aperto. Sul lato destro vi è una scaletta che porta al camminamento sulle mura (una volta cammino di ronda), mentre sulla sinistra vi è una grande sala con due pilastri centrali, coperta da sei volte a vela. I numerosi ampliamenti ed i continui restauri hanno reso il castello un edificio dalla complessa stratificazione, per cui oggi presenta caratteristiche spaziali e strutturali piuttosto eterogenee. Al primo piano, in fondo al corridoio, un'apertura preceduta da gradini porta al terrazzo. Al secondo piano, su una delle porte d'ingresso alle sale, sono state poste in luce, durante gli ultimi restauri, decorazioni in tufo grigio risalenti al periodo romanico. Dall'androne si accede anche al cortile interno. Ad occidente del cortile, nelle antiche scuderie, si trova ora il "Museo del Folklore e della civiltà contadina", che custodisce, tra le altre cose, un monumento a Pulcinella inaugurato nel 1993».
http://www.cittadelfare.it/palazzi/acerra.htm
«Alla luce della documentazione esistente è molto difficile dedurre a quale periodo si possa far risalire la distruzione della eventuale fortificazione della città antica e quanto sia sopravvissuto di essa nei secoli successivi. La costruzione della murazione medievale è da mettere in rapporto alla costruzione del castello ed alla definizione di Acerra come contea e sede vescovile, cioè l’impianto fortificato delle mura di cui ancora si conservano evidenti tracce risale al periodo normanno ed il suo impianto ricalca, con molta probabilità, l’andamento di alcuni isolati della città antica. Fedele agli Angioini, la città difesa da Santo Parente, capitano di Attendolo Sforza, resistette strenuamente all’assedio di Alfonso d’Aragona. Fu nuovamente assediata da Ferrante durante la congiura dei baroni. Notizie importanti relative ai luoghi della città ed alle mura si possono dedurre anche dall’inventario fatto redigere da Pirro del Balzo nel 1481 e rinnovato da Federico d’Aragona nel 1494. Dall’analisi di una cartografia risalente al XV secolo e di recente pubblicazione, la città di Acerra appare “... dominata dalla mole del castello e circondata da mura e torri che definiscono una maglia quadrata regolare, ancora oggi riconoscibile. Le mura si estendono per un lungo tratto fino al corso del fiume, sulle cui sponde è segnalata una struttura fortificata con ponte e torri, indicata con il toponimo Lo Carmine, posta a difesa del ponte di attraversamento del Clanio”. L’organizzazione civile e sociale di Acerra rispecchiava quella fisica, pertanto la città era divisa dagli assi principali che collegavano le porte, in quattro parti distinte che tuttavia potevano identificarsi in solo due quartieri, quello del Castello e quello del Vescovado. Acerra fu conquistata dalle truppe francesi durante la discesa del Lautrec. Le notizie storiche, relative al periodo moderno, riguardanti le trasformazioni dell’impianto urbano, sono abbastanza scarne e scarsi sono anche i riferimenti alla cinta muraria che ne racchiudeva il nucleo originario. Con il periodo vicereale comincia una fase di decadenza per tutto il territorio che vide coinvolta anche Acerra, tanto che in una descrizione di Leandro Alberti del 1525 viene definita come “una mala abitata villa più che una città”. Le condizioni della città peggiorarono ulteriormente per effetto dell’eruzione del 1631, che oltre a provocare danni fisici contribuì al progressivo impoverimento del territorio; la città subì altre perdite umane durante la peste che la colpì negli anni successivi; questo periodo poco favorevole culminò con i disordini susseguenti alla rivolta di Masaniello. Da un documento del 1662 si evincono ancora notizie sulla città, sulle fortificazioni e sulla organizzazione urbana.
Nel corso del XVII secolo gli interventi operati nella città non portarono a cambiamenti significativi se in una descrizione del 1772 viene così riportato: “Quanto più antichi siano li principii d’una vasta città, altrettanto aguzza il dente il vorace tempo per annientarla all’aspetto de Posteri, come può osservarsi in questa dell’Acerra, tanto impicciolita, che a pena vi riceve 219 fuochi con case infrante o smezzate. Una sol torre memorabile vi spicca, … ”. In una veduta del XVIII secolo si nota complessivamente che la città è ancora completamente racchiusa nelle mura ed emergono nel tessuto edilizio compatto solamente i complessi religiosi importanti con i rispettivi campanili che rappresentano le vere emergenze urbane. Specifiche osservazioni possono essere condotte sulle caratteristiche della murazione urbana rappresentata con notevole precisione evidenziando torri e porte. L’impianto urbano mantenne la sua forma regolare, subendo uno sviluppo relativo in prossimità delle porte di accesso e delle principali strade di collegamento che in esse arrivavano. La cinta muraria non subì significativi cambiamenti, fatta eccezione per le varie distruzioni e modifiche operate per far posto alle abitazioni private, che sempre più vi si addossavano sia dall’interno che dall’esterno. Anche se con questi cambiamenti, la murazione fu mantenuta fino all’eversione della feudalità; solo dopo il periodo napoleonico cominciò il rinnovo urbano e si intensificò lo sviluppo lungo gli assi principali di comunicazione con il territorio. Le porte erano ancora visibili e risultavano collocate in prossimità degli assi principali di accesso, ortogonali tra loro. Esse prendevano il nome delle città verso cui si dirigevano le strade in uscita. A nord si apriva la porta Capuana o del castello, a sud la porta Pompeiana o porta del Vescovado, ad est la porta Beneventana o della SS. Annunziata, ad ovest la porta Napoletana o porta di San Pietro. Le quattro porte, di cui le prime due furono distrutte nel 1830 e le altre due nel 1843, si aprivano sul fossato di circumvallazione che era scavalcato da quattro ponti in corrispondenza delle porte, prima che ne venisse decretata la colmata nel 1836. Lo sviluppo urbano intensificatosi a partire dal secondo dopoguerra ha prodotto un sostanziale stravolgimento del tessuto antico e medievale, soprattutto quando si è intervenuti con sostituzioni edilizie eseguite con le tecniche contemporanee e con l’uso del cemento armato. Tali interventi hanno portato ad una progressiva perdita dell’identità del tessuto medievale compreso l’alterazione planimetrica di alcuni assi stradali ampliati in funzione della circolazione veicolare. Sostanzialmente il tessuto edilizio del centro storico e della città murata appare oggi molto compromesso e fatiscente ed andrebbe salvaguardato e recuperato attraverso una approfondita analisi morfologica, tipologica ed architettonica con la quale evidenziare anche le superstiti memorie ed i manufatti ancora esistenti della cinta muraria medievale.
Del tracciato delle mura e dei suoi resti architettonici si possono recuperare solo alcune tracce all’interno del tessuto edilizio attuale. I segni maggiormente visibili sono rappresentati da altimuri in tufo giallo costituiti da conci di grosse dimensioni, cm 30x50, mediamente, che fanno da sfondo alla maggior parte dei cortili dei palazzi e delle abitazioni costruite sul fossato e che si sono addossate, a partire prevalentemente dal XIX secolo, alla fortificazione medievale. Dall’andamento delle mura, che si sviluppano per un perimetro di m 1.620 circa e racchiudono un’area di mq 161.000 circa, si può delineare con soddisfacente precisione la configurazione planimetrica, attraverso la cartografia catastale che conserva nelle suddivisioni particellari molti dei segni del tracciato murario. Partendo dal castello, la murazione, dopo aver superata la porta Castello, anche denominata porta Capuana, ubicata tra la fine della attuale via Castello ed il fossato, proseguiva parallelamente alla via Conte di Acerra, posta all’esterno, ed alla via della Maddalena, posta all’interno, determinandone la mezzeria dell’isolato che presenta chiaramente tipologie insediative diverse tra la parte interna, prevalentemente a corte, e la parte esterna, prevalentemente in linea. Alla fine della via Conte di Acerra la murazione gira ad angolo retto e prosegue verso sud, dove all’interno dei cortili dei palazzi che si affacciano su via Cavour si conservano i resti più consistenti della murazione, fino ad arrivare nei pressi della chiesa di San Pietro, dove era ubicata la porta omonima, conosciuta anche col nome di porta Napoletana. Passata la strada, il muro correva sul ciglio di via Solferino fino all’angolo con vico Lauro per poi proseguire ortogonalmente verso est fino alla porta del Duomo, conosciuta anche come porta Nolana. Da questo punto il tracciato proseguiva fino all’angolo di via Lauro per poi girare ancora ortogonalmente verso nord fino ad incontrare la porta dell’Annunziata o Beneventana, posta al termine di via Annunziata. Dopo la porta, la murazione seguiva il vicolo Pasquale Grazioso, sempre correndo lungo il fronte dell’isolato giungeva fino all’angolo con via Gaetano Caporale; da questo punto la murazione tornava sempre ad angolo retto e sul bordo dell’isolato fino al fossato del castello. I tratti della murazione, che corrispondono ai limiti degli isolati e dei palazzi che li costituiscono, sono quasi andati tutti persi ed il loro andamento è deducibile solo attraverso la cartografia storica e catastale e la disposizione delle tipologie edilizie che nel corso dei secoli sono state proprio condizionate dalla struttura difensiva».
http://www.saperincampania.it/le-mura-urbane-di-acerra (fonte: Federico Cordella)
«Il Castello Angioino sorge vicino alla Parrocchiale di San Giorgio. La sua costruzione risale al 1337 ed è opera della famiglia Durazzo, ramo collaterale di quella Angioina. Le vicende storiche succedutesi fino ad oggi hanno causato una tale metamorfosi della struttura che diventa arduo rintracciarne i resti trecenteschi: attualmente, il castello si presenta come un enorme caseggiato. Nel 1420 qui si insediò la famiglia Capece-Bozzuto, che trasformò l'edificio da maniero in abitazione. Con il passare del tempo, il fossato è stato colmato, dando spazio ad alcune costruzioni che sono state addossate lungo il perimetro delle vecchie mura. Solo nella metà del Settecento, grazie al proprietario dell'epoca (Duca di Venosa Gaetano Caracciolo del Sole), il castello ha conosciuto lo sfarzo e lo splendore tipici delle residenze aristocratiche napoletane. Nel 1823 è stata creata, grazie ai tre governatori Castaldo, Alfieri e Ciaramella, eletti dal Consiglio Comunale, la cappella della Vergine Addolorata, sul cui ingresso è esistita l'ultima torre dell'antico castello. In quel periodo il complesso presentava un vasto giardino interno con una bella edicola votiva raffigurante la Vergine Addolorata che protegge sei religiose ai suoi piedi. Dalla fine dell'800 l'edificio è stato gestito dalle Suore Compassioniste, che l'hanno governato fino a pochi anni addietro. Nel 1892 il piccolo tempietto è stato distrutto, insieme all'ultima torre del castello, da un terribile fulmine. Nel nostro secolo il castello Angioino ha subito ulteriori modifiche, con alterazioni strutturali e abbattimento di quel poco che restava del vecchio maniero. Oggi, la struttura si sviluppa su pianta quadrata, munita di torrioni angolari, merli e feritoie, con all'interno una fontana e vari giardini».
http://www.cittadelfare.it/palazzi/afragola1.htm
Anacapri (castello di Barbarossa)
«Così chiamato a causa del soprannome del corsaro ottomano Khayr al-Din che lo espugnò nel 1535, è situato sulle rupi a nord est di Anacapri, a 412 mt. s.l.m., su uno dei picchi minori del massiccio del Monte Solaro. La sua data di costruzione non è certa, ma è da ascrivere forse alla fine del IX secolo. In ogni caso era sicuramente esistente alla fine del secolo successivo, edificato per volere degli amalfitani, i quali eressero la fortezza per controllare l'intera isola di Capri, avvalendosi della scadente manodopera locale. Il maniero inizialmente era proprietà di Adelferio, figlio di Sergio di Amalfi, il quale indicava la zona come Anglum ad Castellum (letteralmente «l'angolo nei pressi del Castello»). Adelferio cedette il castello, così come gli altri suoi possedimenti ad Anacapri (quali Artimo, Orrico e Gradola), il 15 novembre 988 a Giovanni Comite di Capri; nel documento è citato infatti «unam silvam ad angulum ipsum castellum». Il territorio protetto dalla rocca risulta abitato abbastanza stabilmente sia nel X che nell'XI secolo. La conquista normanna della Campania obbligò gli amalfitani ad ammodernare la struttura per offrire maggior resistenza al nemico. Gli spazi interni della rocca furono quindi scanditi da nuovi ambienti, tra cui una cappella con volta estradossata. Altri interventi, avvenuti nel XIII secolo, introdussero una torre cilindrica scarpata, due cortine, le mensole per le caditoie ed altri elementi che si resero necessari dopo l'evoluzione delle tecniche d'assedio e delle armi da fuoco. Nel XV secolo l'isola di Capri fu continuamente sottoposta agli attacchi dei corsari musulmani. In effetti Capri rappresentava per i pirati un'importante base strategica per le loro scorrerie lungo il golfo di Napoli e, per questo motivo, l'isola venne assaltata almeno sette volte. Di conseguenza la popolazione caprese usò spesso la fortezza come rifugio, ma essa, dopo le incursioni del 1535 guidate dai pirati ottomani Khayr al-Din e Dragut, venne distrutta e chi vi aveva trovato riparo venne rapito o derubato. Gli angioini tentarono di ricostruire la fortezza, ma senza successo, a causa della poca esperienza degli edili napoletani; quindi toccò agli abitanti di Anacapri far fronte alla manutenzione del castello, che di conseguenza non venne mai ricostruito. Da questo momento il castello Barbarossa fu quasi totalmente ignorato fino al XVIII secolo, quando il maniero venne incluso in alcuni trattati di geografia. Venne tuttavia utilizzato, agli inizi dell'Ottocento, per scopi militari, essendo stato potenziato sia dagli inglesi (1806), che costruirono delle caditoie per fucilieri ed una polveriera, sia dai francesi (1808), che realizzarono una cinta muraria che, partendo dal castello, raggiungeva il termine della scala Fenicia. Nella metà dell'Ottocento, in seguito alla crescita tra i circoli letterari dell'interesse per l'ambiente mediterraneo e per i reperti archeologici, alcuni viaggiatori eruditi descrissero il castello come «una rovina immersa in una natura selvaggia ed incantevole», e nella prima metà del Novecento la struttura divenne una tappa obbligatoria segnata in tutte le cartine e le guide turistiche relative a Capri. Il castello Barbarossa nel 1898 fu acquistato insieme al territorio circostante dal medico svedese Axel Munthe che, detestando la caccia ne fece un «santuario degli uccelli». Munthe, infatti, condusse per tutta la sua vita una campagna per abolire la caccia e riuscì ad ottenere perfino una legge speciale, stilata da Benito Mussolini stesso, che la vietava nell'isola per tutto l'anno. Dopo la morte di Munthe, a partire dal 16 giugno 1950 il castello entrò a far parte della Fondazione Axel Munthe ed è di proprietà del Consolato Svedese che ha sede nella villa San Michele anacaprese.
Il castello ha pianta quadrangolare, ma una delle pareti è semicircolare. I ruderi della parte più alta, oltre a costituire il nucleo centrale della costruzione, corrispondono a quella che una volta era la zona residenziale del maniero; difatti qui vi è una cappella con copertura a volta, abside e un piccolo campanile a vela. Il quartiere di alloggio era difeso, sul lato aperto verso Capri, dallo strapiombo naturale della roccia. Al di sotto della cappella, è presente una cisterna, che venne adibita a magazzino. Accanto alla cappella e sfalsato rispetto ad essa, è presente un secondo ambiente del quale sono conservati alcuni elementi architettonici, tra i quali la copertura a volta, una piccola feritoia ed un'apertura ad arco. Vi è infine un vano coperto da un solaio in travi di ferro. La fortezza è stata edificata con muratura a sacco, utilizzando la pietra locale. Le coperture, come già accennato, sono composte da volte ed i pavimenti sono in maiolica. Degli elementi di difesa, rimangono due torri: una, a pianta quadrata, costruita in epoca sveva; l'altra, a pianta circolare, in età angioina. Quest'ultima è composta da una tipica base con il muro a scarpa su cui si innesta il muro cilindrico della torre, nel punto di innesto vi è una fascia in pietra grigia di sezione semicircolare detta redondone. Un'altra torre cilindrica risulta inglobata nei resti di un bastione che , per le sue caratteristiche si deve ritenere cinquecentesco, forse costruito proprio dopo l'assedio del Barbarossa. La fortezza è circondata da una macchia bassa, che risente della siccità e dello scarso nutrimento, quasi da degradare in gariga. Tra le specie vegetali presenti vi sono il corbezzolo, la coronilla, l'euforbia, l'erica, la ginestra e il mirto. D'inverno, invece, fioriscono l'anemone, l'asfodelo, la brassica, il caprifoglio, il croco ed il cisto rosa e bianco. In prossimità del castello sono presenti alcuni esemplari di pino d'Aleppo, sopravvissuti agli incendi del 1972 e del 1987 che hanno coinvolto la pineta piantata nel 1901 in loco dal Munthe. Il castello Barbarossa è sede della stazione ornitologica di Capri. Infatti il monte dal quale si erge la fortezza costituisce un'importante tappa per gli uccelli migratori che sorvolano il Mar Mediterraneo dall'Europa all'Africa per lo svernamento e nel verso opposto in primavera. L'attività ornitologica nell'isola fu iniziata dalla Società Ornitologica Svedese nel 1956, cui si è aggiunta all'inizio degli anni Ottanta la LIPU (Lega Italiana Protezione Uccelli, sostituita poi dal Centro di Inanellamento dell'Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale di Bologna».
http://castelliere.blogspot.it/2013/12/il-castello-di-giovedi-5-dicembre.html
«La costruzione del castello iniziò nel 1490, sui resti di una antica villa romana, in un'area strategica da cui si domina il vasto specchio di mare che si estende dal golfo di Pozzuoli all'acropoli di Cuma, con veduta di Capri, Procida ed Ischia. Era l’epoca delle incursioni saracene, ed il re di Francia Carlo VIII minacciava di invadere il Regno. Per ordine di Re Alfonso II d'Aragona (1448-1495), fu quindi avviato un programma di fortificazioni difensive del golfo di Napoli, a protezione della costa flegrea e della capitale del Regno. Il castello di Baia fu edificato sul promontorio e venne munito di mura, fossati e ponti levatoi, che lo rendevano pressoché inespugnabile. Rappresentò quindi per molti secoli, insieme alle fortificazioni di Pozzuoli (Rione Terra) e Nisida, un limite invalicabile, impedendo l'avvicinamento delle flotte nemiche e lo sbarco di truppe che avrebbero potuto assalire Napoli con una manovra di aggiramento. La costruzione del sistema difensivo fu affidata all’architetto Francesco di Giorgio Martini. La fortezza di Baia si sviluppa su una superficie di 45.000 mq e raggiunge l'altezza di 94 m sul livello del mare. Il 29 settembre 1538 la terribile eruzione (l’ultima dei Campi Flegrei), che nel corso di una sola notte diede origine al Monte Nuovo, provocò lo sprofondamento della fascia costiera, con effetti devastanti per tutti i Campi Flegrei, e causò gravi danni anche al Castello di Baia. Il vicerè don Pedro Alvarez de Toledo, marchese di Villafranca (cui si devono tante opere pubbliche, quale il riassetto urbanistico di Napoli) fece ricostruire ed l'ampliare il castello, che così acquisì l'aspetto attuale. Il Castello di Baia fu anche luogo di incontri politici e diplomatici. Tra le sue mura furono ospitate molte personalità, tra cui il re di Spagna Ferdinando III detto "il Cattolico" (1506), Giovanni d'Austria (1576), il duca d'Ossuna (1582). Il castello fu anche centro di studi e ricerche, per opera del viceré don Pietro d'Aragona, che valorizzò le sorgenti termali flegree. Fu teatro, nell’ottobre 1860, di un estremo ed eroico gesto di difesa del Regno delle Due Sicilie ad opera di un pugno di soldati, alcuni dei quali feriti e invalidi, reduci dalla battaglia del Volturno. Il 6 ottobre i pochi superstiti si dovettero arrendere alle forze di Garibaldi rinforzate da reparti e batterie piemontesi. Dopo l'annessione allo Stato sabaudo, subentrò un periodo di lento ed inesorabile abbandono del castello di Baia che, dopo quattro secoli di ininterrotta opera di difesa, con Regio Decreto del 1887, venne escluso dalle fortezze dello Stato. Fu quindi adibito ad orfanotrofio. Dal 1993, la Sovrintendenza Archeologica di Napoli ha destinato la fortezza ad accogliere il Museo Archeologico dei Campi Flegrei, con le statue del Sacello degli Augustali rinvenute a Miseno e i gessi di Baia. È tuttora in corso un laborioso restauro, per rimediare a più di un secolo di abbandono. Il Museo Archeologico dei Campi Flegrei è situato all’interno del Castello Aragonese di Baia, tra un locale ricavato nel bastione sud-occidentale della 1^ Batteria Sant’Antonio e l’imponente Torre di nord-ovest, detta Torre Tenaglia».
http://www.ilportaledelsud.org/baia.htm (a cura di Aldo Monti)
«Probabilmente la nascita del primo nucleo abitato di Caivano fu determinata, in epoca altomedievale, della migrazione della popolazione della vicina Atella, che fortificò con mura e torri poste ai vertici del perimetro difensivo. L'indipendenza del borgo di Caivano dal castello di S. Arcangelo, cui appartenne dalle sue origini e durante le dominazioni longobarda e normanna, avvenne presumibilmente agli inizi della dominazione angioina e coincise con la costruzione del castello posto direttamente a protezione del centro abitato. Pertanto gli artefici dell'imponente costruzione difensiva sono da individuarsi tra i primi feudatari che ebbe Caivano, tra cui Mustarolo Antiquini. A questi successe Bartolomeo Siginulfo. Tra i feudatari del XV secolo si annovera Marino Santangelo (conte di Sarno), che partecipò alle lotte tra Alfonso d'Aragona e Renato d'Angiò. Nel 1452 il feudo venne acquistato dai Marzano. Poco tempo dopo, a seguito di alcuni passaggi, pervenne direttamente ad Alfonso d'Aragona che lo vendette alla famiglia Gaetani. Agli inizi del XVI secolo questa famiglia, caduta in disgrazia nei confronti della corona spagnola, si vide il castello confiscato a favore della famiglia Colonna. Il castello di Caivano, seppur adibito nel XVI secolo a funzioni eminentemente residenziali, con l'aggiunta di un nuovo livello abitativo e con l'apertura lungo i prospetti di numerose finestre con cornici in pietra che richiamano proprio il gusto rinascimentale, mostra ancora evidenti i caratteri inconfondibili dell'architettura difensiva angioina. Una serie di torri a pianta circolare sono collocate lungo il perimetro del manufatto, di cui una, fiancheggiante l'ingresso, è di proporzioni maggiori delle altre: è probabile che avesse funzioni di mastio. Le torri conservano ancora in sommità la parte inferiore dell'apparato a sporgere tipico della seconda metà del XIII e di tutto il XIV secolo, caratterizzato da una serie continua di mensole ed archetti sporgenti dal filo delle pareti verticali e su cui originariamente era disposta la merlatura. Il castello sostenne nel 1441, per tre mesi, l'assedio di Alfonso d'Aragona. Danneggiato e restaurato dopo il secondo conflitto mondiale, con purtroppo alcune gravi compromissioni, tra cui il rifacimento del coronamento della torre maggiore e l'aggiunta di alcune superfetazioni lungo il perimetro, ospita oggi gli uffici comunali».
http://xoomer.virgilio.it/castcampania/Castelli%20della%20Campania/Caivano.htm
Capri (castello del Castiglione)
«Nel secolo IX e X, la sommità del colle del Castiglione, dominante le due marine di settentrione e mezzogiorno e imprendibile da quest’ultimo versante a causa delle pareti di roccia a perpendicolo sulla costa, fu scelta per erigervi un fortilizio. Questo fu ampliato nel XIV secolo da Carlo d’Angiò che ne affidò la difesa a castellani mercenari, i quali, oltre alla giurisdizione dell’isola, avevano il compito di vigilare le acque tra Capri e Punta della Campanella. Il Castello serviva poi di rifugio per la comunità raccolta nel borgo sottostante. Nel corso dei secoli è stato ristrutturato e ampliato fino a raggiungere il perimetro attuale. Intorno alla metà del Settecento sul colle esistevano soltanto i ruderi cospicui del Castello ed una costruzione agricola. Il Castello fu utilizzato nel primo decennio dell’Ottocento dalle guarnigioni inglesi quando, durante l’interregno di Ferdinando IV di Borbone, contesero l’isola ai francesi di Giocchino Murat. Alla metà dell’Ottocento era descritto da Gregorovius: "in buono stato di conservazione con mura merlate e torri". I ruderi dell’antico Castello erano stati acquistati nel 1912 dalla Società Fondiaria Capri, poi, attraverso successivi trasferimenti, passarono alla Sia, che nel 1950 li vendette al duca Roberto Caracciolo di Santovito, consigliere presso l’ambasciata d’Italia a Parigi. Questi lo restaurò nel 1953, su progetto dell’architetto Roberto Adinolfi. Attualmente è l’abitazione privata di un industriale tedesco. La pianta risulta irregolare, si articola seguendo l’andamento del margine superiore del costone, a strapiombo verso sud. Il castello conserva all’esterno le caratteristiche costruttive e tipologiche delle strutture difensive. Una murazione poligonale, realizzata in muratura di pietrame a faccia vista, da cui sporgono quattro torri quadrate con merlatura, cinge verso ovest e verso nord, la sommità del colle, su cui sorge il Castello. Analogamente alla murazione, quattro torri merlate, scandiscono il prospetto poligonale. le aperture si articolano liberamente sulle facciate; il tratto centrale del prospetto sud è caratterizzato da tre grandissime vetrate, di forma rettangolare, a riquadri, che si aprono verso il mare».
http://www.castcampania.it/capri.html
«Palazzo Cerio, faceva parte del complesso dei conti Arcucci noto nel medioevo come "Case Grandi" che comprendeva il Palazzo Farace, dove oggi è la Biblioteca del Centro e il Palazzo Vanalesti, sede dell'Azienda di Soggiorno e Turismo. Il complesso, residenza di Giovanna I d'Angiò, fu costruito nel 1372 dal conte Giacomo Arcucci segretario della regina, conte di Altamura, signore di Minervino e primo signore di Capri fra il 1371 e il 1374 a cui si deve anche la Certosa di S. Giacomo e l'ampliamento della chiesa di San Costanzo. Vera e propria residenza fortificata, il complesso sorgeva isolato ma a poca distanza dalla principale porta cittadina, dominando i lati nord e sud dell'isola. L'edificio si ergeva per quattro piani ed era dotato di piede a scarpa, di una passerella lignea e di caditoie utilizzate per la difesa. Il palazzo comitale, che ospitò la regina Giovanna, rimase di proprietà degli Arcucci fino al 1683; acquistato e ristrutturato dalla famiglia Feola, venne ereditato dai Cerio. Nel 1768 monsignor Gamboni, vescovo di Capri, vi aprì un orfanatrofio femminile mentre nell'Ottocento fu ingrandito e assunse la configurazione attuale, ospitando per un breve periodo un albergo. Dal 1949 Palazzo Cerio ospita il Centro Caprense».
http://centrocaprense.org/index.php?option=com_content&task=view&id=27&Itemid=45
«Scarse sono le notizie relative alla fondazione del castello, ma sin dal XVI secolo la storia del castello si lega alle vicende degli allora feudatari carditesi, i Loffredo che risedevano proprio nel castello. Sigismondo Loffredo acquistò il feudo nel 1529 e il palazzo principesco divenne luogo ove si viveva una lussuosa vita di corte. Per la sua originaria funzione aveva le fattezze di una rocca, con torri e fossato, fu nel corso degli anni modificato ed adibito a dimora signorile munito di una tenuta con bosco e piante. Un epigrafe marmorea ricorda gli ingenti lavori di restauro ed abbellimento del palazzo voluti dal principe Nicola Maria Loffredo nel 1761; i lavori interessarono sia la residenza che il parco, munito di fontane, piante e statue. Fu poi venduto dagli eredi del Marchese di Monteforte, Francesco Sanfelice, al Comm. Biagio Spadaccino. L’erede Chiara Spadaccino sposò il gentiluomo Luigi Mastrillo della Schiava, nome con il quale ancora oggi si riconosce la nobile residenza. Oggi il palazzo è interessato da ingenti interventi di restauro e di adeguamento alla nuova funzione di sede degli uffici comunali».
http://rete.comuni-italiani.it/foto/2009/83705 (a cura di Gennaro Di Mauro)
Cardito (villa Caracciolo Carafa)
«La Villa Caracciolo Carafa non denota caratteristiche artistiche, estetiche o architettoniche di particolare rilevanza. Tuttavia, ha ricevuto notorietà nella prima metà del XIX secolo perché proprietà del Barone Petti (da cui è derivata l'iscrizione nella carta del Real Officio Topografico redatta, tra il 1817 ed il 1819, con l'indicazione di "Torre del Barone Petti"). A sostegno del pregio storico è il cespite, che si presenta ad impianto architettonico contraddistinto da linee ed ornati tardo-cinquecenteschi di gusto rinascimentale. La destinazione della dimora impressa dalla famiglia nobiliare è quella della "residenza di campagna", ovvero di centro di raccolta della produzione di derrate agricole arboree e di controllo per l'attività dei coloni. Solo marginalmente è adibita a luogo di svago per i nobili. è proprio dalla sua principale destinazione che deriva la caratterizzazione architettonica dell'immobile. Infatti, l'edificio è costituito da un corpo centrale quadrato, sovrastante l'androne di ingresso con edifici interni dislocati lungo il perimetro della corte centrale. L'androne d'ingresso s'innalza di parecchi metri al di sopra della restante parte della facciata. Quest'ultima è coronata da una originale merlatura sostenuta da archetti pensili. Altri elementi tipici che contraddistinguono la villa sono: un ampio e lineare portale a tutto sesto in piperno; le aperture con archetto a tutto sesto e con sottili timpanetti; e, infine, una balconata dell'avancorpo al primo livello del prospetto».
http://cardito.asmenet.it/index.php?action=index&p=238
CASTEL CICALA (resti del castello)
«Il castello di Cicala sorge a m
229 slm ed è raggiungibile per una strada carrabile di circa tre chilometri, che
parte dall’incrocio dell’ospedale di Nola e sale sulla collina omonima. La
fortificazione occupa un’area di mq 42.000 circa, con una perimetrazione di
forma circolare che si sviluppa per m 750 circa e racchiude la sommità della
collina. L’analisi storico-architettonica dei resti della fortificazione
presenta diverse problematiche che rendono la lettura del sito e della struttura
difensiva abbastanza complessa. Diverse fonti, non confermate da testimonianze
documentarie, danno la collina di Cicala già frequentata in epoca pre-romana e
romana; frequentazione intensificatasi in epoca alto-medievale, probabilmente in
seguito agli eventi bellici verificatisi nella zona che portarono alla decadenza
della città di Nola. Problematiche sono anche le notizie tratte dai primi
documenti d’archivio che riguardano Cicala. La Chronica Monasterii Casinensis,
nel riportare notizie sulla scorreria degli Ungari, che devastarono l’area
nolana, non fa esplicito riferimento al castello di Cicala, mentre la Cartula
Vicariationis dell’Abbazia di Montevergine, riguardante Giovanni vescovo di Nola
che cede un terreno a Garamo e Solegrimo abitanti a Castelcicala, ha avuto
sempre interpretazioni controverse, fino a quella del Tropeano che sposta la
data del documento dal 948 al 1068. Lo spostamento di tale data lascia il sito
di Castelcicala privo di fonti per il periodo longobardo. L’assenza di documenti
fa ipotizzare che l’edificazione del castello sia avvenuta a seguito della
conquista normanna. Tale ipotesi viene ulteriormente confermata dall’analisi
delle strutture architettoniche in vista, dalle quali non si evince nessuna
preesistenza del periodo longobardo, ma una certa omogeneità dei caratteri
insediativi e delle caratteristiche architettoniche tipiche delle fortificazioni
normanne. Le vicende del castello di Cicala durante il periodo normanno sono
testimoniate da documenti d’archivio che, oltre a fornire notizie
sull’organizzazione sociale, militare e religiosa del vasto territorio della
contea, ci informano sul nome dei feudatari che vi esercitarono il potere: Aimo
de Argentia, Guglielmo de Cigala, Gualterius de Molinis.
Fra il 1130 e il 1140 durante i numerosi scontri tra i normanni guidati da
Ruggero e Roberto, principe di Capua, ed i Napoletani alleati con il papa, il
castello di Cicala divenne una delle basi operative per tenere sotto assedio
Napoli. A testimonianza della sua importanza strategica nell’organizzazione del
regno normanno, Cicala fu sede del Catapano. Nel periodo svevo, conseguentemente
alla politica accentratrice dell’imperatore Federico II, le contee normanne
persero d’importanza. Esse furono progressivamente soppresse, tranne quelle di
Manoppello, Chieti, Caserta e Acerra; quest’ultima, concessa a Tommaso I
d’Aquino, comprendeva anche il territorio di Cicala. Altre notizie sul castello
di Cicala ci vengono dal Mandatum de reparatione castrorum imperialium,
elenco dei castelli imperiali da restaurare nelle provincie di Terraferma, nel
quale si indica che il castello di Somma doveva essere riparato dagli abitanti
del luogo, di Cicala, di Avella, di Rocchetta, di Acerra, di Ottaviano, di Palma
e di Arienzo. I continui conflitti con l’imperatore portarono il pontefice
Urbano IV a chiedere l’intervento di Carlo I d’Angiò, fratello del re di Francia
Luigi IX. Dalla trattativa per l’investitura, documentata da una bolla datata
1263, si fa cenno esplicitamente alle terre che sarebbero rimaste alla chiesa,
tra le quali figura anche Cicala. Gli Angioini, dopo la conquista del regno,
confiscarono la maggior parte dei feudi sostituendo i baroni fedeli agli Svevi
con i cavalieri del loro seguito. Anche Cicala subì la stessa sorte, entrando a
far parte della vasta contea affidata a uno dei maggiori cavalieri del seguito
di Carlo: Guido di Monfort. Questi, dopo le tragiche vicende di Viterbo nel
1271, fu privato della contea che riottenne nel 1274, dopo la assoluzione ed il
perdono del re. Sotto la dominazione angioina cominciò un lento e progressivo
declino di Cicala, poiché si andava riprendendo e consolidando il ruolo di Nola,
dove si cominciarono a concentrare tutte le funzioni amministrative e militari
della contea. La città, a partire da tale periodo, è interessata da un forte
sviluppo economico- edilizio: si riedificano le mura urbane, si costruisce l’arce
o castello di città, si erigono molte chiese sui resti della città antica. Tali
trasformazioni conferirono all’assetto urbano un aspetto completamente diverso
da quello del periodo classico ed altomedievale.
Lustro maggiore alla città ed alle sue istituzioni venne dalla famiglia Orsini,
in seguito al matrimonio di Romano con Anastasia, discendente dei Monfort. Alle
vicende della famiglia Orsini, che nel periodo aragonese fu una delle più
potenti del Regno di Napoli, furono legate le sorti della contea per circa due
secoli, durante i quali, attraverso varie concessioni, riuscì ad infeudarsi un
territorio enorme, che andava dall’Agro Nolano alla Valle del Sarno. Il dominio
di un territorio così vasto, le cambiate esigenze strategiche, nonché le diverse
tecniche militari, determinarono un progressivo abbandono di Cicala, che venne
utilizzato soprattutto come luogo di diporto della famiglia Orsini e veniva
tenuto da un castellano. Dopo la guerra tra Francesi e Spagnoli, la contea di
Nola fu smembrata e venduta a diversi feudatari; nel 1534 Cicala fu concessa da
Carlo V a Dionigi Bellotto, il quale, a sua volta, la rivendette ad Antonio
Maramonte. Dal 1546, anno in cui la principessa Mombell, sostenendo di esserne
proprietaria, vendette il feudo a Luigi Dentice, la documentazione dei passaggi
di proprietà diventa più complessa: si trovano titolari del feudo Raimondo
Orsini, Laura Albertini nel 1563, la quale per 2.320 ducati lo cedette al
suocero Pompeo Albertini, che a sua volta nel 1573 lo vendette a Marzia, moglie
di Angelo Albertini. Nel 1586 il feudo giunse ad Annibale Loffredo che fu
costretto a cederlo per 5.520 ducati. Nell’arco del XVII secolo con alterne
vicende amministrative, che ne limitarono il territorio, il feudo di Cicala
venne venduto a diversi signori tra i quali degno di nota è Ladislao re di
Polonia (1640). Nel 1725 esso passò alla famiglia Ruffo di Bagnara, dalla quale
si formò il ramo dei Castelcicala, che tenne la terra e vi abitò probabilmente
fino all’unità d’Italia, come si evince dalle lapidi custodite nell’attuale
chiesa di Santa Lucia. Ulteriormente trasformate ed adattate nel corso degli
ultimi decenni, le strutture principali del castello, oggi, sono proprietà dei
padri cappuccini di Nola e vi è collocata la sede del Parco Letterario “Giordano
Bruno”. Le fortificazioni della collina di Cicala sono organizzate in tre cinte
murarie pressoché circolari e concentriche. La prima cinta muraria, posta sulla
sommità della collina, racchiude il nucleo principale del castello; la seconda,
chiamata dagli abitanti del luogo “di San Paolino“, ingloba le altre strutture
del castello dislocate soprattutto a sud e ad est. La terza include le pendici
della collina e parte dell’attuale abitato di Cicala situato ad est e nord-est.
...».
http://www.saperincampania.it/giornale-il-castello-di-cicala-nola (a cura di Federico Cordella)
Castellammare di Stabia (castello)
«Il Castello a Mare dal quale Castellammare trae il nome, sorge a 100 mt. di altitudine sul mare alle cui spalle si stagliano imponenti duomi di rocce (i contrafforti dal Faito), che si innalzano verticalmente sino a 650 mt. Il Castello sorse a guardia del ristretto tratto di costa per il quale soltanto – tra l'impervia montagna ed il mare – sarebbe potuto transitare un esercito avente il compito operativo di inoltrarsi nella Penisola Sorrentina. Il nome di "Castello a Mare" appare per la prima volta in un documento del 1086 prova documentale che il Castello già da tempo esisteva. Costruito dal Duca di Sorrento, di osservanza bizantina, come fortezza di frontiera del suo dominio, subì, nel corso di quattro secoli (dal XI al XV) varie trasformazioni imposte dall'evolversi delle diverse tecniche dell'arte della guerra. L'aspetto odierno gli venne dall'ultima trasformazione subita nel 1470, al fine di rendere il fortilizio atto a sostenere gli attacchi delle artiglierie. Ai primi del '500 fu aggiunto per la postazione delle bocche di fuoco, il "rivellino" bastionato prospiciente il fossato esterno colmo d'acqua. Il "Castrum de Stabiis ad Mare" era il caposaldo di un complesso sistema difensivo comprendente tra l'altro i castelli di Gragnano, Lettere e Pimonte ed aveva diverse torri dislocate sul terreno antistante tra cui una torre di notevole mole che sorgeva sul lido collegata mercé un camminamento corrente sulla muraglia che dal Castello scendeva a tale torre. A somiglianza di Castel Nuovo di Napoli, il Castello a Mare di Stabia deve essere considerato un'opera medioevale, anche se fu attrezzato a difesa in epoca aragonese: al secolo XV ed anche alla prima metà del secolo XVI risalgono, infatti, quei contrafforti scarpati di rinforzo ai basamenti delle preesistenti torri. Nel sec. XV, per la strategia ad ampio raggio ed in appoggio alla dislocazione dei navigli e delle flotte in mare, la fortezza di Castellammare non era di poco conto, sì da essere inserita nella Cronaca Napoletana figurata del '400 edita a cura del Filangieri di Candida. I tre stemmi che, nel corso dei secoli ha avuto Castellammare recano tutti la raffigurazione schematizzata del Castello. E' anche da ricordare che la seconda delle quattro cattedrali di Castellammare era situata nell'ambito del complesso fortificato, ove risiedevano i vescovi succedutisi, che in essa officiarono dall' 840 al 1362. Al tempo della congiura dei Baroni, la rocca fu consegnata (ottobre 1459), senza resistenza alcuna, dal castellano, il catalano Gaillard, alle truppe di Giovanni d'Angiò, figlio di Renato, lo stesso Gaillard difese poi, valorosamente e vittoriosamente il Castello nel 1461 per gli Angiò, contro Antonio Piccolomini, duca di Amalfi, che aveva vinto, alle foci del Sarno, gli armati angioini ed aveva occupato il 23 ottobre la città.
Castellammare fu feudo di casa Farnese, essendo stata nel 1538 portata in dote da Margherita d'Asburgo, figlia illegittima di Carlo V, al tredicenne Ottavio Farnese, e questa illustre famiglia vi mise il suo governatore, con una guarnigione mercenaria insediata nel Castello. La prigione, ricavata nel basamento del mastio fu uno degli strumenti più persuasivi dell'amministrazione dei vari Governatori, ed il suo nome "La Papiria" emerge dai documenti di archivio. Nel XVII secolo, Castellammare era una vera e propria città ed il Castello, ormai superato strumento di guerra, perse la sua originaria funzione di fortezza idonea a prestare rifugio agli abitanti, in caso di pericolo. Il maniero, nel corso degli anni successivi, fu abbandonato definitivamente, anche in conseguenza delle mutate strategie politiche della Corona di Spagna nel Viceregno, che mirava alla neutralizzazione politica dei feudatari. Tuttavia la rovina del fortilizio, con lo sgretolamento delle vecchie pietre e dei vecchi merli, con il prorompere dalle mura dirute, di una selvaggia flora spontanea, dette al maniero quell'aspetto romantico che nel secolo XIX divenne la nota dominante del paesaggio di Castellammare, sì da farne soggetto preferito di pittori, disegnatori ed incisori da Pitloo a Duclère, da Pinelli a Gigante, da Carelli a Gaeta. Il Castello in tal modo continuò, per circa due secoli a vivere "sub specie artis" nelle opere degli artisti, specie dei paesaggisti della Scuola Posillipo, conquistandosi un suo posto tra i paesaggi celebrati dell'arte. Il Castello, nel periodo del suo maggior splendore ospitò anche il Boccaccio che lo descrisse nella giornata decima del suo Decamerone con il vicino Palazzo Reale di Casasana. Ridotto quindi allo stato di rudere, ne rimanevano solo le torri ed il perimetro esterno a pianta triangolare, mentre l'interno era completamente sprofondato. Nel 1931 il Castello divenuto proprietà privata, fu oggetto di un primo intervento di ricostruzione e di restauro sotto la guida del prof. Gino Chierici, l'allora soprintendente all'Arte Medioevale e Moderna della Campania, volto a salvare le mura esterne e le strutture preesistenti. Durante l'ultimo conflitto, l'edificio fu occupato da truppe britanniche e ridotto allo stato di grezzo. Per riparare pertanto i danni arrecati dalla requisizione, nel 1956 venne iniziato un secondo radicale restauro di avvaloramento durato dodici anni. Sia la ricostruzione che il seguente restauro, nonché la continua e puntuale manutenzione sono stati e sono tutt'ora compiuti con grande dedizione e notevoli sacrifici finanziari da privati a pro di un edificio altrimenti destinato alla definitiva rovina».
http://www.castellomedioevale.com/storia.php
Castellammare di Stabia (palazzo Farnese)
«Edificato nel XVI secolo; nel corso dei secoli è stata adibita a carcere, pretorio, la casa del Governatore. Dal 1820, con alterne vicende, è sede del Municipio. Il Palazzo è posto fra via Coppola ed un edificio signorile e presenta un elegante fronte a tre livelli con un portale ad arco. Nel 1566 Ottavio Farnese, signore di Castellammare decise di donare alla città un luogo adeguato per la sede della Corte del Governatore: la scelta cadde su un caseggiato ad un piano situato nell'attuale Piazza Giovanni XXIII. La famiglia Farnese confluì in quella dei Borboni e nel 1769 il popolo stabiese chiese al re Ferdinando IV di acquistare il Palazzo Farnese. Il palazzo, restaurato, ospitò il pretorio, il carcere civile e criminale, la casa del Governatore; nel 1793 fu, invece, costruita una cappella per i reclusi. Con l'abolizione degli ordini religiosi, la proprietà dei francescani, convento e giardino, passò al comune che vi trasferì nel 1820 la sede dell'Amministrazione comunale e, nel 1871, su progetto dell'architetto Luigi d'Amora, il palazzo fu ingrandito e abbellito; il secondo piano venne costruito soltanto agli inizi del '900 con una piccola torre laterale. Gli uffici comunali furono trasferiti nell'edificio nel 1964, poi abbandonato nuovamente. Nel 1980 furono eseguiti lavori di ristrutturazione e il palazzo fu ridestinato a Municipio».
http://www.comune.castellammare-di-stabia.napoli.it/cultura-e-turismo/palazzo-farnese/index-96.aspx
Castello di Cisterna (il castrum)
«Il castrum è una struttura costruita dai soldati romani per difendere il territorio appena conquistato. In seguito, nella stessa zona, questi predispongono una cisterna per la raccolta dell'acqua piovana, garantendosi così un approvvigionamento costante. Sito sulla via Appia, a metà percorso tra Napoli e Nola, il castrum cisternae, cioè il castello della cisterna (da cui il toponimo del paese dell'agro nolano), diviene, con il tempo, una stazione di sosta per la milizia, assolvendo alla duplice funzione di provvedere alla sicurezza della strada e dei viandanti, e di consentire il cambio dei cavalli e il riposo dei messi per il servizio postale. Attualmente, il castrum si presenta come un palazzo fatiscente di proprietà privata».
http://www.cittadelfare.it/palazzi/castello.htm
Castello di Palma (resti del castello longobardo)
«Il castello ha dato il nome al borgo, sviluppatosi sulla cima della collina che domina Palma Campania, lungo la strada che conduce al piano di Tribucchi e a Monte S. Angelo. L’impianto della struttura, di cui sono visibili pochi resti, poggia su una base di roccia calcarea, che ne segna i confini. Attualmente sono individuabili tracce della cinta muraria, larga due metri, e della torre a base quadrata, di circa dieci metri per lato. Il castello, che probabilmente aveva funzione di mastio all’interno del perimetro fortificato, occupa un’area di circa 4000 mq. nella parte più alta della collina ed è costituito da una cinta muraria interamente conservata (tranne il lato est), da una torre a forma quadrata e da poche strutture che ancora affiorano dai terreni coltivati. Esso è poco visibile dal centro storico di Palma Campania e non esiste nessun rapporto diretto tra il centro storico e il castello, in quanto anche la strada carrabile vi arriva da altre direzioni. Il sito del castello, quindi, è da mettere in relazione, vista l’orografia della zona, con il controllo degli assi stradali che attraversavano il territorio e ricopriva un ruolo strategico di primaria importanza, potendo dominare un’area di cerniera tra le diverse e importanti entità regionali ed era in comunicazione visiva con gli altri edifici fortificati che da est si affacciavano sulla pianura nolana e sarnese. Della torre quadrata, oggi rimangono l’ampia base scarpata e parte dell’elevato costituito da due muri perimetrali, irrimediabilmente deturpati da costruzioni private e pubbliche che nel corso dei secoli si sono abbarbicate ed in parte sostituite ai ruderi, stravolgendone la forma originaria.
I ruderi del Castello sono ancora visibili sulla collina che domina Palma, a circa 350 m. s.l.m.. Nel periodo longobardo probabilmente divenne elemento di difesa del territorio verso la pianura nolana e la valle del Sarno, che si trovarono al centro di continue dispute tra i Longobardi del Ducato di Benevento e i Duchi di Napoli, tra la fine del VI secolo e l’inizio del IX secolo. Nella seconda metà del IX secolo il Principato di Benevento frazionò il proprio territorio, dando vita al Principato di Capua ed al Principato di Salerno, che comprendeva la pianura nolana e sarnese, ad esclusione di Nocera e Pagani, che dipendevano da Napoli. La pianura nolana e quella sarnese subirono numerose incursioni: tra l’880 ed il 915 da parte dei Saraceni; nel 939 da parte degli Ungari; nel 970 da parte dell’Imperatore Ottone I. Nel 1135 Ruggiero II si stanziò con il suo esercito in questo territorio per muovere alla conquista del Principato di Capua e, per garantirsi da eventuali attacchi dalle colline ad est, distrusse ed occupò prima il Castello di Sarno e poi il Castello di Palma, dove incontrò una forte resistenza. Per diversi anni le truppe di Ruggiero II si accamparono nella pianura ad est del Vesuvio e lungo il Sarno; da qui partirono alla conquista di Nocera e poi di Nola ed, infine, nel 1139 l’intero territorio venne annesso al Regno di Sicilia. Il Feudo della Terra di Palma fu affidato inizialmente a Rinaldo di Palma, passò al figlio Riccardo, Barone di Castiglione, sotto il regno di Federico II di Svevia; con Carlo I d’Angiò passò a Filippo de Mostarolo; nel 1313 fu incamerato nei beni della regina Sancia, moglie di Roberto d’Angiò; dal 1365 fu retto da Gaetano Picchillo e, successivamente, passò al marchese Marcantonio Sant’Angelo, che nel 1427 lo cedeva al conte di Nola, Raimondo Orsini, in cambio dei castelli di Nettuno e di Asturi; rimase proprietà della famiglia Orsini fino al 1529. Agli inizi del XIV secolo il Castello ospitava numerose schiere di briganti, che con continue scorrerie razziavano l’intera pianura compresa tra il territorio casertano ed il Sarno e si spingevano fin sotto le mura di Napoli, determinando notevoli problemi per l’approvvigionamento giornaliero di mercanzie e derrate alimentari in città. La decadenza del Castello iniziò con il regno aragonese, periodo in cui i castelli persero la loro funzione di difesa e ad essi si sostituirono gli edifici di delizia, ricchi di sale e numerose logge, come il Palazzo Ducale edificato ai piedi della collina. Nel 1741 il Castello era già ridotto in ruderi, come si legge negli atti del Catasto Onciario della Terra di Palma (1741–1753): … per un poco di territorio intorno al Castello, seu Palazzo antico Baronale, da pochi anni introdotto a coltura e che prima era incolto per esservino le mura dirute di detto Castello. Gli ultimi proprietari del feudo e del Castello di Palma furono i baroni Compagna».
http://terradipalma.blogspot.it/2012/07/castello-longobardo-di-palma-campania.html (a cura di Luigi Sorrentino)
CASTELLO MONTELEONE (castello del Belvedere Monteleone)
«Alcuni studiosi vogliono che intorno all'anno 1275 Carlo d'Angiò, per proteggere la Campania Felix dalle scorrerie dei pirati saraceni, fece edificare due identici castelli distanti tra loro tre miglia e mezzo: il Belvedere, così chiamato per l'amena ubicazione, sorto sul ciglio del cratere di Quarto, ed il castello Scilla a dominio dell'antico casale di Marano. Ma in un registro di Carlo d'Angiò del 1268, dunque pochi decenni prima dell'ipotetica erezione dei castelli, l'attuale città di Marano è denominata “Turris Marane”. Questo toponimo rende forte una tesi alternativa riguardante la nascita delle fortificazioni, che vuole la loro edificazione ad opera di Federico II (tra il 1227 ed il 1229), il quale si adoperò ad affermare la presenza imperiale sul territorio. Per organizzare l'attività edilizia all'interno del regno, l'Imperatore fece redigere nel 1231 lo “Statutum de reparatione castrorum”, ovvero un elenco di castelli e domus solaciorum da ristrutturare, accanto al quale si accostò una parallela attività edilizia ex novo. Carlo d'Angiò provvide sicuramente alla riedificazione del castello Monteleone, avvalendosi dell'ingegno di Pietro de Chaule e Bausolino de Linnays, in seguito ad un incendio divampato al termine della dominazione sveva. Entrambi i castelli furono amministrati dalla famiglia della Marra, originaria di Amalfi, che riscontriamo in varie fonti. Federico II che nominò Angelo della Marra a “visitator generale sopra tutti gli officiali del regno”. Nel XVI sec. il castel Belvedere venne acquisito dalla famiglia Monteleone mentre i Della Marra tennero il castello Scilla sino al 1696, quando la fortezza divenne proprietà di Guglielmo Ruffo di Calabria I Ruffo rimasero padroni sino agli inizi del XIX secolo, periodo nel quale i due castelli furono abbandonati e lasciati all'occupazione contadina. Oggi le strutture sono abitate, frazionate e non curate. Nel corso degli ultimi decenni è andata persa la memoria storica di quei luoghi, che ancora mantengono l'imponenza del passato pur risultando mutilati irrimediabilmente. ...
Noto anche come Monteleone, il castello Belvedere sorge sulle pendici orientali del cratere di Quarto. L'ingresso è rivolto verso sud-ovest e da qui lo sguardo si affaccia sull'intera conca di Quarto, per giungere poi alla lascia litoranea, ed oltre ancora all'isola di Ischia. La struttura della fortezza si presenta meno alterata rispetto al gemello castello Scilla. L'impianto rettangolare, con i lati di 37 e 40 metri, si sviluppa intorno ad un unico cortile centrale e mostra sei torri rettangolari ai lati; la fabbrica si sviluppa su due piani ed è completamente in tufo. Notevoli sono le finestre che corrono lungo il perimetro esterno del castello: difatti, accanto ad aperture chiaramente moderne (il castello è attualmente abitato), si incontrano monofore e una bifora a sesto acuto. Particolare è il riscontro di quattro aperture circolari (oculi), murate, dal raggio piuttosto ampio che corrono lungo il fronte nord-ovest e la facciata, poco più in alto del portale in tufo modanato. L'interno del castello è profondamente modificato dalla continuità di vita ed è difficile oggi riconoscere le funzioni dei vari locali, ma può ipotizzarsi un'organizzazione simile a quella del castello Scilla. Si accede al cortile interno dove,in posizione centrale, troviamo un pozzo che raccoglie le acque piovane tramite un articolato sistema di canali. Di fronte è un doppio forno, unico nel suo genere. Sulla destra, attraverso un arco acuto, si accede alla scala in piperno che, per mezzo di un ballatoio (originariamente in legno) conduce al primo piano. Certa è la destinazione del piano superiore agli alloggi del signore, mentre il piano inferiore doveva ospitare gli ambienti di servizio ed infine i sotterranei servivano da magazzini».
http://www.castcampania.it/marano.html
«Verso la fine del XIII secolo nel Casale di Cicciano si stabilirono con una loro domus i Cavalieri dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme. L’insediamento diventò Commenda e Commenda Magistrale nel secolo successivo. Nacque, così, il Castrum - il Castello o Casa-fortezza - residenza ufficiale dei Cavalieri, costruito nella località chiamata Lo Ponte. Il termine Castrum deve essere inteso non come castello in senso stretto quanto piuttosto come uno spazio chiuso dotato di una forma di difesa. Infatti, il nostro Castro era uno spazio ben delimitato: un quadrilatero protetto da una cinta muraria e circondato da un fossato. Quando fu appianato, il fossato aveva una larghezza di circa otto metri. Se consideriamo l’intero perimetro del complesso (circa trecentotrenta metri), ricaviamo una superficie di oltre duemilacinquecento metri quadrati. Girolamo Branciforti, commendatore dal 1642 al 1686, pensò bene di sfruttare questa considerevole estensione facendovi piantare numerosi alberi da frutta. Parallelamente al fossato, c’era una strada pubblica. Fossato e strada, poi, isolavano materialmente il Castro dalle abitazioni private che lo circondavano. Al Castello si accedeva da una sola porta grande, la ianua magna, posta sul lato sud e dopo aver superato un ponte levatoio. Lo spazio interno si presentava come un piccolo villaggio. Oltre al palazzo del Commendatore, vi erano la Chiesa di San Pietro Apostolo, il carcere civile e quello penale, un pozzo d’acqua sorgiva, un cortile grande e uno piccolo, diversi locali di deposito e di servizio, un discreto numero di abitazioni private. La porta di accesso al Castro era difesa da un rivellino, una seconda costruzione in posizione avanzata rispetto al perimetro delle mura. Il rivellino occupava buona parte dell’attuale piazza Mazzini. Non ne conosciamo la forma. L’impianto poteva essere semicircolare, quadrato, rettangolare, pentagonale se non addirittura triangolare. I primi inventari dei beni della Commenda si limitano a riportare che il Castro aveva un rivellino davanti e non aggiungono altro. è solo con l’inventario dei beni del 1646 che abbiamo qualche particolare in più. In questo secolo, però, sembra che il rivellino abbia perso la sua originaria natura di opera difensiva e sia stato trasformato in un piccolo, ben curato giardino che rendeva veramente delizie a chi vi entrava.
Negli anni successivi, il rivellino fu ulteriormente ingrandito e abbellito con aiuole fiorite e la costruzione di tre padiglioni. Aveva tre porte d’accesso con archi di due grottoni, uno piantato tutto di lauri regi e l’altro di alberi di agrumi, circondati a loro volta da fontane. Per farlo meglio godere al di fuori, fu aperto, poi, un portone a rastello con un lungo viale prospettico, delimitato a sua volta da pilastri e statue. Nel 1646, nella piazza antistante al Castro e a ridosso del rivellino, dal commendatore Branciforti venne fatta costruire una cisterna pubblica che veniva riempita con l’acqua del fiume di Avella. Agli inizi del Cinquecento, il palazzo della Commenda era costituito dal palazzo vero e proprio e da una torre posta accanto alla porta d’accesso al Castello. Il palazzo si sviluppava al piano terra e al piano superiore: la torre aveva un piano in più e la sua sommità era raggiungibile attraverso una scala esterna. Al piano terra vi erano i locali di servizio. Al piano superiore vi erano due sale pubbliche e le camere private. Si entrava direttamente in quella che era chiamata la sala magna con la cimineria ovvero il salone di rappresentanza o delle feste. Seguiva l’altra sala pubblica detta la sala penta o la sala pintata, più piccola rispetto alla precedente. Con il Branciforti tutto il complesso fu alquanto modificato con l’aggiunta di diversi altri locali sia per abitazioni che per servizi, compreso un cellaro capace di contenere quattrocento botti circa. Fu coperta la porta d’ingresso con un porticato a volte e su di esso furono costruite una seconda sala grande ed una camera. ...».
http://hosting.soluzionipa.it/cicciano/pagina.php?id=12
«Il Torrione domina con la sua alta mole l'abitato foriano del lungomare, all'interno di un contesto urbanistico ed architettonico di notevole valore, in cui spiccano alcune pregevoli costruzioni settecentesche, quali Palazzo Covatta, il Palazzetto, situato proprio di fronte alla torre. La torre, a pianta circolare e copertura piana a terrazzo, si sviluppa su tre piani, di cui, quello inferiore, a sostituzione del basamento, è scavato nel masso roccioso di tufo sul quale sorge. Il parametro esterno è realizzato in pietra tufacea e trachitica, rozzamente squadrata in blocchi uniti da malta. Il primo toro, in pietra trachitica, circonda il cilindro all'altezza del primo livello, ed il secondo funge da appoggio alle mensole che, collegate mediante archetti, sorreggono il coronamento merlato. I tre piani sono coperti da volte emisferiche di cui quella superiore lunettata. All'ultimo livello si accede mediante una scala esterna della quale la seconda rampa a sbalzo è delimitata dal parapetto spezzato, secondo un motivo in uso nell'architettura minore foriana. Una scala interna realizza il collegamento con il terrazzo di copertura. Proseguendo per la stessa via del Torrione si arriva nel Corso principale di Forio, un tempo dedicato al Re Umberto primo, oggi dell'avv. Francesco Regine. Camminando per circa cento metri a sinistra, proprio di fronte alla bella Basilica di Santa Maria di Loreto vi è la Torre di "Corso Umberto".
Il Torrione è la più grande Torre di Forio: altissima a dominare l'intero abitato, racchiusa in un fitto tessuto di edifici quasi tutti di pregevole consistenza architettonica quali Palazzo Covatta (XVIII sec.); il palazzotto di Via Torrione ( XVIII sec.) e la distrutta Cappella Regine (XVIII sec.); fino a pochi anni addietro, per lo stato di conversazione, era la migliore delle torri costiere. Fu costruita a spese dell'Università nel 1480 come torre di avvistamento e di difesa, per far fronte alle incursioni del Barbarossa e di altri corsari cui Forio era particolarmente esposta. Altri fanno risalire il monumento ai primi decenni del XVI sec., sulla base di un rapporto sulla situazione di Forio e dell'isola d'Ischia presentato alla Regia Camera della Sommaria nel 1574, conservato presso l'Archivio di Stato di Napoli. L'autore della relazione, Pirro Antonio Stinca, scrive di "un grosso Torrione edificato a spese dela Università del proprio Casale de Foria che per detta opera hanno preso ad interesse da settecento ducati, quale teneno ben munito de alcuni pezzotti di artiglieria di ferro un pezzo de brunzo et altre arme per sua defensione" (Delizia, 1987, p. 150). L'Università di Forio, dunque, allora già oberata di debiti, per l'edificazione della torre si indebitò ulteriormente per circa settecento ducati. Questa importante struttura difensiva fu edificata su uno spuntone di roccia tufacea in posizione strategica, in prossimità della spiaggia, in modo da dominare dall'alto il porto. La forma circolare consentiva una visuale completa ed era la più adatta anche per l'angolazione dei cannoni. Come testimonia D'Ascia (1867), la torre era infatti dotata di quattro cannoni di bronzo che, una volta cessato il pericolo delle incursioni piratesche, furono utilizzati per sparare a salve durante le festività; questa usanza durò fino al 1788, anno in cui fu proibita, in seguito ad un incidente avvenuto durante la festa dell'Incoronata del 29 luglio 1787, costato la vita ad un artigliere della torre.
ome per tutte le altre torri esterne di difesa munite di artiglierie, fino al XVIII sec., a sorveglianza del Torrione, c'era una vedetta, detta torriere, nominato annualmente dal sindaco in carica, che aveva il compito di dare l'allarme in caso di avvistamento di navi nemiche e di comandare la guarnigione che alloggiava al primo piano. Il piano inferiore era utilizzato come magazzino per i viveri e l'artiglieria; vi era stata ricavata anche una piccola cisterna per la raccolta dell'acqua piovana. Il Torrione diede l'avvio all'edificazione di una serie di altre torri di avvistamento, difesa e rifugio, sia a pianta circolare che quadrata, in prossimità del porto, allo sbocco di una strada o nelle zone più interne coltivate dagli abitanti di Forio. Queste torri furono costruite dalla popolazione soprattutto nel XVI sec., quando si intensificarono gli assalti dei pirati (disastroso quello di Ariadeno Barbarossa del 1544, cui seguirono le scorrerie di Dragut e di altri corsari), fino a formare un efficace e ininterrotto sistema di fortificazioni sul territorio. La suddetta relazione del 1574 attesta l'esistenza di sette torri: "et in lo supradetto casale de Foria se vedono edificate sette Torre de particulari citadini ben munite d'arme, nele quale se ponno salvare la gente de detto casale, quando è correria di Turchi" (cfr. Monti, 1980, p. 623 e Delizia, 1987, p. 150). Nel 1800 il Torrione fu trasformato in carcere; seguì un periodo di abbandono, come testimoniano l'atto del 17 novembre 1844, in cui il Decurionato deliberò di stanziare venti ducati per "urgenti riparazioni bisognevoli allo antico torrione", e lo stesso D'Ascia, che lo dice inutilizzato ed in rovina. Nel 1900 fu adibito a museo per ospitare una raccolta di opere dell'artista foriano Giovanni Maltese che verso la fine dell'800 aveva ottenuto l'edificio in enfiteusi dal Comune e lo aveva adattato a sua abitazione e studio. Sebbene una delibera comunale del 1969 avesse sancito in seduta straordinaria provvedimenti urgenti per assicurare la stabilità del Torrione (alcuni merli minacciavano di cadere) e di destinare il monumento a scopi culturali, Sardella (1985) e Delizia (1987) testimoniano che la torre era abbandonata e in stato di pericolosa fatiscenza, mentre fino a pochi anni prima vantava il miglior stato di conservazione fra le torri costiere. Attualmente, dopo restauri effettuati negli anni Ottanta, la sala inferiore è sede del Museo Civico del Torrione ed è utilizzata per mostre temporanee, quella superiore ospita il Museo Civico Giovanni Maltese, dove sono conservate le sculture e le pitture lasciate dalla moglie dell'artista al Comune».
http://www.ischia.it/il-torrione
Frattaminore (castello ducale)
«Il palazzo ducale è un edificio quadrangolare a tre piani con tipologia a corte. All'interno della corte, al piano terra, si trovavano depositi e stalle; in seguito questi locali sono stati trasformati in abitazioni e sopraelevati di piano. I vecchi balconi con archi sono stati modificati talmente da far perdere ogni riferimento architettonico. Al piano terra, oramai anch'essa destinata ad abitazione, vi è la cappella del palazzo il cui altare fu spostato nell'attuale Cappella dell'Annunziata in piazza Crispi. Dell'epoca esiste, in piazza Crispi, una tenuta estiva, rifacimento di un probabile castello medioevale del quale è visibile ancora una torre, su via Liguori, oramai inglobata nel palazzo ducale, ed un bastione di torre nel lato nord del palazzo, sulla discesa per la grotta. Delle altre due torri una fu demolita per un ampliamento del palazzo, mentre dell'altra non se ne ha più traccia. Attualmente esiste ancora parzialmente il fossato ai due lati del palazzo, la restante parte oramai è andata perduta per la costruzione di immobili. Il palazzo, nonostante le numerose manomissioni, presenta ancora tracce del fossato e parte dell'antica facciata con porte e finestre, alcune delle quali trasformate in balconi, con cornici in piperno. Frattapiccola, con il suo castello circondato dal fossato, fu feudo a partire dal XIII secolo; ne furono feudatari, tra gli altri, Pietro Marerio, Pietro da Venosa e Scipione d'Antinoro. Nel 1626 era "utile signore del Castello" Vincenzo Benevento e successivamente il figlio Francesco, all'epoca proprietari anche del complesso di Teverolaccio, nei pressi di Succivo. Nel 1647, durante la rivoluzione di Masaniello, vi si rifugiarono 500 armigeri a cavallo comandati dal conte di Conversano, Giangirolamo Acquaviva, agli ordini del generale Tuttavilla, messi in fuga dai popolani di Frattamaggiore e Grumo Nevano, Pomigliano d'Atella, "Casali Pomillani" fu dato in feudo a Guglielmo Stendardo. Il castello del XVI secolo, che fu palazzo marchesale, appartenne agli Ambrosino nel secolo XVII, e successivamente al marchese Carlo Rossi di Napoli. Nel 1750 il castello di Frattapiccola passò ai Carafa, conti di Policastro, sotto la cui giurisdizione erano gli abitanti di Frattapiccola, come risulta dai registri battesimali».
Giugliano in Campania (palazzo baronale Pinelli di Acerenza, oggi palazzo Palumbo)
«Nel 1545 Cosimo Pinelli nuovo duca di Acerenza in qualità di signore del feudo di Giugliano, edificò a Giugliano un maestoso palazzo-fortezza con torri per la difesa su progetto attribuito a Giovan Francesco De Palma, detto il Mormando; l’architetto nacque a Napoli agli inizi del XVI secolo, e fu allievo dell’altro Mormando cioè di Giovanni Francesco Donandio, da cui assunse l’appellativo, in quanto suo allievo e suo genero avendone sposato la figlia Diana Donadio. Lo stile del Di Palma è una semplificazione dei modelli del suo maestro basati sullo stile del “Rinascimento Napoletano” inaugurato quasi un secolo prima da Alfonso V d’Aragona che amplificò la rete di scambi culturali nel Mediterraneo, coinvolgendo i territori partenopei nel giro degli scambi con gli altri territori della corona aragonese e chiamando in città artisti catalani e spagnoli, tra cui spiccò la presenza di diversi caposcuola come Pisanello e Colantonio; negli anni successivi l’alleanza con i Medici di Firenze porto molti artisti toscani a Napoli con crescenti scambi culturali ed artistici. ... L’edificio di pianta regolare a tre ali è articolato intorno ad un ampio cortile centrale presenta la facciata principale sulla Piazza del mercato e quindi sull’antica via Antiqua attuale corso Campano; come per altri palazzi dell’epoca viene confermata l’ubicazione del cortile al centro dell’edificio, questa prassi deriva dai modelli planimetrici del passato, e divenne il principale elemento caratterizzante la nuova disposizione ispirata ai modelli classici che prevedevano un complesso edilizio chiuso attorno ad un cortile, con piccole aperture al piano terreno e finestre regolari, di dimensioni più ampie, nei registri superiori. Il palazzo originario, però ha subito, nel corso dei secoli numerose trasformazioni che ne hanno alterato il disegno originario del Mormando.
La facciata dal disegno pulito elegante ma allo stesso tempo maestosa; è tripartita secondo lo schema classico (base, fusto, corona) il primo livello (piano terra) dell’edificio è rivestito con bugnato a fasce orizzontali di colore grigio; danno ritmo alla facciata i quattro “pilastri”-colonna di ordine dorico costituiti da elementi in piperno che reggono un aggetto-mensola in blocchi in piperno che corre lungo la facciata in prossimità del primo solaio ; al centro delle quattro colonne si trova il portone d’ingresso ricavato all’interno della bugnatura costituita da fasce lineari orizzontali; il secondo e terzo livello presentano paramenti lisci finiti ad intonaco di colore rosso scuro , con struttura a rilievo sporgente costituita da telaio murario emergente di colore grigio; sovrapposto alla stessa risalta al centro della composizione, in prossimità del terzo livello un “frontone“ decorativo triangolare che occupa tre moduli e “poggia“ su quattro lesene con capitello ionico; che al piano terra diventano i “pilastri” prima descritti; mentre al terzo piano lo spazio delle lesene è occupato dal frontone decorativo. Alla storia del palazzo è legata anche la figura del celebre Giovan Battista Basile, che nel 1631 fu chiamato dal nuovo feudatario Galeazzo Francesco Pinelli a ricoprire la carica di governatore di Giugliano; Giovan Battista Basile fu uno degli intellettuali dell’Accademia degli Oziosi fondata nel 1611 da Giambattista Manso; nelle sale del piano nobile, il Basile scrisse il Lo Cunto de li Cunti – trattenimento de li piccirilli, una raccolta di racconti dai cui gli autori Perrault e i fratelli Grimm trassero l’ispirazione per le famosissime fiabe “Cenerentola”, “Il gatto con gli stivali”, “La bella addormentata nel bosco”. ... Dal 1833 il palazzo è passato alla illustre famiglia Palumbo di Giugliano da cui ha anche preso il nome. Oggi gli splendidi giardini purtroppo non esistono piu’ ad eccezione di qualche lembo superstite essendo stati completamente cementificati negli anni 60 , prima dell’entrata in vigore della Legge Urbanistica del 1967, con la realizzazione di anonime ed abnormi palazzine ; al centro del giardino di delizie negli anni del fascismo fu realizzata la attuale via Roma; negli anni 80 purtroppo la torre fortezza sulla sinistra del cortile fu demolita per ricavarne appartamenti; oggi, in generale il palazzo si conserva in discrete condizioni un’ala del palazzo fu restaurata negli anni 90 su commessa di alcuni membri della famiglia Palumbo con direzione dell’Ing. Pasquale Basile».
http://www.teleclubitalia.it/la-storia-del-palazzo-baronale-di-giugliano/1219165 (a c. dell'architetto Francesco Russo)
«Il Castello di Gragnano è stata una struttura militare in uso dal X secolo fino alla caduta del ducato amalfitano; sono visibili solo alcuni resti, come una porta d'ingresso, parti di mura di cinta e qualche torre. Il castello fu edificato verso il X secolo, in un luogo dove probabilmente prima sorgeva un oppidum romano, dagli Amalfitani, per lo stesso motivo per cui avevano costruito il vicino castello di Lettere, ossia quello di difendere il territorio del loro ducato da possibili incursioni da parte dei Longobardi e dei Normanni, che minacciavano dal golfo di Napoli. Secondo un'altra ipotesi invece, il castello potrebbe essere stato costruito nel 1075 da Roberto il Guiscardo, un principe normanno, che per diversi anni era riuscito ad impossessarsi di alcuni territori degli Amalfitani. I primi documenti in cui viene fatto chiaro riferimento al castello risalgono al 1077, quando nel Codice Amalfitano, la struttura è descritta come nel pieno delle sue potenzialità; nel XIII secolo raggiunse l'apice del suo splendore, diventando il centro politico e religioso di Gragnano, con la sede dell'arcipretura e di una chiesa. Con la caduta del ducato di Amalfi il castello perse la sua funzione difensiva ed il borgo che si era creato al suo interno andò pian piano a spopolarsi, soprattutto con lo spostamento a valle delle maggiori attività commerciali: tuttavia ancora oggi diverse centinaia di persone risiedono nel borgo, che ha mantenuto in parte il suo aspetto medievale. Il castrum granianense, così era in origine chiamato il borgo all'interno del castello, sorgeva in posizione strategica, dominando la valle dei Mulini ed era protetto da tre cinte murarie: la prima percorreva l'intera vallata, la seconda, caratterizzata da dodici torri e tre porte d'ingresso, cingeva il borgo e la terza, rappresentava il vero e proprio castello, contraddistinto da un maschio, poi abbattuto per far spazio ad una chiesa; di queste strutture rimangono solo una porta a volta e alcuni resti di torri. Resta invece ben visibile l'impianto viario, con un decumano lungo circa centrotrenta metri, che collegava due porte e alcune strette strade secondarie, larghe appena per permettere il passaggio di un mulo e denominate coi i nomi dei lavori che si svolgevano. Nella piazza principale del castello era posta la chiesa di Santa Maria dell'Assunta, ancora oggi esistente».
http://it.wikipedia.org/wiki/Castello_di_Gragnano
Le foto degli amici di Castelli medievali
«Chi viene ad Ischia non può non
notare quel piccolo isolotto ad est, nel mare di Ischia ponte. è castello
Aragonese, emblema dell’isola per tante ragioni. Una è soprattutto la sua
bizzarra bellezza geologica di enorme scoglio, che solo ad un secondo sguardo
rivela essere una antica cittadella Questo perché le antiche mura, di chiese e
bastioni, costruite in gran parte dal 1300 al 1600 si mimetizzano perfettamente
con la roccia scura e spigolosa di questa singolare “torta vulcanica”.
L'isolotto, alto circa 113 metri, è infatti la conseguenza di un'eruzione
vulcanica avvenuta tra i 280.000 e i 340.000 anni fa. Secondo alcuni studiosi lo
scoglio in mezzo al mare fu fortificato da Gerone, tiranno di Siracusa,
nell'anno 474 a. C. Ma la mancanza assoluta di cocci di età greca o romana,
mentre le colline di Cartaromana e la marina di Ischia Ponte ne sono piene, e le
scoperte archeologiche (gennaio 1971) sul fondo marino di insediamenti risalenti
al periodo ellenistico romano, hanno consentito altre ipotesi. Per Pietro Monti
(Ischia, archeologia e storia) l'isolotto altro non era che un'altura di
un'antica e operosa terra che aveva legato la sua fortuna allo scalo portuale
che si apriva su due versanti, ad est e a nord del Castello. Questa terra era
Aenaria (aena = bronzo, rame, piombo, metallo in genere), città
fiorentissima per le numerose industrie di metallo, nata verso il secolo IV a.
C. e finita improvvisamente tra il 130 e il 150 d. C. Aenaria finisce con un
effetto speciale della natura davvero sbalorditivo: viene inghiottita dal mare.
Ciò avvenne secondo lo studioso Ritmann nel corso di un’eruzione del Montagnone,
che venne accompagnata da forti terremoti ed assestamenti vulcano-tettonici. I
resti di Aenaria sono attualmente otto-nove metri sotto il livello del mare, con
la città scomparvero le fabbriche di terracotte, l'industria dei metalli, la
plumbaria di Gneo Atellio, la fucina per le armi. Lo sprofondamento di Aenaria
causò il distacco dell'isolotto-castello dall'isola madre. Una cosa è certa. S.
Gregorio Magno in una lettera del 598 parla non di una, ma di due isole.
Più tardi con l'incremento dell'abitato sull'isolotto-castello, il toponimo
Insula si rivelò incompleto e fu necessaria l'aggiunta di Major (Insula
Major) in contrapposizione al Castrum. Il Castello dall'VIII al IX
secolo era eretto a fortezza, ed era la sede del conte che governava pure su
tutta l'isola. Nel 991 in due sermoni su S. Costanzo di Capri si narra che i
Saraceni, dopo varie incursioni nelle città campane, approdarono all'Isola
Maggiore e combatterono con accanimento contro Girone senza riuscire ad
espugnarla. Fu Carlo d'Angiò, incoronato re di Napoli, nel XIII secolo, a far
costruire sulla cima dell'isolotto un mastio quadrangolare isolato a strapiombo,
chiuso con mura massicce e con ai due angoli ad est incastrati due torrioni
cilindrici. Gli Angioini fecero inoltre costruire nello specchio d'acqua
prospiciente il Castello un porto che consentì vantaggi favolosi alla cittadella
sulla rocca e a quella sulla terra plana. La roccaforte sotto gli Angioini
conobbe un'era di grande prosperità. La vita artistica e culturale risplende nei
sopravvissuti affreschi della cripta e nei resti monumentali di un mausoleo. Nel
1423 Alfonso d'Aragona, prima di conquistare il regno di Napoli, mentre era
ospite dell'amico Michele Cossa, fa conquistare dai suoi soldati la base
militare e poi il Castello stesso. Ed è da qui che parte, nel 1441, il comando
per l'assedio di Napoli prima dell'ingresso trionfale del 26 febbraio 1443. Il
sovrano, chiamati intorno a sé i più grandi artisti ed i migliori esperti di
urbanistica, fece trasformare il castello in un vero baluardo. Tra le grandi
opere da lui create merita il primo posto il traforo scavato nel seno della
roccia: un'immane galleria sbarrata da cinque porte con feritoie e spie che
porta sulla roccaforte; fa erigere enormi ed inaccessibili muraglioni di
sostegno lungo i costoni a picco sul mare; fa riparare il ponte di fabbrica che
univa l'isolotto con l'Isola Maggiore; fa piazzare un ponte levatoio di legno.
Nell'interno del Castello, offerto in dono alla seducente Lucrezia d'Alagno, si
tenevano spesso feste e incontri mondani. Le truppe francesi, quando sul finire
del XV secolo, conquistarono il regno di Napoli, non trascurarono di cingere
d'assedio il Castello d'Ischia. L'assedio si risolse in un completo fallimento,
perché gli Isolani respinsero gli attacchi nemici, infliggendo loro
considerevoli perdite. La strenua difesa del Castello fu organizzata e diretta
da Costanza d'Avalos, donna di straordinario coraggio che, per la fedeltà
dimostrata agli Aragonesi, ebbe da Ferdinando il Cattolico, con privilegio del
10 marzo 1503, il Governo a vita sull'isola d'Ischia.
Nella cattedrale del Castello, eretta nel XIV secolo, il 27 dicembre 1509 furono
celebrate le nozze di Ferrante d'Avalos, nipote di Costanza, con Vittoria
Colonna. E qui la poetessa concepiva sonetti per lo sposo lontano e per i suoi
gloriosi trionfi, e poi, dopo la tragica notizia della morte di Ferrante (1525),
per il "suo amore scomparso". Il Castello era la meta preferita di Giovanna e
Maria d'Aragona, di poeti e cavalieri, in un fervore letterario che era
completato da una vita mondana non priva di fascino e di suggestione; esso
divenne il luogo dove trascorrere in tranquillità i periodi più calamitosi
attraversati dal regno di Napoli. Verso la metà del Cinquecento la fortezza
d'Ischia riuscì a contenere migliaia di persone, oltre ad edifici civili, chiese
e vescovado. Beatrice Quadra con l'atto pubblico del 10 settembre 1574 dona il
grande palazzo d'Avalos a due piani situato sul Castello ed esso viene
trasformato in convento. I saloni del palazzo furono divisi in celle e in
cappella claustrale; il giardino recintato da alte mura. Il 14 luglio 1577 il
vescovo isclano Fabio Polverino proclamò la clausura. Beatrice Quadra per il
sostentamento del convento donò inoltre terreni situati in Barano e Casamicciola.
Nel sottosuolo del convento fu situato l'ossario delle suore: impressionanti
"scolatoi" su cui si deponevano i cadaveri per farli essiccare. All'inizio del
'500 si introdusse infatti l'usanza dei cosiddetti "scolatoi", volgarmente "cantarelle".
Si disponeva seduto il defunto su uno di questi "seditoi", sino a che il
cadavere, espulsi gli umori nel vaso sottostante, disseccasse: l'operazione era
detta "scolare"; lo scheletro veniva poi deposto in un loculo. Con l'avvento dei
Borboni, l'isola d'Ischia iniziò a governarsi con propri sindaci e deputati
eletti dalle Università. Sul Castello dimorava il Governatore borbonico a cui
era demandato il comando militare dell'intera isola. Nel 1799 il Castello è
adibito a Bagno penale provvisorio. La comunità di suore, viva per ben 334 anni,
nel 1809, in seguito alla legge di soppressione dei monasteri emanata da Murat,
fu sciolta d'autorità. Nel 1823 il Castello divenne ergastolo ufficiale. Nel
1851 è il calvario dei condannati politici. Nel 1874, passato alla Direzione
Generale delle carceri, si trasforma in una colonia per delinquenti comuni. Nel
1890, dietro ripetute istanze, la colonia fu soppressa. Nel 1912 lo Stato mise
all’asta il Castello, che fu acquistato da privati».
http://www.isoladischia.net/castello-aragonese-ischia/il-castello-aragonese-di-ischia
Ischia (torre di Guevara o di Michelangelo o di Sant'Anna)
«La torre di Guevara, comunemente detta di Michelangelo o di S. Anna, è una casa turrita edificata su quel tratto della costa orientale dell'isola che prospetta sul Castello d'Ischia, esito naturale di sommovimenti tellurici risalenti al II secolo d.C., interamente fortificato da Alfonso d'Aragona a partire dal 1433 quando, con un provvedimento organico, il sovrano predispose e sollecitò, a maggior difesa dell'isolotto, anche l'edificazione di torri lungo i tratti di costa adiacenti. In questo contesto di prospettive difensive si colloca certamente la scelta di una casa-fortezza, di cui sono stati proprietari, fino agli inizi dell'800, i Guevara, duchi di Bovino, da cui il nome. Ma la presenza di Vittoria Colonna sul Castello d'Ischia e l'amicizia di Michelangelo per la nobile castellana hanno sostanziato, in tempi più recenti, insieme all'infondato convincimento di un soggiorno del grande artista nella torre Guevara, postazione ideale per una "corrispondenza amorosa" con l'amata, anche una nuova denominazione della fabbrica, spesso impropriamente detta "torre di Michelangelo". Anzi, il proposito di avvalorare la presenza del grande artista in Ischia ha sortito l'effetto di offuscare una toponomastica già accreditata, quella di "torre di S. Anna", dovuta alla presenza nel sito di una chiesetta ad essa dedicata, entrata nell'uso dal tempo in cui i guevara avevano abbandonato il possedimanto, e recepita dalla stessa cartografia ottocentesca. Attribuita da Gina Algranti a Guevara, venuto dalla Spagna al seguito di Alfonso I d'Aragona che nel 1454 lo nominò "cavalliere del re", la fabbrica della torre potrebbe anche darsi alla fine del XV secolo, quando un altro membro della stessa famiglia, don francesco de Guevara "non potendo più servire in campo militare" fu fatto da Carlo V governatore a vita dell'isola d'Ischia. Ma, è sopratutto in rapporto alla cultura manieristica, di cui pure la torre offre testimonianza non solo attraverso i suoi affreschi, ma anche attraverso la sua concezione di casa-giardino, inteso come contesto di immagini mitiche e luogo privilegiato di metafore culturali, che si può posticipare la datazione. Difatti la torre era immersa in origine in un giardino di delizie che, lambendo a valle la acque di Cartaromana e quelle di una sorgente dismessa celebrata dal Boccaccio, si chiudeva su due lati con altre mura in pietra vulcanica, di cui sussistono ancora dei tratti, per ascendere poi a mezza costa con colture diversificate concluse da un boschetto a fitta vegetazione arborea. L'immagine dotta della organizzazione compositiva dello spazio torre-giardino, che mirava a realizzare una grande metafora naturalistica contrapposta al Castello (il costruito), completamente compromessa, prima, dalla destinazione d'uso agricolo del complesso, poi, dagli sviluppi edilizi e da uno cattivo intervento di "restauro", è oggi avvalorata dalla rappresentazione di uno dei pannelli del grande affresco che ricopre la volta a padiglione della sala sud- ovest del piano nobile della torre. Qui, nell'ambito di una figurazione araldico-cavalleresca si sviluppa uno spaccato prezioso della situazione originaria dei luoghi e delle internazionalità progettuali. Articolata su tre livelli fuori terra, di cui il primo a scarpa concluso con un toro in pietra viva, la torre presenta nel suo impianto quadrato e nella geometria delle aperture incorniciate da tessiture di pietra vulcanica a spessore un accento di marcata ed intenzionale sobrietà che si traduce in una immagine di sottile, sofistiche eleganza. Pertanto essa si impone all'attenzione quale opera significativa del rinascimento napoletano».
http://www.ischia.it/torre-di-guevara-o-di-michelangelo (a cura di Ilia Delizia)
«Il Castello di Lettere si erge sulla cima della collina di San Nicola del Vaglia, a 347 metri sul livello del mare su una terrazza in pietra calcarea appartenente alla catena dei monti Lattari, da cui domina la città di Castellammare di Stabia con il suo golfo. Durante il x secolo la città e l’area circostante entrarono a far parte dei territori sottoposti alla città stato di Amalfi. Lettere sotto il ducato di Mansone III acquisì la funzione di avamposto a controllo del limes nord est del ducato, e in particolare del valico di Pino Agerola, uno dei due importanti punti di accesso al territorio provenendo dalla piana sarnese. Il castrum Letterensis non fu il primo castello nato a questo scopo. la sua erezione segue probabilmente di pochi anni quella del castello di Pino, costruito nel 949 per volontà del duca Mastalo I con il preciso compito di controllare i possessi amalfitani di Gragnano e Pimonte, fino a questo momento privi di una propria difesa. il castello di lettere sebbene non integro, conserva gran parte degli elementi della fortificazione. La sua veste attuale mostra principalmente le modifiche apportate durante la fase militare angioina. fu costruito sulla roccia sul punto più alto e sopraelevato. Mantiene due delle tre cortine della cinta muraria di forma poligonale. Un mastio e due torri fanno da cerniere negli angoli della cinta; una quarta torre interrompe la cortina sud, mentre di una quinta rimangono solo le tracce del basamento, adiacenti alla porta a saracinesca, un ingresso molto eroso, con labili tracce dell’incavo sui pilastri laterali,unico residua della perduta cortina nord-est. analizzando queste strutture murarie si sono potute individuare cinque fasi di costruzione. La prima fase riguarda la dominazione amalfitana, databile al X secolo, quando venne costruita la parte bassa del muro di cinta con merli a sagoma diritta e saettiere visibili ancora oggi nella cortina sud. l’accesso al castello avveniva da una porta-torre inglobata successivamente nella torre centrale della cortina Sud, un accesso controllato che consentiva di bloccare visite non gradite. La porta era posta sotto il tiro degli arcieri, sistemati sul corridoio superiore dietro la linea dei merli.
La fase successiva è ascrivibile all’età normanna, databile agli anni della occupazione di re Ruggero II (1131) che conquistò il territorio espugnandolo faticosamente castello per castello. Ai normanni si deve la sopraelevazione della cortina muraria con una nuova merlatura e la costruzione di una porta all’interno della muratura sud, provvista in alto di ponte levatoio, con relativa chiusura del precedente ingresso. Oltre ai lavori al castello ai normanni si deve anche la costruzione della adiacente cattedrale romanica, con decorazione policroma in tufo giallo verde. Una decorazione simile era presente anche sulla cortina sud del castello, dove si rilevano piccole cornici tufacee che probabilmente si legavano alla bella decorazione presente nella successiva torre campanaria e nel muro sud della cattedrale. s’ipotizza infatti l’esistenza di un muro tra il castello e la cattedrale che spiegherebbe la presenza della piccola porta ancora oggi visibile nell’angolo sud-est del castello; si tratta del passaggio a gomito posto tra la cortina est e la cortina sud tra l’esterno della rocca e il cortile interno del castello. La successiva fase sveva, riconducibile alla presenza a lettere del maresciallo di Federico II, Riccardo Filangieri, feudatario di Lettere a partire dall’anno 1263, è caratterizzata dalla realizzazione del mastio e della torre est, simile nella veste alle torri angolari rompitratta presenti nei castelli federiciani. attualmente sulle strutture murarie non è possibile individuare elementi significativi del periodo svevo in quanto le due torri sono state fortemente modificate durante la successiva fase angioina, databile tra XIII e XV secolo. Il mastio e la torre est sono stati originariamente realizzati con mattoncini in tufo rosso. il primo si caratterizza per la presenza di numerosi apparecchi difensivi, diversamente della torre est che ne è priva. Il mastio ha ingresso sopraelevato e la parte bassa è divisa a fascioni. in alto il coronamento è a triplice mensola di pietra sagomata analogamente al coronamento del castello angioino di Castellammare di Stabia caratterizzato da quadruplici mensole di piperno in aggetto e dall’archeggiatura su piccole mensole. La fase angioina, di cui abbiamo già visto questi ultimi elementi, si caratterizza per una volontà difensiva più che ornamentale. tutta la collina viene “armata”. fu in questo periodo, infatti, che il castello partecipò attivamente alla guerra del vespro sotto il dominio di Gerberto di Hervilla, fedele milite di Carlo d’Angiò. In questa fase viene aggiunta la torre cilindrica chiamata oggi torre del grano, collocata nell’angolo ovest. A difesa delle porte vennero eretti i due torrini merlati. furono aperte le bucature tonde per i fucili. la parte basamentale dei muri viene rinforzata. All’interno del castello vennero realizzati i corridoi pensili, ovvero i passaggi coperti che mettevano in comunicazione i piani alti delle torri, probabilmente serviti da scale, e gli altri accessi ai camminamenti alti.
L’ultima fase di vita del castello è imputabile alla dominazione aragonese, databile al XVI secolo, quando il castello perse la funzione difensiva e assunse prevalentemente quella residenziale. Le ultime modifiche del maniero si concentrano infatti nella corte interna costruita su una naturale sopraelevazione della roccia nella parte più a nord dell’area. Entrando nella corte dall’ingresso nord si può cogliere la sua articolazione composta da più ambienti. Subito a est si incontra un vasto spazio chiuso con un catino absidale ricavato in spessore di muro sulla parete interna della cortina est e un secondo ambiente voltato, forse entrambi pertinenti ad una cappella. Di qui si possono vedere in tutto il cortile numerosi muretti, bassi e di limitata lunghezza. Si tratta di lacerti di muri dal perimetro irregolare che componevano più ambienti. L’area ovest è occupata dalla torre ovest; al primo piano del torrione sono stati ricavati un lavatoio in muratura e alcune vasche. Al piano terra sono stati realizzati un corridoio di servizio con accesso agli apparecchi difensivi delle torri ovest ed est e tre ambienti cisterne, con un’apertura circolare sul piano superiore e rivestimento interno in malta idraulica. Oltre a queste interne altre vasche sono visibili all’esterno e all’interno alla struttura. A sud rimangono sette ambienti, lunghi e stretti su base rettangolare, caratterizzati da coperture voltate di cui sono visibili i pennacchi di archi acuti e due volte a botte sulla parete. Due ambienti sono visibili più a est in successione: in parete rimangono le tracce di due volte a botte ribassata, mentre al piano terra si aprono due locali ciechi coperti da volte a botte ribassata ricavati in spessore di muro. con la fase aragonese il castello vive ancora un momento di splendore. Esso conservava infatti ancora un aspetto imponente come si ricava dalla lettura dell’atto di vendita del castrum litterensis databile al 1529, quando fu acquistato da Isabella De Crapona. la descrizione recita: “la città tiene un muy lindo y fuerte castillo cum quattro turrionesy una grande torre maestra, tiene tre puertes con puentes levadizos y està en alta della ciudad en gentil lugar”. Dopo questo ultimo fiorente periodo il castello iniziò una lunga fase di declino e non fu più adeguato alle nuove tecniche militari giungendo lentamente allo stato di abbandono e infine ai moderni restauri che l’hanno riportato, in parte, al suo originario splendore».
http://www.comune.lettere.na.it/mm/mm_p_dettaglio.php?idmonumento=1&x=a0b457e38aa9a2eefd898e416f3fcebd (a cura di Emanuela Pettinelli)
Licignano (palazzo Salerno-Lancelotti di Durazzo)
«Il palazzo, nonostante le manomissioni e le condizioni di degrado, caratterizza fortemente la zona ergendosi come sfondo alla strada XXV luglio. Il palazzo fu residenza dei Baroni dell’antico casale di Licignano, feudo che nei primi anni del cinquecento era pertinenza della città di Acerra, e nel 1534 fu venduto da Ferdinando de Cardenas, conte di Acerra, a Bartolomeo Rendena. L’atto notarile del 1637, rileva l’esistenza di un “castrum o fortellittio”, “una grande casa con giardino” eretta sotto la signoria di Giovanni Battista Rendena che si articolava intorno ad una corte murata. L’edificio fondeva le funzioni di azienda agricola e residenza nobiliare con giardino. La decadenza della baronia dei Rendena alla fine del seicento comportò il graduale decadimento della “grande casa”. Nella seconda metà del secolo successivo il feudo fu rilevato dai Salerno e, ad opera di Gennaro Maria, si conferì nuovo splendore al complesso edilizio, con un radicale intervento di riedificazione che vide anche la riqualificazione e valorizzazione dei suoi possedimenti in questo luogo. Il progetto, iniziato nel 1774 dall’ingegnere Salvatore Lanzetta, pur mantenendo l’impianto planimetrico originario, trasformò la seicentesca masseria in un elegante palazzo. La baronia passò agli Anfora e il 17 aprile 1920 il palazzo baronale fu acquistato da Carmine Lancellotti. Nel giardino retrostante si edificò, una piccola dependance, testimone degli ultimi periodi di splendore del palazzo che nel novecento subì lo scempio di numerose manomissioni che ne hanno in parte snaturato il prospetto principale. Descrizione Il palazzo dei Baroni di Licignano conserva l’impianto originario a corte aperta, delineandosi su tre lati, intorno ad un cortile murato che si apre su un ampio giardino retrostante ove è collocata la dependance. La rigidità dell’impianto è ingentilita da elementi architettonici barocchi quali la scala, i fregi delle bucature di facciata marcati da timpani triangolari e l’elegante portale di piperno bugnato. Un alto androne immette nel cortile anticipato da un vestibolo voltato a vela da cui si accede alla scala. Il fronte principale, in parte manomesso nei secoli, è caratterizzato dall’artistico portale in piperno, che non rispetta l’asse di simmetria. Presenta un alto piano terra, composto da un terraneo ed un ammezzato, il piano nobile, che alterna balconi e finestre decorate con stucchi, e il sottotetto che in parte conserva le antiche bucature ovali. La facciata interna mantiene l’originario aspetto formale, molto sobria si alleggerisce al piano terra, svuotandosi con le tre ampie fornici del vestibolo».
http://www.comune.casalnuovo.na.it/mm/mm_p_dettaglio.php?idmonumento=1&x=
«La storia di Torre Sanseverino ha inizio in epoca romana. Il Castrum serviva allo stazionamento delle truppe dirette a Miliscola e la Torre faceva parte della serie di torri dislocate sul litorale per l'avvistamento dei Saraceni e per la comunicazione ottica tramite segnali di fumo. Appartenne poi al duca Di Benevento che nel 1750 lo donò ai monaci benedettini del Monastero di san Severo e san Sossio in Napoli, fieri avversari del governo di Ferdinando IV e tra i fautori della Rivoluzione Partenopea (1799). Al suo ritorno a Napoli, dopo la fuga in Sicilia, Ferdinando bandì i Monaci dal Reame e confiscò tutti i loro beni. Stessa sorte ebbe anche il loro Monastero presso Licola. Con Ferdinando IV il sito divenne riserva di caccia, perché territorialmente legato al Casino Reale di Licola Borgo. Affidato poi dal re al duca di San Teodoro, ambasciatore del regno delle Due Sicilie alla Corte di Spagna, fu venduto da questi al banchiere Filippo Micillo, che lo trasformò in una azienda agricola. Ancora oggi essa rappresenta una delle maggiori realtà produttive della zona, condotta con passione dal pronipote Enrico. Talvolta Torre San Severino apre le porte mettendo a disposizione le sue sale a chi sa apprezzarne la storia e assaporare tutta la magia del luogo» - «...Malgrado i restauri subiti, la masseria conserva l’impianto originario: varcata la porta carraia con volta a botte, si accede alla vasta corte, sulla quale prospetta un casamento a tre piani. Al pianterreno si svolge una successione di archi, in cui si aprono i locali di servizio. Una scala esterna conduce al primo piano, dove sorgevano le celle dei monaci, precedute da una terrazza con pergolato. Presso le celle è visibile l’antico refettorio, lungo più di 50 metri, che fu utilizzato dal re Ferdinando IV e dalla duchessa di S. Teodoro, Teresa Caracciolo, come sala da ballo e da ricevimento. Il secondo piano è un’aggiunta posteriore, come si rileva dall’esame della tessitura muraria sul fronte esterno, nonché dalle fotografie degli anni ‘30. Alla porta carraia è addossata una modesta cappella con il campanile a vela. Di fronte al casamento si eleva una torre di epoca vicereale, con basamento a scarpata e bocche di lupo. Col venir meno delle esigenze difensive, alla fine del ‘700 la torre fu dotata di due portali d’accesso e di una copertura a falde con lucernario, non più esistente. Sul basamento è murata una lapide marmorea, molto rovinata, in cui si legge appena il nome di Ferdinando IV: è presumibile che la lapide riferisse della confisca della masseria ad opera del governo borbonico. I due piani superiori della torre sono crollati per i danni subiti nella seconda guerra mondiale. Infatti l’esercito alleato vi appiccò le fiamme per bruciare le carogne di animali ivi raccolte, onde scongiurare il pericolo di epidemia».
http://www.torresanseverino.it - http://castelliere.blogspot.it/2014/04/il-castello-di-sabato-19-aprile.html
Marano di Napoli (castello Scilla)
«Alcuni studiosi vogliono che intorno all'anno 1275 Carlo d'Angiò, per proteggere la Campania Felix dalle scorrerie dei pirati saraceni, fece edificare due identici castelli distanti tra loro tre miglia e mezzo: il Belvedere, così chiamato per l'amena ubicazione, sorto sul ciglio del cratere di Quarto, ed il castello Scilla a dominio dell'antico casale di Marano. Ma in un registro di Carlo d'Angiò del 1268, dunque pochi decenni prima dell'ipotetica erezione dei castelli, l'attuale città di Marano è denominata “Turris Marane”. Questo toponimo rende forte una tesi alternativa riguardante la nascita delle fortificazioni, che vuole la loro edificazione ad opera di Federico II (tra il 1227 ed il 1229), il quale si adoperò ad affermare la presenza imperiale sul territorio. Per organizzare l'attività edilizia all'interno del regno, l'Imperatore fece redigere nel 1231 lo “Statutum de reparatione castrorum”, ovvero un elenco di castelli e domus solaciorum da ristrutturare, accanto al quale si accostò una parallela attività edilizia ex novo. Carlo d'Angiò provvide sicuramente alla riedificazione del castello Monteleone, avvalendosi dell'ingegno di Pietro de Chaule e Bausolino de Linnays, in seguito ad un incendio divampato al termine della dominazione sveva. Entrambi i castelli furono amministrati dalla famiglia della Marra, originaria di Amalfi, che riscontriamo in varie fonti. Federico II che nominò Angelo della Marra a “visitator generale sopra tutti gli officiali del regno”. Nel XVI sec. il castel Belvedere venne acquisito dalla famiglia Monteleone mentre i Della Marra tennero il castello Scilla sino al 1696, quando la fortezza divenne proprietà di Guglielmo Ruffo di Calabria I Ruffo rimasero padroni sino agli inizi del XIX secolo, periodo nel quale i due castelli furono abbandonati e lasciati all'occupazione contadina. Oggi le strutture sono abitate, frazionate e non curate. Nel corso degli ultimi decenni è andata persa la memoria storica di quei luoghi, che ancora mantengono l'imponenza del passato pur risultando mutilati irrimediabilmente. ...
Nato come baluardo difensivo e predominio dei casali sottostanti, il castello Scilla, dalla sua sommità, domina l'intera vallata (Marano, Mugnano, Calvizzano, Villaricca, Giugliano, Qualiano), estendendo la sua protezione alla popolazione delle aree circostanti, le quali, avendo la certezza di poter disporre di un rifugio sicuro, potevano attendere serenamente allo sviluppo delle attività agricole. Il castello, realizzato con la locale pietra tufacea, oggi presenta una confusa summa di stili architettonici ed ha, più che altro, somiglianza ad un palazzo baronale, ma originariamente doveva essere, come il castel Belvedere, a pianta rettangolare con sei torri di difesa. Fino a pochi secoli fa era dotato di un ampio fossato, riempito nel 1878 in occasione della realizzazione della via Marano-Pianura, ed al lato nord una scoscesa a picco lo rendeva inaccessibile. L'ingresso al maniero, un tempo protetto ai lati da torrette, è rivolto a mezzogiorno ed è ornato da un portale in tufo. La costruzione risulta oggi completamente trasformata per l'uso abitativo. Gli spazi comuni sono divisi in due corti: nella prima, una scala in lapillo immette ai piani superiori, una tempo addetti alle dipendenze interne. Una seconda scala conduce alle segrete, le prigioni del “Tribunale di Campagna”. I locali del pianterreno erano occupati dal corpo di guardia, dalle scuderie, dalle cucine e dalla servitù. Antistante l'ingresso, v'è la cappella a pianta rettangolare, originariamente dedicata a S. Nicola di Bari, oggi intitolata alla Madonna del Castello. Accanto gli spazi religiosi, attraverso una porticina, si accede ai sotterranei (sottostanti il lato nord della fabbrica e la cappella) che ospitavano magazzini e cantine per conservare le derrate agricole provenienti dalle masserie adiacenti. Questi ambienti ipogei sono sorretti da sei archi in tufo. In fondo a questa prima corte, attraverso un arco fornito di camminamento per il servizio di guardia, si accede al secondo cortile nel quale sono ancora oggi visibili tre cisterne per la raccolta delle acque».
http://www.castcampania.it/marano.html
«Il palazzo ducale è la trasformazione di un antico castello-fortezza la cui esistenza è attestata nei documenti almeno dal XII sec. L’immagine attuale è frutto degli interventi successivi, in particolare di quelli voluti dalla famiglia Mastrilli tra il XVII e il XVIII sec. Dell’antica fortezza la costruzione conserva la pianta quadrata con torri angolari, le feritoie ed i ponti sopra il doppio fossato che la circonda, mentre le ampie logge porticate, le eleganti finestre e gli altri elementi decorativi della facciata sono frutto della trasformazione settecentesca della fabbrica militare in dimora gentilizia. Nella torre a nord ovest vi è ancora la barriera daziale con lo stemma marmoreo dei Carafa e la grande bascuglia. Annesso al Palazzo vi è un grande parco in cui si rinvengono ancora le tracce del disegno della sistemazione settecentesca che dovette essere eseguito in base alle più raffinate teorie paesaggistiche dell’epoca, con viali decorati in stile neoclassico, fontane ed un laghetto artificiale. Attualmente l’edificio, molto rimaneggiato negli interni, è sede dell’ordine delle Suore Vincenziane cui venne venduto dai discendenti della famiglia Mastrilli».
http://www.comunemarigliano.it/Citta/HomePageMainFrameCittaCastelloDucale.htm
Marina di Sancio Cattolico (fortezza di Casa Catena o palazzo Merlato)
«La Marina di Sancio Cattolico è il punto di attracco di tutti i traghetti ed aliscafi che giungono da Napoli o da Pozzuoli, ed è da qui che si aprono le principali direttrici stradali che conducono da una parte alla Terra Murata, la zona più alta dell'isola, e dall'altra alla Chiaiolella sul versante Sud-Ovest. Il primo imponente edificio che il visitatore appena giunto sull'isola, anzi ancor prima di sbarcarvi, può ammirare è il Palazzo Merlato. Risalente al XVII secolo conserva della antica struttura solo la singolare merlatura ed una piccola cappella. L'edificio che si ritiene fosse un antico convento ha subito molte trasformazioni, soprattutto nel XIX secolo quando è stato adibito a residenza privata. Dal terrazzo merlato, attraverso un sentiero tra i campi, un tempo si collegava con una torre posta nell'entroterra, l'attuale Palazzo Catena».
http://www.interviu.it/turismo/itinerari/itinerari.htm
Massa Lubrense (resti del castello dell'Annunziata)
«Del castello (XIV-XVII secolo) oggi sono note la torre cilindrica e il bastione/cisterna troncopiramidale che dominano la collina. Sono leggibili almeno altri quattro bastioni che, unitamente alla "muraglia", cingevano la trecentesca Città di Massa. Fu ricostruito nell'assetto attuale dopo l'invasione dei Turchi del 1558. I Massesi non contenti di aversi erette le Torri, le quali formavano una ritirata pronta che i cittadini di ciascun Casale potevano avere in caso di uno sbarco di Turchi su la costa, essi si fabbricarono quella bella Città di Santa Maria, la quale era sicurissima, mentre all’epoca non vi era ancora il cannone. Ma per fatale disgrazia di questa Città si risvegliò una guerra tra Ferdinando I d’Aragona Re di Napoli e Giovanni d’Angiò francese nell’anno 1459; allora Castellamare, Vico e Massa si ribellarono contro il loro legittimo Sovrano e si diedero in mano de’ Francesi. Questa guerra durò quasi due anni, ma nella fine il Re di Napoli cominciò a ricuperare le Città e le terre del Regno ribellate, di cui avevano preso possesso gli Angioini. Ma la Città di Massa non volle sottomettersi al suo legittimo Sovrano, fidandosi al suo Castello che era molto forte e difficile da espugnarsi per la sua altezza; difatti sostenne l’assedio per lo spazio di due anni e si arrese solo perché gli mancò l’acqua e le provvisioni da bocca. Pontano dice che il re Ferrante nella fine dell’anno 1464 aveva già ricuperato tutto il Regno e nello spazio di circa cinque anni, mentre girava per le Provincie onde organizzarle, lasciò la Regina Isabella sua moglie alla testa del Governo, perché era una donna molto savia, prudente, benigna e liberale, questa Regina a’ 20 di Settembre del 1465 emanò un indulto generale a tutti i cittadini di Massa e gli concesse ancora alcune grazie. Ma poi essendo ritornato il Re vittorioso, per tema che la piccola e forte Città di Massa Lubrense in altra circostanza non si fosse di nuovo ribellata, fece intimare a tutti i cittadini di sortire dalla Città con tutti i loro effetti e senza replica: né valsero sottomissioni e preghiere, tutti indistintamente furono costretti di abbandonare piangendo i patrii lari e cercare ricovero altrove. Il Vescovo trasportò gli arredi sacri nella Chiesa della Lobra, ove fissò la sua dimora; il Governatore occupò l’antico palazzo della Regina Giovanna a Quarazzano; ed il resto de’ cittadini si dispersero per i Casali, ma i più ricchi abbandonarono per sempre la loro infelice patria e questa fu una rovina incalcolabile per Massa; mentre perdé in un punto i proprietarii delle terre, il commercio, e si vide sempre più esposta ad un invasione per parte del mare. Abbandonata la Città di Santa Maria, questa fu intieramente demolita e ciò avvenne non senza pianto di tutta questa costiera: i Casali allora si ingrandirono di più».
http://www.massalubrense.it/castello.htm (da Storia di Massa Lubrense di Gennaro Maldacea, 1840, ristampa 1999)
«Sono circa una ventina i baluardi difensivi costruiti in più riprese lungo la fascia costiera che va da Massa Lubrense a Vico Equense e che raccontano la storia di otto secoli (dal IX al XVII secolo) di lotte sostenute dalle popolazioni locali contro le frequenti e cruenti incursioni saracene e corsare. Dal periodo bizantino, infatti, passando per il dominio degli Svevi, degli Angioini, degli Aragonesi e dei viceré spagnoli, gli abitanti della Costiera Sorrentina dovettero difendersi dalle scorrerie dei pirati che, con ferocia inaudita, depredavano i villaggi lasciando dietro di loro una scia rossa di sangue, macerie e prigionia. Alcuni di questi episodi sono rimasti nella storia, come la strage di Conca dei Marini nel 1543, l'attacco subito da Cetara nel 1534, l'invasione turca del 1587 o la storia della nobildonna sorrentina Berardina Donnorso, rapita durante la feroce invasione del 1558 e liberata dopo sette anni di schiavitù, dietro pagamento di un ingente riscatto da parte della famiglia. Si distinguono due tipi di torri di avvistamento costiere: le prime e più antiche hanno forma cilindrica e risalgono all'epoca angioina. Sono alte, sottili, con rare e piccole aperture verso l'alto ed avevano principalmente una funzione di allarme: da qui, infatti, si segnalava alla popolazione il pericolo imminente, attraverso l'accensione di fuochi, così da consentire agli abitanti di trovare riparo nei boschi, nelle grotte o nelle fortificazioni. Con l'intensificarsi delle razzie, nella prima metà del XVI secolo, il viceré di Napoli don Pedro di Toledo ordinò la costruzione lungo tutta la fascia costiera del Viceregno Spagnolo di Napoli di un complesso sistema difensivo costiero - gli editti parlavano di una torre ogni 4000/5000 passi -, costituito da torri più massicce e di forma quadrata (torri di secondo tipo), con spessore della muratura maggiore sul lato esterno. In effetti, a segnare il passaggio dalla forma circolare a quella quadrata fu soprattutto l'avvento dell'artiglieria che comportò necessariamente un cambiamento nella costruzione delle fortificazioni, così da renderle più idonee a sostenerne i colpi. Queste fortificazioni, quindi, avevano sia compiti di avvistamento, segnalazione, rifugio e difesa attiva, attraverso l'uso di armi la cui gittata consentiva di colpire una nave in prossimità della costa. La storia delle torri costiere segue di pari passo l'evoluzione politico-militare del Regno di Napoli: già 30 anni dopo la loro costruzione, molte di esse necessitavano di urgenti lavori di manutenzione o, addirittura, cadevano in rovina. Con la restaurazione borbonica del 1815 la maggior parte delle torri fu disarmata ed adibita ad altri scopi (abitativi, segnalazioni semaforiche o telegrafiche)».
Sulle torri urbane e costiere, cfr. anche http://www.massalubrense.it/torricostiere.htm e http://www.regatatorrisaracene.it...
«Nella parte antica del quartiere Vicaria, emerge l'imponente mole di Castel Capuano, sede dall'età vicereale di organi giudiziari, tra i quali il Tribunale della Vicaria con le annesse carceri. Il castello fu fatto costruire da Guglielmo I il Malo intorno al 1165, su progetto dell'architetto e scultore Buono, di cui non esistono altre notizie certe e fu una delle prime opere compiute dai normanni dopo la conquista del Ducato. La fortezza sorse al limite della pianura a occidente della città – campus Neapolis – nei pressi della via che portava a Nola e dei territori nei quali durante il Ducato, si era profilata la continua minaccia longobarda. Costruito allo sbocco del decumanus maximus del tracciato ortogonale dell'antica Neapolis, Castel Capuano sostituì una fortellezza bizantina collocata a cavallo delle mura a difesa di porta Capuana e divenne sede della massima autorità amministrativa dello Stato. I normanni con la costruzione di Castel Capuano e Castel dell'Ovo posero il controllo nei punti nevralgici di Napoli: l'entroterra e il mare. Sotto Guglielmo il Buono (1166-1189) il castello oltre ad essere un valido presidio militare, assunse anche carattere residenziale. Successivamente Federico II, affidò a Giovanni Pisano il compito di ampliarlo per adibirlo a sua dimora, ma con la venuta degli angioini il castello restaurato ed ingrandito divenne residenza dei sovrani. Secondo il Vasari a quest'epoca risalirebbe la costruzione delle torri, probabilmente quelle riprodotte nella tavola Strozzi (1540), oltre al restauro delle mura e l'abbellimento degli interni, ma sono notizie incerte. Negli anni compresi tra la morte di Carlo I (1285) e l'avvento al trono di suo figlio (1289) si effettuarono importanti lavori nel castello, sotto la direzione dell'architetto francese Pierre de Chaule: oltre le riparazioni della fortezza, che riguardarono il ponte d'ingresso e gli appartamenti interni, fu disposta - «secus via publicam» - la costruzione di una grande scuderia. Durante il regno di Giovanna I si diede particolare importanza alla sistemazione del suolo; all'esterno del castello, nel vasto acquitrino, venne effettuata una sistemazione idraulica con scoline e fossati che conferirono al paesaggio una singolare fisionomia. Con l'avvento della dinastia aragonese, ormai racchiuso nella nuova cinta muraria, il castello perse del tutto il carattere militare per trasformarsi in residenza dei sovrani, teatro di sontuosi banchetti e feste. Fu con il Viceregno spagnolo che le funzioni del castello mutarono nuovamente: infatti il viceré Pedro de Toledo ne fece sede dei Tribunali della città, funzione che ancora oggi in parte conserva.
Nel corso del '500 la fortezza fu completamente trasformata dall'architetto Ferdinando Manlio e rimodernata all'interno per accogliere le corti di giustizia e la Real Camera della Sommaria, mentre i sotterranei venivano adibiti a prigioni. In questa occasione furono abbattute le torri e le logge, rimaneggiati gli interni e colmato il fossato conferendo al complesso l'aspetto di costruzione civile; altri lavori di adattamento degli interni seguono tra il 1543-45. La lapide marmorea posto sotto l'aquila bifronte di Carlo V ricorda il trasferimento dei tribunali nel 1540. Nel ‘700, ai tempi della congiura dei Macchia, il castello fu occupato dal popolo ed in parte deteriorato; Carlo di Borbone lo fece in seguito nuovamente restaurare e rimodernare. Nel periodo borbonico l'edificio fu abbellito con affreschi del Natoli e la Real Camera della Sommaria fu interamente affrescata. Durante alcuni scavi eseguiti presso le fondamenta del castello, sono stati rinvenuti frammenti di iscrizioni lapidee e delle tombe con oggetti di epoca romana. Nel XIX sec. Castel Capuano fu completamente restaurato sotto la direzione dell'architetto Giovanni Riegler. I lavori iniziati nel 1858 comportarono il consolidamento dell'intero edificio ed il rinnovamento della facciata principale trasformando i balconi in finestre, eliminando le arcate del pianterreno ed elevando la torre dov'era l'antica campana; sulla torre fu posto l'orologio e, nel 1861, la croce sabauda sostituì lo stemma dei Borbone. Riegler riportò tutte le finestre allo stesso stile, diede più luce alle celle delle carceri ampliando i vani finestra e decorò il tetto con un bel cornicione che restituiva un carattere “antico”. Per quanto riguarda l'interno, il porticato del cortile fu esteso su tutti e quattro i lati e fu effettuato un restauro di tipo statico degli ambienti; in quest'occasione furono distrutte gran parte delle antiche decorazioni. Nel 1858 venne affidato a Ignazio Perricci in collaborazione con il figurista Biagio Molinaro il restauro dell'ex Camera della Sommaria oggi sala della Corte d'Appello, dove si conservano tutt'ora affreschi settecenteschi. L'artista pugliese ristrutturò la copertura e completò le decorazioni della volta con allegorie della Giustizia. I lavori della sala attigua, la sala del trono, furono limitati all'esecuzione degli ornati della volta. Successivamente i progetti di ristrutturazione e di adattamento del castello furono ripresi nel 1890 ed affidati ad un Comitato tecnico formato dagli architetti Achille Sannita, Alessandro Bottassi e Federico Travaglino. I lavori eseguiti da Alessandro Bottassi sotto la supervisione di Ferdinando Savino, capo dell'Ufficio tecnico del Tribunale, furono parzialmente realizzati fino al 1894 e continuati negli anni successivi sotto il controllo del Genio Civile».
http://www.castcampania.it/i-castelli-di-napoli.html#Capuano (a cura della dott.ssa Laura Genovese)
a cura di Vito Bianchi
Le foto degli amici di Castelli medievali
«Le prime notizie relative a Castel Sant'Elmo risalgono al 1275. Nel 1329 Roberto d'Angiò affida l'incarico del suo ampliamento allo scultore e architetto senese Tino di Camaino che trasforma l'edificio in un vero e proprio palatium per il re e per la corte, a pianta quadrilatera, con due torri; nel 1348 viene definito nei documenti come castrum Sancti Erasmi, per la presenza in quel luogo di una cappella dedicata a Sant'Erasmo. Nel 1456 un terremoto ne provoca il crollo delle torri e di alcune cortine murarie con relativi interventi di restauro a cura degli Aragonesi. Durante il viceregno spagnolo (1504-1707) il castello, chiamato Sant'Ermo e poi Sant'Elmo, forse per la corruzione del nome Erasmo, viene trasformato in fortezza difensiva per volere di Don Pedro de Toledo (viceré dal 1532 al 1553) e il progetto affidato a Pedro Luis Escrivà, ingegnere militare di Valencia. La costruzione dell'edificio nell'attuale configurazione, a pianta stellare, inizia nel 1537 e nel 1538 viene posta sul portale di ingresso l'epigrafe, sormontata dallo stemma di Carlo V con l'aquila bicipite asburgica. Nel 1547 Pietro Prato costruisce la chiesa, distrutta nel 1587 da un fulmine con gli alloggi militari e la palazzina del castellano. Tra il 1599 ed il 1610 il castello è interessato da lavori di restauro, opera di Domenico Fontana, nel cui ambito viene riedificata la chiesa all'interno del piazzale, la dimora del castellano e il ponte levatoio. Dal 1860, allontanatosi l'ultimo presidio borbonico, Castel Sant'Elmo è stato adibito a carcere militare fino al 1952. Successivamente la fortezza è passata al demanio militare fino al 1976, anno in cui ha avuto inizio un imponente intervento di restauro ad opera del Provveditorato alle Opere Pubbliche della Campania. I lavori, durati sette anni, hanno reso possibile il recupero dell'originaria struttura, rendendo visibili gli antichi percorsi, i camminamenti di ronda e gli ambienti sotterranei. Nel 1982 il complesso monumentale è stato dato in consegna alla Soprintendenza per Beni Artistici e Storici di Napoli, che ha proseguito importanti lavori di restauro, recuperando nuovi e moderni spazi espositivi. Solo dagli inizi degli anni Ottanta si può affermare che Castel Sant'Elmo sia entrato a far parte a pieno titolo della vita di Napoli, avendo costituito fino allora l'emergenza monumentale più espressiva, ma anche più estranea alla sua vicenda sociale e culturale. Dapprima cittadella delle truppe, poi carcere militare, l'immenso complesso è rimasto per secoli un corpo sostanzialmente estraneo allo sviluppo civile fino a che è diventato sede d’iniziative espositive e manifestazioni culturali che ne hanno modificato la vocazione e, di conseguenza, il ruolo urbanistico. ...».
http://www.polomusealenapoli.beniculturali.it/museo_se/museo_se2.html
Napoli (castello Aselmeyer o castello Grifeo)
«Su corso Vittorio Emanuele, arroccato sulla collinetta del Vomero fa bella mostra di sé l’eclettico castello Aselmeyer, anche detto castello Grifeo dal nome dei principi di Partanna, un bellissimo palazzo edificato da Lamont Young, un architetto anglo-napoletano responsabile dell’organizzazione architettonica del parco Grifeo, alle spalle di piazza Amedeo… Un complesso residenziale nato alla fine del XIX secolo alla base di villa Floridiana. Il parco con ingresso sul corso Vittorio Emanuele, al centro del quartiere di Chiaia, fu costruito sui possedimenti di una famiglia nobile siciliana, i Grifeo appunto. Assieme a molti villini progettati da architetti sperimentali partenopei c’è il castello Aselmeyer, un edificio privato di stile neo-medievale. Il proprietario della casa era il banchiere Carlo Aselmeyer, mentre l’architetto Young, che avrebbe voluto destinare la costruzione a un albergo per turisti anglosassoni e ricavarci un angolo per la propria residenza privata, si trasferì sull’isola della Gaiola. Nel corso degli anni il castello fu frazionato in più appartamenti. Young volle costruire l’edificio assecondando la propria passione per il gotico inglese e per l’architettura elisabettiana. La costruzione eclettica che presenta archi inglesi, ogivali, torri e diversi elementi sperimentali ed espressionistici. Il castello è rivestito da bugne in pietra, elemento naturale proveniente dal Vesuvio, l’interno è quasi tutto ligneo. L’architetto ha insomma usato solo elementi naturali e legati al territorio. Dopo aver progettato il castello Young fu chiamato per costruire diversi edifici nella città (come villa Ebe), fu anche l’artefice del primo progetto della metropolitana di Napoli. Ma il suo stile fu ferocemente criticato dai napoletani e dagli intellettuali che lo accusarono di non rispettare la tradizione partenopea, di imbrattare con soluzioni kitsch o poco eleganti (all’epoca chiamati pittoreschi) l’ecosistema architettonico della città. Col tempo la costruzione ha però suscitato l’interesse di molti architetti e Young è stato rivalutato. Oggi il complesso del parco Grifeo è seriamente compromesso da una serie di nuove costruzioni totalmente avverse allo stile liberty e neo-gotico degli edifici preesistenti. ...».
http://napoli4u.com/2013/05/04/castello-aselmeyer-l-eclettismo-napoletano
«Il Castello del Carmine, la cui costruzione risale al 1382 per volere di Carlo di Durazzo, serviva a consolidare ad oriente il sistema difensivo della città, fu chiamato "Sperone" per la sua pianta concepita con questa forma. Nato esclusivamente con scopi militari, il castello non fu dotato di alcun elemento sontuoso, ma solo di forti torri cilindriche, di un elevato torrione e di merlate mura perimetrali costituite da robusti blocchi di piperno. Notevolmente ampliato durante il periodo vicereale fu espugnato dal popolo durante la rivolta di Masaniello. Nel periodo 1740-49, con la definizione dei nuovi assi di comunicazione verso i paesi vesuviani ed il rifacimento della zona portuale, fu costruita lungo il litorale napoletano, dal Molo Piccolo al Carmine, la "Strada Nuova" (oggi via Nuova Marina), cosa che implicò l'abbattimento di tutte le mura verso il mare. Nel 1799 il Castello del Carmine, occupato dalle truppe francesi; fu assalito da turbe dei popolari che issarono la bandiera borbonica e lo ricedettero ai francesi solo dopo strenua resistenza; alcuni mesi dopo, con l'arrivo dei sanfedisti del cardinale Ruffo di Calabria, le stesse turbe lo assaltarono nuovamente, cacciando via i Francesi e attuando una feroce vendetta contro i repubblicani napoletani che vi si erano rifugiati. Il Castello fu trasformato immediatamente in carcere e per primi vi furono imprigionati molti dei martiri della repressione della Rivoluzione; l'edificio mantenne la funzione di penitenziario per tutto il periodo borbonico (rimangono ancora le cancellate alle finestre nel tratto aragonese rimasto). Nel 1860 il castello cambiò solo leggermente la sua funzione, diventando carcere militare; da questa data si assiste al suo progressivo smantellamento. Nel 1864 fu demolita la porta del Carmine, unitamente alle torri che la fiancheggiavano, per la decisione del Municipio di operare lavori di ampliamento della sede viaria (attraverso la copertura dei fossati) dell'attuale corso Garibaldi, e per allargare il passaggio tra quest'ultimo e la piazza del Mercato Nel 1906, passato miracolosamente indenne il Risanamento, fu invece quasi completamente abbattuto ancora per far posto al rettilineo di Corso Garibaldi, nonché per essere sostituito dal panificio militare (caserma G. Sani; al suo interno sembra rimangano alcuni resti del castello). L'ultimo intervento, pochi decenni dopo, per l'allargamento della via Nuova Marina, comportarono un ulteriore taglio al chiostro del complesso del Carmine (oltre al panificio) e lo spostamento del Vado del Carmine sullo spartitraffico che divide le corsie della strada, a tener tristemente compagnia alle altre due ultime reliquie del castello oggi rimaste, cioè le torri Brava e Spinella, ormai assolutamente estranee al contesto urbano».
http://www.istitutocomprensivocdm.it/castellocarmine.asp
«Il Forte di Vigliena, di cui sono visibili solo alcuni resti, si trova in Via Marina dei Gigli. La sua costruzione risale agli inizi del XVIII secolo, probabilmente intorno al 1706, per volere dell’allora vicerè Juan Manuel Fernández Pacheco y Zúñiga, marchese di Villena, da cui prese anche il nome. Alto solo 6 metri per evitare i bombardamenti dal mare, fu parzialmente distrutto durante il conflitto tra i sostenitori della Repubblica Partenopea e le forze sanfediste del cardinale Ruffo, avvenuto il 13 giugno 1799. I primi, a difesa della struttura, vistisi accerchiati e impossibilitati a scappare, decisero di far esplodere l’arsenale per causare il maggior numero di danni nelle fila della fazione opposta. Così, la fortezza fu abbandonata finché, nel 1891, grazie all’iniziativa dei parlamentari Imbriani e Villari, fu dichiarata Monumento Nazionale e restaurata. Tuttavia, nel 1906, una parte di essa fu demolita per lasciare spazio al panificio militare. In origine il forte, realizzato in tufo e pietra vesuviana, era di forma pentagonale, circondato da un fossato largo 9 metri e profondo 5, sui cui lati frontali (lunghi circa 36 metri) erano posti i cannoni, a difesa del porto della città, e numerose feritoie dietro le quali si posizionavano i fucilieri. Vi si accedeva attraverso un rivellino triangolare, posto a protezione dell’ingresso, con parapetto e fucileria di guardia. Nel cortile interno, vi erano alcuni ambienti che, oltre a consentire l’accesso al piano di ronda, venivano usati come deposito. Sempre dal cortile, inoltre, era possibile entrare nei bastioni, dotati di tunnel sotterranei per il trasporto di armi e munizioni».
http://www.napoligrafia.it/monumenti/castelli/forteVigliena/forteVigliena01.htm
a cura di Vito Bianchi
Le foto degli amici di Castelli medievali
«Nel VI secolo d. C., mentre imperversava la lotta tra i greco-bizantini e i goti, solo due città erano difese da ottime mura, Napoli e Cuma. Napoli, assediata nel 536 da Belisario, cedette solo con l'inganno; mentre nel 542 venne violata da Totila per fame. Tuttavia né nel primo né nel secondo caso le mura furono militarmente espugnate. Le mura napoletane, com'è riportato in molte fonti storiche, furono famose per la loro potenza anche in epoche precedenti (per esempio in epoca romana le mura di Napoli non cedettero in alcun modo al console Filone). Dunque il loro ottimo assetto geografico e tecnico, acquisito in epoca greca (e ulteriormente accentuato in epoca romana), fece sì che le mura, in epoca bizantina, avessero bisogno di pochissime modifiche. Le modifiche riguardarono per lo più l'allargamento perimetrale, per consentire soprattutto d'inglobare i nuovi quartieri. Le mura furono restaurate sotto Belisario, che inoltre introdusse le torri poligonali (sette tra quadrate ed esagonali) dette augustali e allargate sotto Narsete che espanse le mura meridionali fino al mare, innalzando un antemurale di gran lunga più vicino alla costa (che col passare del tempo si era ampliata conseguentemente al ritirarsi del mare) rispetto alla precedente murazione.
Le mura ducali. Il ducato di Napoli si crea da un relativo affrancamento dall'impero bizantino, man mano sempre più netto ed evidente. Durante il suo periodo, dal VII secolo al 1137 le mura si mostrano molto più estese dell'età antica. Secondo vari documenti dei secoli X e XI ben riassunti da Bartolomeo Capasso in una sua mappa topografica della città altomedievale possiamo descrivere la disposizione di porte e torri: partendo in senso antiorario dal luogo dove sorgerà Castel Capuano, occupato già a quei tempi da una struttura difensiva, si incontrava ovviamente porta Capuana (l'antica Porta Campana, che non era stata ancora traslata nella posizione attuale) attaccata all'antica fortezza, situata presso via Oronzio Costa. Proseguendo c'era porta Pusterla all'altezza del decumano superiore, che verrà detta prima Carbonara perché immetteva nel carbonarius (la discarica cittadina) poi nel XV secolo di Santa Sofia per la presenza della chiesa dedicata alla santa. Salendo più sopra era situata all'altezza di via Luigi Settembrini la turris curtis o torre corte presso cui c'era la porta Pavezia o di San Pietro del Monte (nome antico del monastero di Donnaregina): Camillo Tutini quando parla delle mura e delle porte di Napoli afferma che c'era una porta minore, la porta di San Pietro del Monte perché costruita vicino al convento di San Pietro al Monte (poi chiamato di Donnaregina, che all'epoca conteneva solo la chiesa di Donnaregina vecchia). Talvolta veniva chiamata porta dell'Acquedotto perché era vicina all'acquedotto che riforniva la città, l'acquedotto per mezzo del quale entrarono in città Belisario e Alfonso V d'Aragona. Si parla di una porta con torre (la curtis turris) anche in alcuni documenti relativi al convento di Donnaregina. Sempre il Tutini cita un vicolo di Corte Torre vicino al monastero di Donnaregina. Continuando c'era poi porta San Gennaro ancora nella posizione originale arretrata. Dal lato occidentale c'era l'antica porta Romana, detta ora di Sant'Agnello o Cantelma, all'inizio del decumano superiore, poi quella che era porta Puteolana fu sostituita dalla porta Donnorso verso la fine del X secolo. Questa fu costruita presso il Conservatorio di San Pietro a Majella. Sul nome di questa porta Carlo Celano dà due spiegazioni: la prima perché fu voluta da un certo Orso duca di Napoli (di cui in verità non abbiamo testimonianza nell'elenco dei duchi) oppure per via della nobile famiglia che abitava presso quella porta, propendendo per la prima ipotesi. Forse il duca o chi per lui si chiamava don Orso Tata (in latino Dominus Ursus Tata), da ciò porta Domini Ursitata o Ursitate; quest'ultima denominazione è facilmente traducibile in porta di don (= domini) Orso Tata, con il dittongo ae del genitivo Tatae assorbito in e per corruzione popolare.
Scendendo al decumano inferiore si incontrava porta Cumana. In questo periodo sarebbe stata spostata ad ovest presso l'attuale basilica di Santa Chiara (quest'ultima costruita da Roberto d'Angiò), sebbene non si abbiano documenti in merito a questa collocazione. Le mura dopo aver costeggiato la zona di Donnalbina incontravano la torre Mastra (o maestra) situata dove poi sarebbe sorta Santa Maria La Nova, proseguendo ci si avvicinava al porto Vulpulo (il porto grande, detto in seguito anche dei Pisani) dove si ergeva il cosiddetto castellione novo, una fortezza costruita nel X secolo a difesa del porto, presso la quale sorgeva anche la porta Vulpula (detta in seguito di San Nicola). Le mura si avvicinavano al porto di Arcina (il porto piccolo), protetto da una torre con porta omonima. A Mezzocannone sorgeva ancora la porta Ventosa. Riguardo alle mura della zona c'è molta incertezza se credere o no all'ipotesi del Capasso secondo cui l'odierna via era cinta sui lati dalle mura che dal porto correvano verso l'interno fino alla porta dove riprendevano a scendere verso il mare. Ad ogni modo, il Capasso prosegue indicando una torre detta Cinta dalla quale riparte la muraglia esterna, interrotta dalla porta Calcaria, detta in seguito porta del Caputo (o dei Caputi) che sorgeva presso la chiesa di San Pietro martire. La muraglia meridionale terminava presso la torre Angula, detta così perché le mura rientravano verso l'interno creando appunto un angolo. Prima che le mura girassero verso est presso la torre delle ferule alla regio Balnei Novi, trovavamo la porta nova de illis monachis, cioè dei monaci perché sorgeva presso il monastero di Sant'Arcangelo agli Armieri. Le mura, percorso un tratto orizzontale riscontrabile presso le scomparse piazza della Sellaria e via del Pendino, risalivano di nuovo dopo aver superato la torre Ademaria o torre publica o rocca di Pizzofalcone, altro contrafforte difensivo chiamato così perché ad mare (vicino al mare). L'altro toponimo forse si riferisce alla presenza di falchi nella rocca. La torre sorgeva dove insiste oggi il monastero di Sant'Agostino alla Zecca. Accanto ad essa si apriva la porta di Pizzofalcone, che sarà diroccata da Carlo d'Angiò e sostituita lì vicino dall'arco del Pendino, posto al termine dell'omonima via (oggi non più esistente perché cancellata dalla nuova rete viaria del Risanamento) e demolito nel 1834. Proseguendo in direzione nord-est (lungo via Pietro Colletta, poi la scomparsa strada soprammuro all'Annunziata, poi lungo le tuttora esistenti via Annunziata e via Postica Maddalena) incontravamo un'altra torre, chiamata de illi romani, seguita poco dopo da la porta Furcillensis o dei Cannabari (o del Cannavaro) e infine la porta detta di Don Pietro, presso la zona dei Caserti. Superata questa, le mura si raccordavano con la fortezza di Capuana.
Le mura normanne subiscono una manutenzione notevole, soprattutto per quanto riguarda la parte tecnica; il tutto fu a carico della corona. Il rafforzamento delle mura risulterà molto utile durante le minacce dell'Imperatore Enrico IV, che, alleato coi baroni della Terra del lavoro, cercò di espugnare Napoli; la città non cedette proprio grazie al recente consolidamento del sistema difensivo. La Napoli normanna, che durò circa un cinquantennio, ha lasciato poche testimonianze di sé, soprattutto per quanto riguarda i resti delle mura. Le mura angioine. In epoca angioina furono cospicui gli interventi militari applicati in città: fu necessario rafforzare e restaurare la cinta muraria ed applicare degli interventi di consolidamento ai castelli dell'Ovo e Capuano. La città che fu preferita a Palermo circa il ruolo di capitale del Regno di Sicilia, vide incrementare notevolmente la sua popolazione, pur rimanendo contenuta nella cinta muraria che insisteva sul tracciato di via Carbonara fino a Porta San Gennaro, risalendo poi Caponapoli, scendendo per via Costantinopoli e San Pietro a Maiella, lambendo il Mercatello, giungendo a Piazza del Gesù Nuovo e percorrendo via Monteoliveto fino alla Porta Petruccia. Da qui le mura proseguivano verso la torre maestra, per proseguire fino al borgo di Scalesia, a Sant'Agostino alla Zecca e infine viravano a sinistra per congiungersi sempre con Castel Capuano. Gli Angioini furono gli artefici anche di un importante allargamento delle mura a sud (la cosiddetta junctura civitatis) che inglobò la zona detta campo del moricino (o del muricino), il cui nome deriverebbe dal fatto che si trovava a ridosso delle mura estese in precedenza da Narsete oppure dalla presenza di Saraceni stanziatisi in quella zona. In ogni caso, il campo del Moricino diventò la piazza del Mercato della città. Le mura ora lambivano il mare e cingevano il porto di Arcina, risistemato proprio dagli Angioini. Carlo I d'Angiò eseguì vari interventi sulla cortina muraria: inglobò il borgo del Moricino che si trovava fuori Portanova, facendo partire le nuove mura dalla torre angula fino all'altezza della torre Ademaria e impose le nuove porte del Moricino e del Pendino. Carlo II d'Angiò nel 1268 provvide a spostare la porta Cumana presso l'attuale piazza del Gesù Nuovo, si congettura però il luogo preciso del suo posizionamento. Il re la fece ridecorare e per questo fu ridenominata porta Reale. Inoltre, visto che modificò il tracciato occidentale (fece costruire il bastione in cui sarà implementata port'Alba), tolse porta Donnorso che sorgeva presso il conservatorio di San Pietro a Majella e la sostituì con la porta di Sant'Antoniello, chiamata così perché sorgeva presso il monastero di Sant'Antonio detto popolarmente di Sant'Antoniello. Durante i regni di Roberto d'Angiò e Giovanna I di Napoli fu allungata la cortina sudorientale inglobando il nuovo mercato del Moricino; le nuove mura arrivavano fino al Lavinaio per poi risalire verso nord. Giovanna II di Napoli nel 1425 eresse nuove mura dalla dogana del sale fino al largo delle Corregge (via Medina) che proprio sotto gli angioini fu realizzato e circondato di edifici pubblici e palazzi nobiliari.
Le mura aragonesi. Le costruzioni militari intraprese in epoca aragonese, regalarono alla città un sistema difensivo moderno e di tutto rispetto. Le mura e le torri furono portate più avanti rispetto alle impostazioni antecedenti; nel 1484 Ferrante d'Aragona promosse un ampliamento orientale della cortina difensiva: la città si presentava con un perimetro visibilmente allargato e provvisto di ventidue possenti torri cilindriche: partendo dal forte dello Sperone, al Carmine, proseguiva l'odierno corso Garibaldi combaciandosi con la nuova Porta Capuana (un progetto di Giuliano da Maiano); la cinta continuava ad estendersi sull'attuale via Cesare Rosaroll e circondava a nord San Giovanni a Carbonara; rivolta ad occidente, infine, si delineava a Porta San Gennaro, dunque con le antiche mura. Nel 1499 Federico d'Aragona inglobò nelle mura occidentali il territorio di Santa Marta che avrebbe avuto nel secolo successivo un notevolissimo boom edilizio. Le mura partivano da porta Reale, cingevano il monastero di Monteoliveto e percorrevano via Toledo, che sarà in seguito ottenuta colmando i fossati, fino ad arrivare a Castel Nuovo. Il progetto fu affidato ad Antonio di Giorgio da Settignano e fu compiuto entro il 1501. Porta Petruccia, costruita di fronte la chiesa di San Giuseppe Maggiore, all'inizio del largo delle Corregge nel XIII secolo (qui fu assassinato Andrea d'Isernia) fu così spostata presso i Cavalli di Bronzo, cioè nelle immediate vicinanze di Castel Nuovo. La porta allora fu denominata porta del Castello o di Santo Spirito per la vicinanza al convento di Santo Spirito, oggi non più esistente, che sorgeva presso l'attuale piazza del Plebiscito».
http://it.wikipedia.org/wiki/Mura_di_Napoli#Le_mura_bizantine
Napoli (palazzo Caracciolo di Avellino)
«Fra i vicoli segreti di Napoli un gioiello dell'architettura barocca che vide i Natali di Torquato Tasso, autore della celebre "Gerusalemme Liberata". All’altezza di via Anticaglia nel pieno “Centro Storico” della città di Napoli, vi sono i resti di “Palazzo Avellino”, situato al civico n. 4 dell’omonima piazza. La Famiglia Caracciolo d’Avellino ha origini e ramificazioni molto antiche, anche se le prime attestazioni si riferiscono a don Domizio Caracciolo (1508-† 31-12-1576), primo duca di Atripalda. Il patrizio napoletano, signore di Torchiarolo e governatore degli Abruzzi, volle creare un sontuoso palazzo nel pieno contesto della Napoli urbana. Nel luogo dove poi si svilupperanno le stanze di Palazzo Caracciolo già sorgeva l’antico Monastero di San Potito, abitato dalle Monache Benedettine. Il giovane Torquato visse solo quattro anni nel Palazzo Caracciolo di Avellino in quanto, negli anni successivi, trovò soggiorno in altri luoghi di Napoli. Il Palazzo sorse su edifici preesistenti. Nel corso del Cinquecento fu deciso che fosse assegnata a Porzia de Rossi, madre del Tasso, una dote di cinquemila scudi. Nacque, così una vertenza legale che durò quasi sino alla data della morte del poeta. Con questa sentenza si stabilì che il poeta, rinunciando ai suoi diritti, avrebbe percepito una rendita di cento scudi l’anno. Purtroppo il Tasso non incamerò mai questa cifra in quanto morì prima della data stabilita. Negli anni 1526-1616 il Palazzo fu ingrandito incorporandovi anche una ricca pinacoteca. Al termine dei lavori di restauro, Camillo Caracciolo fece realizzare una lapide posta nell’androne settentrionale del Palazzo, dove il Principe, dopo l’attività bellica prestata al seguito dei re spagnoli Filippo II e Filippo III, abbellì “l’avita dimora”. Il Palazzo Caracciolo di Avellino, dopo un periodo di abbandono, è stato in parte ristrutturato e, poiché oggi è abitato da un condominio, difficilmente conserva le tracce delle sue fasi storiche e anche dei presunti “restauri”. Della lapide che indicava il Tasso tra quanti vi avevano soggiornato (posta dal Comune il 22 aprile del 1895) vi è una indecifrabile traccia sulla facciata della Piazzetta».
http://archeologo.over-blog.it/article-casa-torquato-tasso-napoli-85923521.html
Napoli (palazzo Carafa di Roccella)
«Collocato nel borgo di Chiaja, al di fuori delle mura cittadine (in corrispondenza dell'attuale via dei Mille), questo palazzo esisteva già nel Seicento, quando era poco più di una masseria di campagna. Nel 1667, proprietario ne era Francesco di Sangro, principe di San Severo, che lo donò come dote al proprio genero, Don Giuseppe Carafa; nel 1717, venne poi venduto alla famiglia di Vincenzo Maria Carafa, principe di Roccella. La moglie ne affidò la ristrutturazione all'architetto Vecchione - di scuola vanvitelliana -, che trasformò l'edificio e le sue dipendenze in un vero e proprio palazzo residenziale; i lavori durarono dal 1755 al 1765, e la facciata fu ridisegnata secondo criteri di simmetria intorno all'ingresso principale, affiancato da due costruzioni laterali destinate a botteghe; in quest'epoca, i Carafa lo utilizzavano come residenza di campagna, mentre loro residenza principale rimaneva quella nell'attuale via Benedetto Croce. Negli anni successivi fu completato il secondo piano e iniziato il terzo, ma l'assetto definitivo (tre piani con attico, atrio scoperto, giardino retrostante con patio) fu raggiunto solo sul finire dell' Ottocento. A quell'epoca, il palazzo -oltre quarantacinque stanze- era una residenza sfarzosa, arredata sontuosamente e ricca di dipinti di pregio. Nel 1885 l'apertura di via dei Mille tagliò in due la tenuta, richiedendo l'abbattimento di alcuni locali e isolando gli edifici minori e le botteghe in affitto che si trovavano dall'altra parte della strada. In quegli anni la proprietà passò dagli eredi dei Carafa al barone Giuseppe Treves. Anche la maggior parte dei giardini furono sacrificati, intorno alla metà del '900, per lasciar posto alla crescente urbanizzazione di Chiaia. Negli anni '60 furono fortissime le pressioni per abbattere l'edificio e utilizzare l'area per l'ennesima speculazione edilizia; fortunatamente ciò non avvenne, anche se l'incuria e la razzia degli stucchi e degli altri elementi architettonici di pregio lo ridussero in stato d'abbandono. Nel 1984 il Comune di Napoli ne acquisisce la proprietà, avviando qualche anno dopo una difficile, lunga e costosa opera di restauro, ostacolata per anni da pastoie burocratiche, ritardi nei finanziamenti, problemi statici e pratiche di esproprio dei negozi al pian terreno. Contemporaneamente, ne stabilisce la destinazione d'uso a Centro di Documentazione per le Arti Contemporanee. Solo nel 2004 si conclude l'intervento di restauro conservativo e di adeguamento antisismico e funzionale della struttura, che diviene sede del PAN (Palazzo delle Arti di Napoli), inaugurato il 26 marzo 2005 e sede - nei suoi 6.000 metri quadrati - di esposizioni artistiche permanenti e temporanee, conferenze e incontri sulle tematiche dell'arte e della cultura contemporanea».
http://www.danpiz.net/napoli/monumenti/PalazzoRoccella.htm
Napoli (palazzo Cicinelli o di Filippo d'Angiò o dell'imperatore di Costantinopoli)
«Il Palazzo Filippo di Valois o anche dell'Imperatore di Costantinopoli e successivamente Palazzo Cicinelli, è un palazzo nobiliare, ubicato in via Tribunali, nei pressi di piazza San Gaetano. Fu eretto in forme gotiche come abitazione di Filippo d'Angiò, duca di Taranto e Imperatore di Costantinopoli; egli accorpò ed in parte ricostruì più corpi di fabbrica preesistenti con la creazione di una serie di portici gotici, la datazione risale al 1360 circa. Probabilmente l’edificio fu fatto sorgere su vestigia preesistenti di epoca normanna con influenze bizantine. In seguito il palazzo passo ai Cicinielli, che lo restaurarono dotando i portici di arcate a tutto sesto e ridecorandolo in chiave barocca, come peraltro si nota dalle finestre. Dell'antico complesso, rimangono superstiti la struttura del porticato e il portone centrale di età ducale; sulla sinistra, in alto, è presente un affresco del Trecento raffigurante la Vergine Maria. Nel cortile è collocato un bassorilievo marmoreo con lo stemma della famiglia raffigurante un'anatra e tre gigli. I portici del palazzo durante il regno di Alfonso d’Aragona ospitarono la nascente Accademia Pontaniana, chiamata Porticus Antonianus, in quanto le riunioni erano presiedute da Antonio Beccadelli detto il Panormita. Il letterato si trasferì da Bologna a Napoli dietro invito di Alfonso d’Aragona, che amava avere presso la sua corte letterati ed umanisti. Intorno all’Accademia si riunirono gli intellettuali di spicco come Pietro Aretino, Antonio Casarino, Tristano Caracciolo e Giovanni Pontano. Fu affidato a quest’ultimo la direzione dell’Accademia il cui nome mutò da Porticus Antonianus in Accademia Pontaniana. Il Pontano riunì intorno ai tavoli di studio I maggiori esponenti dell’umanesimo. Alla morte del Pontano nel 1503 la direzione dell’accademia passò a Jacopo Sannazzaro. L’accademia si trasformò nel 1808 in Società Pontaniana sotto la direzione di Vincenzo Cuoco e nel 1817 ottenne un riconoscimento da parte del re. Oggi è tornata ad essere Accademia».
http://www.tribunapoli.com/storia_palazzo.html
Napoli (palazzo del Panormita)
«Questo palazzo è situato nella parte meridionale di Via Nilo, in angolo con il piccolo largo, lungo Via San Biagio dei Librai, dove spicca il monumento al Fiume Nilo, comunemente noto come "il corpo di Napoli". La strada, oggi "Via" Nilo, si chiamava Vico del Nilo e prima ancora vico dei Bisi, non tanto per la famiglia che vi avrebbe abitato, piuttosto per l’espressione corrotta napoletana ‘mpsi (impiccati) dovuta al fatto che per questa strada, provenendo dalle carceri della Vicaria, vi venivano fatti transitare i condannati a morte per impiccagione per essere condotti al patibolo. Al numero civico 26 sorge dunque il rinascimentale Palazzo di Antonio Beccatelli, detto il Panormita. Il fabbricato passa quasi inosservato perché "soffocato" da edifici seicenteschi e poco mostra del suo antico splendore ma ancora conserva quei caratteri originari che ne avrebbero fatto il prototipo della nuova architettura del primo Rinascimento napoletano. L’origine della fondazione non è del tutto accertata anche se forte è l’attribuzione a Giovan Filippo de Adinolfo, architetto di cava de’ Tirreni che l’avrebbe lasciato incompiuto alla sua morte nel 1483. Il Panormita era già morto nel 1471 e si presume che abbia vissuto in questo palazzo già prima del 1450, data in cui era ambasciatore a Venezia. Altre fonti accreditano l’architetto Giovanni Donadio, detto il Mormanno (1450-1526) come realizzatore dei successivi lavori fatti eseguire dagli eredi del Beccadelli poco dopo la sua morte ma anche in questo caso c’è incertezza perché altri storici attribuiscono queste opere a Giovan Francesco de Palma (1507-1572), anch’egli detto il Mormanno (o Mormando) e che del Donadio era il genero. Struttura architettonica L’edificio, per quanto riguarda la facciata, si presenta composto da due quadrati che, avendo un lato in comune, formano un rettangolo dove al travertino di piperno, si alterna l’opus reticulatum. Il Palazzo presenta tre ordini di finestre: ad arco nell’ammezzato e nel secondo piano; rettangolari al primo piano e sormontate da cornici al piano nobile. Il portale, di epoca successiva, presenta un arco a tutto sesto che poggia su capitelli corinzi ed è collegato all’arco interno che si apre sul cortile, da due fasce in pietra in continuazione della trabeazione. L’arco interno poggia su pilastri con capitelli ionici. Quest’arco (secondo Roberto Pane) è riferibile al Mormando (Giovan Francesco de Palma), mentre la facciata e gli ambienti dei diversi piani, conservano l’originaria struttura voluta dall’Adinolfo ai tempi del Panormita. Intorno alla metà del XVII secolo, il palazzo fu venduto dagli eredi del Panormita al reggente del Tribunale della Vicaria, Giacomo Capece Galeota, duca di Regina che vi fece eseguire opere di ammodernamento senza però alterarne la struttura originaria. Il nuovo proprietario fece affrescare la volta dell’atrio con lo stemma e le armi della sua famiglia e di quelli della moglie Cornelia Caracciolo dei marchesi di Barisciano».
http://www.corpodinapoli.it/ospitalita/monumenti/percorsi/04/panormita.html
Napoli (palazzo Diomede Carafa)
«Palazzo Diomede Carafa è un palazzo storico di Napoli, situato lungo il Decumano Inferiore (Spaccanapoli), risalente al XV secolo. Palazzo Carafa era di proprietà della omonima famiglia, famosa per potenza e ricchezza, e per aver nel corso dei secoli riempito la città di palazzi appartenenti alle sue ramificazioni. Fu proprietario di tale palazzo uno dei più illustri uomini della famiglia, Diomede Carafa, letterato, uomo politico e uomo di corte fidato degli Aragonesi. Sito lungo San Biagio dei Libai, che fu un tempo la sede del commercio librario napoletano, rappresenta insieme al Palazzo Cuomo, Palazzo Gravina, e Palazzo Penna, uno dei migliori esemplari dell'architettura napoletana del Rinascimento. La facciata del Palazzo, imponente di aspetto, non è valorizzata dalla strettezza di Via San Biagio dei Librai che non permette una visione prospettica. La realizzazione della facciata si crede sia caratteristica di architetti di formazione durazzesca per la presenza di un cornicione ad ogiva, e un arco depresso, lontani dallo stile gotico originario del palazzo. Il Portale marmoreo con le sue forme classiche ricorda lo stile del grande architetto Leon Battista Alberti, ed è arricchito da due battenti in legno intagliati in stile tardogotico raffiguranti nei dodici riquadri le insegne della famiglia Carafa. Sulla cornice del portale ai lati sono invece posti i busti di due imperatori, ed al centro si erge in una nicchia la statua di Ercole, con i ritratti agli spigoli, nell'interno dell'architrave, del conte Diomede Carafa e di sua moglie. Il Palazzo presenta all'interno un cortile caratteristico per la presenza di un calco di una colossale testa di cavallo di origine classica. L'originale, in bronzo, ora è custodito all'interno del Museo Nazionale. Tale testa equina aveva il potere per opera di una magia di Virgilio, secondo leggende e tradizioni popolare, di guarire i cavalli da ogni malattia e per tale motivo, si racconta, fu distrutta dai maniscalchi, mossi dalla profonda avidità ed invidia di guadagni, che fusero il cavallo di bronzo, risparmiando solo la testa, per costruire le campane secondo le richieste della Curia arcivescovile. Vi fu qualcun altro poi che ipotizzò che la scultura fosse opera di Donatello, confermato in parte successivamente anche dal ritrovamento di una lettera di Diomede Carafa, che ringraziava Lorenzo de' Medici per il dono della scultura. Uno studio di Aldo de Rinaldis ne accertò però che si tratta di un'opera romana del III secolo a.C. ...».
http://www.guidanapoli.com/palazzi/palazzo_diomede_carafa.php
Napoli (palazzo Fabrizio Colonna)
«Palazzo Fabrizio Colonna si trova in via Mezzocannone 8. L’edificio venne costruito agli inizi nel XV secolo, per volontà di Artusio Pappacoda, consigliere e siniscalco di re Ladislao, e rimase proprietà della famiglia fino al 1465 quando decisero di fittarlo e, sei anni più tardi, di venderlo definitivamente al conte Orso de Orsinis di Nola. Quest’ultimo si preoccupò di abbellirlo e ingrandirlo con l’acquisto (1473) di alcuni giardini circostanti. Il conte non, sposato con Elisabetta dell’Anguillara, ebbe due figli da una relazione extraconiugale con la cameriera Santa de Patrica, i quali furono comunque riconosciuti legittimi grazie all’intervento del re e di papa Sisto IV. In seguito, la proprietà venne ereditata dal figlio Raimondo che, però, dovette subire la confisca dei beni quando venne a galla la verità sulle sue origini. Così, il palazzo venne affidato e Giulio Orsini, finché nel 1496, con l’arrivo in città di Carlo VII, l’edificio venne restituito ad un erede dei primi proprietari, cioè Troiano Pappacoda. Successivamente, tornati gli aragonesi e re Ferrante II, l’immobile venne affidato a Fabrizio Colonna che eliminò qualsiasi riferimento alla famiglia Orsini. Alla sua morte, i successivi eredi, ovvero il figlio Ascanio e il nipote Marco Antonio, snobbarono l’edificio non abitandovi quasi mai. Infatti, nel 1543 vi abitò addirittura il sultano di Tunisi Muley-Hassen, ospite del vicerè don Pedro de Toledo, e, nel 1612, il palazzo venne acquistato dal consigliere Felice De Gennaro. Nel 1623, il nipote Andrea ereditò il patrimonio di famiglia, ma alla sua morte, questo fu confiscato dal Sacro Regio Consiglio su richiesta dei Creditori. Così, nel 1646 i proprietari divennero alcuni fratelli mercanti, tra cui vi era un certo don Aniello Piscopo. La storia del palazzo prosegue nei secoli senza particolari avvenimenti d’interesse, fino ad arrivare nel XIX secolo, quando lo ritroviamo in possesso in parte della famiglia Mirra e dei discendenti della famiglia Piscopo. Ad esse si aggiunsero le famiglie Ircibelli, del Porto e Carlino che vi rimasero fino al periodo del Risanamento, quando si decise per l’abbattimento della struttura. Di essa rimane solo l’antico portale, compresi gli stemmi della famiglia Colonna, trasferito nella facciata laterale dell’università nel 1920, come ricordato dall’epigrafe posta a ricordo dell’avvenimento e del palazzo ormai scomparso».
http://www.napoligrafia.it/monumenti/palazzi/colonna/colonna01.htm
Napoli (palazzo Filomarino della Rocca)
«La sua fondazione risale all’età angioina. Nel secolo XIV la famiglia Brancaccio volle costruire la propria dimora presso la cittadella monastica di Santa Chiara, che a quel tempo stava particolarmente a cuore al re Roberto e alla regina Sancia. In effetti, la fondazione dell’importante monastero francescano, posto al margine occidentale della città, contribuì ad attrarre l’interesse delle grandi famiglie napoletane per quest’area urbana fino allora periferica. Del palazzo medioevale restano solo i frammenti di due archi lungo le pareti dello scalone, opera di Ferdinando Sanfelice; al principio del XVI secolo, l’edificio fu ricostruito dai nuovi proprietari, i Sanseverino, con l’intervento di Giovan Francesco di Palma, che realizzò il monumentale portico del cortile. Un nuovo intervento di restauro si rese necessario nella seconda metà del Seicento per riparare, o meglio costruire, l’ala superiore dell’edificio, andata distrutta durante la sommossa di Masaniello, quando gli spagnoli, per snidare i rivoltosi asserragliati nell’edificio, lo presero a cannonate. Nel Seicento, i nuovi proprietari, i Filomarino della Rocca, intrapresero ulteriori lavori di trasformazione. A questo nuovo intervento appartiene il bel portale di Ferdinando Sanfelice. Infine, nell’Ottocento fu aggiunto un terzo piano. Nel palazzo visse e morì Benedetto Croce, filosofo e storico napoletano, che qui fondò, nel 1947, l’Istituto Italiano per gli studi storici. Al secondo piano sono conservati 80.000 volumi del Croce e 40.000 volumi dell’Istituto».
http://guide.travelitalia.com/it/guide/napoli/palazzo-filomarino-della-rocca/
«Con la sua armoniosa struttura, Palazzo Reale domina Largo di Palazzo, l’odierna piazza Plebiscito. La costruzione della Reggia fu decisa alla fine del secolo XVI, in previsione di una visita di re Filippo di Spagna, per sostituire il preesistente Palazzo Vecchio, realizzato nella prima metà del ‘500 dagli architetti Ferdinando Maglione e Giovanni Benincasa e decorato da artisti quale Giovanni Tommaso Villani. Il progetto del nuovo Palazzo fu affidato, tra il 1593 ed il 1600, all'architetto Domenico Fontana, «ingegnere maggiore» del Regno, dal vicerè Ferrante Ruiz de Castro y Andrada conte di Lemos. Si iniziò a porre mano ai lavori nel 1600 ed il cantiere rimase aperto per oltre cinquant'anni. Dopo la sua costruzione il Largo si chiamò appunto «di Palazzo» mentre piazza San Ferdinando (oggi Trieste e Trento) era chiamata Largo di Santo Spirito. La nuova Reggia era costituita da tre corpi, quello principale che si affacciava su Largo di Palazzo, quello verso il mare e quello settentrionale rivolto dove ora è il Teatro San Carlo. Il Palazzo fu adibito a residenza dei vicerè che in quell’epoca reggevano il Regno di Napoli per conto del re di Spagna. Durante il successivo periodo dei vicerè austriaci (1713-1734), l'importanza della reggia scemò sensibilmente. Con la riacquistata indipendenza per opera di Carlo di Borbone, il palazzo conobbe finalmente il suo massimo splendore. Il re e la regina Maria Amalia fecero apportare migliorie e il Palazzo fu impreziosito da decorazioni ed affreschi eseguiti dai migliori artisti dell’epoca. Con Ferdinando IV, grandi furono i festeggiamenti il 7 aprile 1768 in occasione delle nozze con Maria Carolina d'Austria. Nel 1778, fu portata a Palazzo Reale la fabbrica napoletana di arazzi, in precedenza dislocata a San Carlo alle Mortelle, che durante i moti della Repubblica Napoletana del 1799 andò distrutta quasi del tutto. Durante il decennio dei Napoleonidi la reggia fu oggetto di cure ed attenzione: gli appartamenti furono arricchiti di mobili e suppellettili francesi, che Carolina Bonaparte aveva portato con sé dall'Eliseo. La sorella di Napoleone fece rivestire il suo appartamento di raso bianco e specchi, e trasformare il «boudoir» e le «toilettes».
Nel corso degli anni, Palazzo Reale fu restaurato ed ampliato più volte. Nel Settecento Luigi Vanvitelli, a seguito di problemi statici, ne modificò il portico chiudendo alternativamente gli archi della facciata per rafforzare le strutture murarie. Nel 1888, dopo l’Unità d’Italia, nelle arcate chiuse verranno collocate le statue dei re di Napoli, da Ruggero II ai Borbone nonché quella di Vittorio Emanuele. L’intervento maggiore fu quello dell’architetto Gaetano Genovese che, dopo l'incendio nel 1837, apportò sostanziali trasformazioni neoclassiche all'edificio, rielaborando lo scalone monumentale, aggiungendo il cortile del Belvedere sul lato meridionale ed il giardino pensile. La mole complessiva dell’edificio aumentò considerevolmente con la realizzazione di corpi di fabbrica ai lati e alle spalle, formando un complesso architettonico abbastanza omogeneo. Dopo l'incendio, i sovrani abitarono al secondo piano, mentre il primo venne usato per le feste e per la «pompa dei baciamani». Tutti gli ambienti e le sale furono decorati dai migliori artisti dell'epoca. Gli stucchi furono eseguiti da Andrea Cariello e Cosimo De Rosa, i saloni modellati da Gennaro Aveta, i soffitti affrescati da Giuseppe Cammarano, Filippo Marsegli, Camillo Guerra e Gennaro Maldarelli, mentre gli stucchi in bianco ed oro furono eseguiti da Costantino Beccalli e Gennaro De Crescenzo. Il secondo piano fu arricchito di suppellettili e dipinti dell'800 fra i quali spiccano i paesaggi di Filippo e Nicola Palizzi e di Consalvo Carelli, e fu destinato, come si è detto, ad appartamento privato dei sovrani. Gli ultimi restauri risalgono al 1994, allorché il Palazzo ospitò i lavori del "vertice" del G7 (i Sette Paesi più industrializzati del Mondo). La facciata e l'esterno conservano la forma originaria, tranne che per i balconi che prima erano isolati e poi furono uniti in un'unica loggia. Al piano terra del Palazzo si aprono tre ingressi. Nell'atrio, presso il bellissimo scalone d'onore secentesco del Picchiatti, rielaborato dal Genovese, vi è una porta in bronzo che proviene dal Maschio Angioino. Tra gli altri ambienti interni più significativi il Salone Centrale, il Salone del Trono ed il Salone d'Erede che, assieme a numerose altre sale dell'Appartamento Reale, costituiscono il Museo dell'appartamento storico di Palazzo Reale. ...».
http://www.ilportaledelsud.org/palazzo_reale.htm (a cura di Alfonso Grasso)
Napoli (reggia di Capodimonte)
«Attuale sede dell'omonimo Museo, la Reggia nasce per volontà di Carlo di Borbone intorno agli anni Trenta del Settecento. Il re borbonico scelse la collina di Capodimonte come riserva intendendo costruirvi una casina di caccia ma affascinato dai progetti di Antonio Canevari pensò invece di destinare il palazzo alla custodia e alla mostra della pregiata collezione Farnese ereditata da sua madre, Elisabetta I. La posa della prima pietra avvenne nel 1738 ma i lavori per l'edificazione del palazzo proseguirono molto a rilento a causa delle difficoltà del trasporto del piperno dalle cave di Pianura. Parallelamente nel 1743 all'interno del bosco fu costruito da Ferdinando Sanfelice l'edificio adibito alla fabbrica di porcellane del tipo Meissen. Bisogna però aspettare vent'anni perché sia aperta una parte della Reggia e vengano sistemate all'interno le collezioni Farnese. I lavori rimasero incompiuti quando il re Carlo lasciò Napoli nel 1759 poiché il suo successore, Ferdinando IV, non se ne interessò particolarmente: unica modifica apportata fu la ritinteggiatura della facciata in occasione delle sue nozze. Nel 1764 fu nominato direttore dei lavori Ferdinando Fuga al quale fu affidato l'incarico di ampliare e terminare definitivamente i lavori sia della Reggia che del Parco circostante, così vasto da essere denominato ancora oggi Bosco di Capodimonte. In quegli anni il Parco della Reggia venne ornato di statue donate dai padri Certosini di San Martino e la collezione museale venne ampliata dalla collezione del duca Giovanni Carafa che rappresentava quanto di meglio offrissero le collezioni private napoletane di quell'epoca. Per consentire il recupero dei numerosi dipinti rovinati dal trasporto da Parma e Roma a Napoli, nel 1787 fu istituito nel Museo un laboratorio di restauro affidato al tedesco Federico Anders. La sorte delle opere conservate nella Reggia di Capodimonte fu però molto travagliata: durante la rivoluzione del 1799, re Ferdinando IV portò con sé nella fuga verso Palermo i pezzi più pregiati delle collezioni ed altrettanto fecero le truppe del generale Championnet. Durante il decennio francese (1806-1815) la Reggia venne arredata per assolvere ad una funzione abitativa più che museale, divenendo residenza di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat. Tra il 1826 e il 1836 venne realizzato lo scalone monumentale che dal Tondo conduce a Capodimonte e nei giardini della Reggia, già ampliati da Giuseppe Bonaparte che amò molto il "Real Sito", vennero edificate la Palazzina dei Principi, dimora dei membri della famiglia reale, una Fagianeria, una Vaccheria, un Casino di caccia e un eremo vicino alle mura di cinta del bosco. Del restaurato periodo borbonico è l'Osservatorio Astronomico, poco distante dal complesso di Capodimonte. Nel 1860, sotto la dinastia dei Savoia, venne costruita una nuova casina, detta di Vittorio Emanuele e il Museo e la sua ingente collezione vennero definitivamente messi a posto con 605 opere di pittura e 95 sculture. La funzione prettamente residenziale della Reggia fu mantenuta fino al 1948 con ultima ospite la Duchessa d'Aosta, per poi divenire, una volta restaurato in seguito ai bombardamenti del conflitto mondiale, definitivamente Museo qual è tuttora. Nel secondo dopoguerra la Reggia di Capodimonte, perduta ogni funzione residenziale, viene concepita in vista dell'esposizione museale delle opere della Collezione Farnese e di numerose altre acquisite, acquistate o ereditate».
http://www.napolimagazine.net/storia-e-monumenti/museo-e-reggia-di-capodimonte/pagina-3.html ss.
«Il Castello di Nisida si trova sull’omonimo isolotto del golfo di Napoli, appartenente amministrativamente alla frazione di Bagnoli. La costruzione dell’edificio risale probabilmente al periodo angioino, quando regnava la Regina Giovanna, nipote di Roberto d’Angiò. Siamo quindi intorno alla seconda metà del XIV secolo, ed è appunto in questo che viene data la realizzazione della Torre di Guardia, adibita a casino di caccia e a residenza della sovrana. Successivamente, nel XVI secolo, il vicerè Don Pedro de Toledo ne ordinò un restauro e un riadattamento per farne uno dei baluardi difensivi della città, soprattutto per contrastare le scorribande del pirata Barbarossa, molto attivo in quel periodo tra la Calabria e Ischia. Più avanti, nel XVII secolo (1626), durante la drammatica epidemia di peste che colpì la capitale del regno, il Vicerè Antonio Álvarez de Toledo decise di adibire il castello a lazzaretto per accogliere i malati. Nel XVIII secolo, invece, sotto il dominio borbonico, l’edificio perse la sua utilità difensiva e fu utilizzato come prigione nella quale venivano rinchiusi criminali e prigionieri politici, mentre con l’arrivo dei Savoia vi furono reclusi gli stessi funzionari dei Borboni. Infine, in tempi più moderni, nel ventennio fascista il penitenziario fu convertito a riformatorio giudiziario, diventando, a partire dal 1934, uno dei pochi Penitenziari Minorili d’Italia».
http://www.napoligrafia.it/monumenti/castelli/castelloNisida/castelloNisida01.htm
«Il primo impianto difensivo fu costruito probabilmente da Guido di Monfort subito dopo aver avuto la concessione della contea di Nola da parte di Carlo d’Angiò, come richiamato nell’affresco conservato nel castello di Lauro. Secondo questa iconografia, nel castello fu ospitato Ladislao di Durazzo nel 1405. Da alcune carte del XV secolo, recentemente pubblicate, si evince che: “La rappresentazione cartografica di Nola mette in evidenza una presenza dell’antico anfiteatro e l’esistenza di un ampio nucleo urbano moderno completamente cinto da mura, sulle quali si apre la porta principale, la Civita, la cittadella fortezza con cinque torri poste a difesa della città”. Partendo da considerazioni sull’impianto complessivo e sulla natura architettonica della torre, il Santoro inserisce questo impianto tra le torri angioine di committenza nobiliare. All’inizio del XV secolo essa fu ridotta d’altezza da Pirro Orsini, per essere adeguata alle nuove esigenze di difesa. In questo periodo fu riorganizzato tutto l’impianto del castello, a cui venne aggiunto il promurale, al quale si accedeva attraverso un ponte levatoio. Da documenti dell’Archivo di Simancas si ha una descrizione sintetica della città e dell’Arce che viene descritta come “castillo dentro la ciudad con sus torres y fossado”. Con la costruzione della cinta muraria di epoca vicereale il sito del castello fu riconfigurato da uno dei bastioni poligonali nei pressi del quale si apriva una delle porte della città, la porta del Carmine, che aveva sostituito la medievale porta Vicanzia. Nel corso dei secoli successivi il castello perse progressivamente la sua funzione originale e per la scarsa manutenzione andò sempre più degradandosi, tanto che nel XIX secolo versava in stato di abbandono, come si evince anche da alcune cartografie e vedute. Verso la fine del XIX secolo, le condizioni della fortificazione erano così degradate che destavano preoccupazione per l’incolumità delle persone e perché rappresentava un luogo poco sicuro per la gente che lo frequentava. Dopo una lunga diatriba che vide opposti i fautori della conservazione e quelli della demolizione, il castello fu fatto demolire dal sindaco Tommaso Vitale al termine di una lunga trattativa con le autorità preposte alla salvaguardia dei monumenti del tempo. Dalla cartografia e dall’iconografia si può riscontrare che il castello aveva un impianto quadrato con quattro torri angolari, a base circolare, ed un’alta torre cilindrica, con base scarpata, posta al centro della fortezza. L’impianto fortificato aveva due porte di accesso identiche e contrapposte: una verso la città e l’altra verso il fossato. L’estensione del castello, calcolata attraverso la ricostruzione grafica su cartografia moderna, risulta di mq 650 circa, con un perimetro di m 120 circa. Tale impianto è altresì testimoniato da alcune vedute e dipinti di epoche diverse che ne illustrano le caratteristiche architettoniche. Inoltre le diverse planimetrie prese in esame ne testimoniano l’estensione e la posizione strategica rispetto alla porta principale di accesso alla città. Complessivamente, l’impianto del castello corrispondeva all’estensione dell’attuale Villa comunale, realizzata agli inizi del XX secolo».
http://www.saperincampania.it/il-castello-di-citt%C3%A0-arce-0 (a cura di Federico Cordella)
«Ripercorrere le vicende storiche e
costruttive delle mura urbane di Nola è impresa estremamente complessa in quanto
esiste scarsa documentazione specifica. La città presenta problematiche
storiche, urbanistiche ed architettoniche solo raramente sono state delineate in
studi complessivi o di dettaglio riferiti a casi specifici e parziali. Evitando
di entrare nelle problematiche relative all’estensione della città antica e
della sua cinta muraria, si passa ad analizzare il problema della eventuale
fortificazione di epoca altomedievale. In riferimento a tale periodo si possono
fare solo vaghe ipotesi sulla presenza e sulla natura delle fortificazioni
esistenti. Sicuramente la città, nel corso del periodo tardoantico, aveva subìto
forti distruzioni e contrazioni dell’abitato anche con delocalizzazioni di
alcune funzioni urbane fondamentali. È in questo quadro che possiamo immaginare
la città antica conservata solamente in alcuni luoghi significativi vicino ai
quali si andavano sviluppando e trasformando alcune istituzioni nuove e
funzionali al successivo assetto urbano. Praticamente l’antica unità urbana si
andò frazionando, formando nuclei più piccoli con specifiche funzioni: Cimitile
assunse un ruolo determinante sotto il profilo religioso, mentre il teatro
dovette divenire, essendo venuta a mancare l’antica murazione, il luogo
fortificato di difesa degli abitanti e tale ruolo potrebbe essere ricollegato al
toponimo Castelrotto, più volte documentato nell’area sud della città. La
trasformazione di strutture classiche in fortificazioni era abbastanza
ricorrente in quanto dinamiche simili sono testimoniate nella vicine città di
Acerra e Suessula, nelle quali il teatro divenne il primo nucleo fortificato poi
trasformatosi in castello. Tale situazione dovette durare fino alla conquista
normanna, quando un ulteriore cambiamento investì il territorio della città di
Nola, con la costruzione del castello di Cicala sull’omonima collina. Questa
fortificazione, notevolmente estesa, dovette assumere un ruolo fondamentale in
rapporto ai vari nuclei abitati consolidatisi all’interno del territorio
dell’antica città di Nola e all’occasione funzionare da luogo di accoglienza per
le popolazioni sparse nel territorio circostante. Tale ruolo è supportato da
numerosi documenti e dalla notevole estensione territoriale su cui la
fortificazione si estendeva. Con la conquista angioina, si costituisce la contea
nolana, assegnata ai de Monfort, per cui è probabile che si costruisca una
fortificazione urbana in alternativa o in concomitanza con le precedenti che
vada a racchiudere quella parte della città antica, ormai completamente
trasformata, che coincide grosso modo con la cinta più ristretta descritta da
Ambrogio Leone. Tale cinta è testimoniata da numerosi documenti d’archivio,
prevalentemente del XIV secolo, che richiamano i diversi toponimi legati alle
porte ed alle torri e ne illustrano anche alcune caratteristiche urbanistiche
che gettano luce sull’organizzazione complessiva in quartieri della città. Con
il passaggio della contea di Nola alla famiglia Orsini, la città crebbe di
importanza e subì notevoli lavori di trasformazione, come testimoniano anche
numerose architetture religiose che ancora si conservano.
In questa prospettiva di continuo cambiamento, è durante le varie vicende
belliche legate alla contesa con i Durazzeschi che furono apportati lavori di
modifica e risistemazione del sito dell’Arce, posizionata su una delle porte
principali, in modo da potenziarne il dispositivo difensivo. Analizzando
semplicemente le descrizioni del Leone e le conseguenti ricostruzioni grafiche,
si può ritenere che, non essendo più adeguata la cinta muraria medievale ai
moderni sistemi d’attacco, e in relazione a quanto si andava realizzando a
Napoli e nel Regno, probabilmente in occasione dei danni causati dalle continue
guerre o dal terremoto del 1456, dovette essere eseguito il circuito che il
Leone definisce antemurale. Le caratteristiche architettoniche e militari di
tale circuito richiamano direttamente alcune parti del Maschio Angioino e
specificamente il settore che va dall’accesso sottolineato dall’Arco di Trionfo
al lato verso piazza Municipio. La stessa cittadella fu dotata di una
antemurale, come documentato dalla descrizione del Leone e dalla ricostruzione
grafica dell’impianto urbano; tale situazione permane anche in epoca successiva,
come riscontrabile da rilievi che raffigurano il bastione sorto nello stesso
luogo in epoca vicereale. Questa situazione delle fortificazioni urbane era
ancora estremamente chiara al tempo in cui Ambrogio Leone (1599) ne fa una
precisa e dettagliata descrizione. Alla luce delle ipotesi e delle verifiche
fatte su base cartografica digitale attuale, si dimostra quindi che tale
descrizione non era soltanto, come da alcuni supposto, un vago ricordo che lo
scrittore raccontava con nostalgia essendo lontano dalla natia Patria. La
situazione urbanistica e le caratteristiche difensive descritte dal Leone sono
altresì confermate, anche se in modo più approssimativo e come immagine
complessiva della città, da altri documenti cartografici ed iconografici
riferibili prevalentemente al XVI secolo. A seguito dei privilegi concessi da
Carlo V e per l’importanza che Nola ricopriva nel contesto territoriale, ed in
funzione dello status di città appartenente al Regio Demanio, cominciò a
delinearsi la necessità di costruire una nuova cinta muraria, in grado di
assolvere alle esigenze legate alla mutata tecnica bellica e che contribuisse
anche a dare un’immagine di potenza e di prestigio, così come stava avvenendo
per le città più importanti del Regno, tra cui Capua e Gaeta. Controversa e
lunga appare la vicenda della costruzione delle mura di Nola. Non sembra ancora
del tutto chiarita l’attribuzione del progetto a P. L. Escrivà ed ancora meno
chiare, per la scarsa conoscenza documentaria, sono le vicende che determinarono
il protrarsi dei lavori per molti anni. ...».
http://www.saperincampania.it/le-mura-urbane-di-nola
«Qualche minuto prima di mezzogiorno del 30 settembre 1943, militari tedeschi in ritirata minarono ed appiccarono il fuoco, con l'intento di distruggerlo completamente, al vetusto Palazzo Orsini di Nola, chiamato anche "Reggia degli Orsini". Ma, pur avendo subito rilevanti danni, il Palazzo, costruito con i blocchi marmorei di templi ed anfiteatri di Nola antica, resistette allo scempio. Infatti, con l'intervento della Sovrintendenza di Napoli, e con l'eliminazione di alcuni muri ed intelaiature, si riuscì, in breve tempo, a consolidare le volte e renderlo statico. Si scoprì allora che tutto il primo piano, nel lato a settentrione, prima delle modifiche che vi erano state apportate, era costituito da un unico maestoso salone, prospiciente la Piazza G. Bruno, con sei finestre sulla facciata, che eguagliava, in altezza, quella della stessa facciata. Apparve a questo punto chiaro che, di conseguenza, i balconi nell'alto della facciata immediatamente sottostanti al cornicione, non avevano fatto parte del progetto originario, ma erano stati aggiunti quando si volle ricavare, dal volume del salone, un doppio piano da utilizzare per uffici o camerate. Un'incisione sotto la nicchia che sormonta il Portale reca: "Ursus Ursino Genere Romanus Dux Ascoli Suane Nole Atripalde Q. Comes Ha Hedes Fecit MCCCLXX", e stabilisce, senza equivoci, il nome del Conte costruttore e l'epoca della costruzione: Orso Orsini, Conte di Nola, che avendo deciso di ampliare la "Reggia", abbatté la precedente costruzione, modesta ed architettonicamente povera, e si diede a costruire un edificio, i cui lati occidentali ed orientali, misuravano circa cinquanta metri di lato. Scavando nelle fondamenta dell'anfiteatro Marmoreo di Nola, furono tolti i massi squadrati di marmo occorrenti, non solo per costruire ed innalzare la facciata principale del palazzo, ma anche per i muri interni dell'edificio. Ma Orso lasciò il lavoro incompiuto, essendo morto nel 1479.
Nel 1500 fu aggiunta una lunga iscrizione esterna (come si legge tuttora sulla facciata) che tradotta dal latino, così recita: "Orso, Alo, i cui Satrapi (avi), provenivano dall'Umbria, fu insigne, giovanetto, nel maneggio delle armi. Divenuto uomo, ricostruì il Campidoglio, completamente distrutto, tenne in onor le leggi; liberò la Repubblica dai Falisci, riportò dall'esilio i Quiristi; ricostruì i ponti, placò la plebe, riconciliò l'Impero diviso, visse 48 anni ed otto giorni. Cosa sacra, Vituria carissima, moglie di Orso Alo, nipote di Cesare Augusto, scrisse versi sulla castità; visse 40 anni, 10 mesi e tre giorni. I loro superstiti, otto figli e sei figlie, per sé e per i loro discendenti, 29 aprile D.M.". Con la caduta degli Orsini, il Palazzo con il Feudo, furono incamerati dal Demanio, e Carlo V, cedette il Palazzo a Donna Francesca Mombel, principessa di Sulmona, a compenso della rinuncia da parte di questa del Ducato di Asti alla Corona Imperiale (1532). Ereditato, poi, da Don Ferrante Lanoj, figlio della Mombel, l'edificio passò a Donna Ippolita Castriota (vedova di Clemente Lanoj), e da quest'ultima venduto a Maria Sanseverino, dei Principi di Bisignano, vedova del Conte Enrico Orsini (1560), che ne fece dono alla Compagnia di Gesù. Espulsi i Gesuiti dal regno nel 1767, in conseguenza di un decreto di Ferdinando IV (I di Borbone), il Palazzo passò al Demanio e, quindi, annesso al Real Conservatorio dei Poveri di Napoli. Più tardi fu adibito a Caserma di Cavalleria e, quando il 2 luglio 1820, scoppiarono i moti di Nola, ospitava il II Reggimento Borbone di Cavalleria. Dopo la prima Guerra Mondiale fu definitivamente destinato a Distretto Militare con il numero 80 (una legge del 1926, aveva ridotto i Distretti Militari a 100). Con la soppressione del Distretto Militare di Nola, il palazzo divenne un deposito di indumenti militari con una sparuta guarnigione di soldati. Negli anni 1980 cessò anche questa funzione, avendo anche bisogno di una radicale ristrutturazione. Dal 1994 è sede del Tribunale di Nola».
http://www.conteanolana.it/uomini%20illustri%20libro%20M-P/Palazzo%20Orsini%20di%20Nola.htm
«All'inizio fu un "castrum" longobardo, un fortilizio destinato al controllo dell'ampia pianura nolana e di una strada fondamentale per il commercio del grano. I Del Tocco, i D'Aquino, gli Orsini, e Fabrizio Maramaldo furono a vario titolo i signori del sito. Maramaldo la vendette ai Gonzaga di Molfetta. Nel 1085 il Palazzo ospitò il Papa Gregorio VII e nel 1304 fu distrutto da Carlo d'Angiò per essere poi ricostruito a partire da 1567 da Bernardetto dè Medici. Nel 1567 i Medici la comprarono per 50.000 ducati da Cesare Gonzaga. Giuseppe I Medici, che fu uno dei personaggi più significativi della Napoli vicereale sul declinare del secolo XVII e del potere spagnolo, avviò la trasformazione della cupa fortezza in un "palazzo di campagna": e qui visse molta parte della sua lunghissima vita. Ma fu Giuseppe II Medici a dare al "palazzo" la forma che ancora oggi possiamo ammirare. Gli allievi del Sanfelice e Luca Vecchione ingentilirono la facciata che dà sulla strada con serie di finestroni ma conservarono alla facciata che dà sul giardino interno la severità e la monumentalità del maniero aragonese. Le numerose stanze, che il principe Giuseppe III Medici ornò di soffitti e di pavimenti in maiolica e di affreschi del Mozzillo, si affacciano su due corti interne, la seconda delle quali era riservata a spettacoli teatrali e musicali. Giuseppe III fece completare anche la scuderia ed impreziosì il giardino con numerose piante esotiche. Alla fine del '700 il Palazzo de' Medici era certamente uno degli edifici più belli e innovativi: le sue forme si inserivano con armonia in un paesaggio, allo stesso tempo, sublime e pittoresco. L'eccezionalità di questa convergenza fu colta magnificamente nello splendido quadro del 1776, in cui I. Volare (o P. Fabris) rappresentano, sullo sfondo della Montagna e del Palazzo, i novelli sposi Sigismondo Chigi e Maria Giovanna de' Medici, che, apprestandosi a partire per Roma, salutano il principe Giuseppe III Medici, fratello della sposa, e la moglie Vincenza dei Caracciolo d'Avellino. Nel 1892, viene ad abitare nel Palazzo, con l'amante del momento, Maria Gravina Cruyllas e con i quattro figli di lei, Gabriele D'Annunzio. Quello che negli anni bui della camorra era diventato il simbolo della prepotenza e del malaffare diventa ora il luogo della legalità, della cultura e dell'amore per l'ambiente. Per opera dell'Amministrazione Comunale di Ottaviano e del Ministero dell'Ambiente, il Palazzo diventa anche sede e centro di ricerca del Parco Nazionale del Vesuvio. Attualmente, gli spazi aperti sono luogo preferito per la realizzazione di manifestazioni ed eventi culturali, artistici e turistici».
http://www.comune.ottaviano.na.it/Comune/PalazzoMediceo/tabid/500/Default.aspx
Palma Campania (castello Compagna o palazzo aragonese)
«è situato nella centralissima via Marconi, a pochi passi dalla piazza centrale del paese. Di origine cinquecentesca, con varie aggiunte nei secoli successivi, fu edificato per volere di Alfonso I d’Aragona, quando il feudo di Palma era di competenza degli Orsini di Nola, come palazzo di delizia per la caccia al falcone. In seguito passò a vari casati napoletani tra cui i Caracciolo ed i Compagna, suoi ultimi proprietari (non a casa è anche chiamato Palazzo Compagna). A causa dello stato di abbandono in cui versava, nel 1914 venne dichiarato monumento nazionale per evitare che venissero perpetrati scempi. Nonostante tutto è stato completamente depredato e sono stati trafugati i medaglioni in terracotta di imitazione robbiana (alcune fonti riportano che fossero del Della Robbia stesso) che ornavano il cortile interno. La bellezza artistica della struttura, sopraelevata rispetto alla strada, è notevole. Si possono ammirare le finestre modanate da una cornice in piperno, chiuse da una solida grata in ferro battuto. Al primo piano i balconi sono alternati alle finestre, mentre all’ultimo l’architettura è incorniciata da finestre ad arco, che ne addolciscono la struttura. Si riconosce sull’edificio la presenza di motivi catalani e rinascimentali. Una doppia rampa originariamente in pietra calcarea, che meriterebbe di essere recuperata, consente l’accesso al portone d’ingresso, sovrastato dallo stemma di marmo, unica testimonianza dell’antico fasto. Al centro dello scudo, sormontato dalla corona, è raffigurato a sbalzo il leone rampante dei Caracciolo, una delle ultime famiglie proprietarie. Negli ultimi anni sono state avanzate varie proposte per valorizzare il monumento. Un’università e un museo le idee principali ma, purtroppo, nulla di tutto ciò è stato realizzato e parte del palazzo è stato inspiegabilmente occupato. All’interno della proprietà sono state, addirittura, costruite delle case private. Oggi a quanto pare la situazione è migliorata e, navigando sui siti web, si può leggere di spettacoli teatrali tenuti nel glorioso palazzo».
http://castelliere.blogspot.it/2012/10/il-castello-di-martedi-2-ottobre.html
Pimonte (resti dei castelli di Pimonte e Pino)
«Castello di Pimonte. Localizzato all’estremità della collina Belvedere, oggi è un rudere del quale è ancora leggibile la pianta di forma quasi rettangolare, con parte della recinzione, aperta nell’angolo sud-Ovest dove era posizionato l’unico ingresso. Della Torre, che occupava l’angolo Sud-Est delle mura, resta ben conservata la parte bassa, dalla quale si evince l’originaria forma tronco-conica. A quest’ultima, che fu probabilmente il nucleo primitivo del fortilizio, si addossano i ruderi del portico del monastero: quattro archi acuti e volte a crociera. Il portico era aperto verso l’ingresso del castello e chiuso sul fondo. I ruderi esistenti mostrano un raro esempio di aggregazione tra una castello medievale ed una struttura monastica. Le prime notizie sul castello risalgono al XIII secolo. Gli storici presumono, dalle ricerche e dalle frammentarie notizie riportate, che in quel luogo vi era una cinta muraria fortificata che serviva per gli alloggiamenti dei soldati impegnati nelle operazioni difensive; nell’area, il ducato di Amalfi aveva già antecedentemente realizzato i Castelli-Villaggi nei territori di Gragnano, Lettere e Pino. Le motivazioni alla base della scelta del luogo furono: la posizione doveva essere dominante e soprattutto il castello doveva essere collegato visivamente con gli altri del territorio. La costruzione essendo sprovvista dei necessari mezzi atti a sostenere gli attacchi con le artiglierie d’assedio, fu, già dal XVI secolo, destinato ad altri usi. I monaci agostiniani edificarono all’interno della cinta il loro monastero, edificando un secondo muro di recinzione ed utilizzando in parte le strutture esistenti, come la torre del fortilizio dalle probabili funzioni di avvistamento, che divenne torre campanaria. I padri Domenicani ai avvicendarono agli agostiniani sin dal 1566 e vi restarono per quasi un secolo, fino a quando Papa Innocenzo X, soppresse il convento nel 1652.
Castello di Pino. Nell’antica località ove sorgeva il Castello di Pino di cui si scorgono i ruderi di muretti a secco e terrazzamenti che si trovavano negli orti e nei poderi coltivati a vigneto come si evince da documenti risalenti all’epoca medievale. La struttura difensiva si componeva di una possente cinta muraria che proteggeva il nucleo abitato, di un fortilizio e annesso torrione. Le basse mura che scorgiamo sono quelle che, sia per la posizione addossata al pendio che per la fitta vegetazione che le ha in parte coperte si sono meglio conservate. Emergono, all’interno di quel che rimane del circuito murario, i resti di una possente muratura: il torrione, quello che intravediamo è l’angolo occidentale e parte del basamento perimetrale. Interessanti sono i resti di mura che individuano ambienti, cisterne e tratti di pavimento realizzato in cocciopesto. La fondazione del castello di Pino, come si evince da un documento del XVII secolo, risale al 949 da parte del ducato Amalfitano che aveva esteso il suo territorio fino al versante Est dei Monti Lattari. Fu edificato isolato su una collina a circa 570 mt. s.l.lm., sull’antica strada dal valico Pini-Agerola. La costruzione continuò ad assolvere la sua funzione strategica anche dopo il periodo amalfitano; documenti risalenti all’epoca sveva, datati tra il 1241 e il 1245, riportano di un intervento di riparazione del Castello. Il periodo angioino fu determinante per la vita del castello-villaggio, infatti, con lo spostamento del centro politico ed economico verso Castellammare, l’abitato andò in crisi e molte famiglie lo abbandonarono per spostarsi nei centri vicini. Nel XV secolo, Pino era disabitato ma le sue tre chiese ancora officiavano. Oggi restano i ruderi del castello-villaggio».
http://sit.provincia.napoli.it/museodiffuso/mdb2Viewurba.asp?key=5101&searchval=&tipo=urba - key=5102
Pomigliano d'Arco (Casotto Mocerino, già palazzo baronale)
«Il Palazzo Baronale, ubicato alla sinistra del Municipio, nell'omonima piazza, è detto anche Casotto Mocerino, dal nome dei proprietari. Il palazzo è stato costruito tra la fine del 1600 e l'inizio del 1700, nel luogo dove in precedenza sorgeva il castello. L'edificio, per il quale è stato approntato un progetto di recupero e di restauro, possiede un'articolata organizzazione dei volumi: la sua pianta trapezoidale, organizzata intorno ad un androne baricentrico, occupa una superficie compresa fra due strade (via Guadagni e via Libertà) che convergono in piazza Municipio, su cui si prospetta la facciata principale. Sul retro della costruzione si estende una vasta corte, mentre sulla destra, ad angolo fra la piazza e via Libertà, si erge una elegante e slanciata torre cilindrica, leggermente rastremata nella zona basamentale e terminante al vertice con un cornicione dal disegno piuttosto sobrio. L'immobile, che presenta un'altezza massima di circa 13 metri, sorge su di un'area pianeggiante e si articola su tre livelli: il pianterreno, anticamente adibito a scuderia, ospita attività commerciali tuttora funzionanti; il primo piano è organizzato in due appartamenti serviti dalla scala principale; il secondo piano è articolato in una serie di pregevoli terrazzi. Il palazzo, inoltre, si caratterizza per la presenza di finestre e balconi incorniciati da gentili profili e sovrastati da finestrelle sottotetto».
http://www.cittadelfare.it/palazzi/pomigliano2.htm
Pomigliano d'Arco (torre dell'Orologio)
«La biblioteca comunale è ubicata nella struttura polifunzione della Torre dell’Orologio. Originariamente, la costruzione di tale edificio, iniziata intorno al XVIII secolo, prevedeva la realizzazione della Chiesa di San Rocco, invocato contro le pestilenze e protettore dei pellegrini. ... Nel 1844 la chiesa fu sopraelevata a mo’ di torre e vi fu posto l’orologio pubblico, asportato dalla facciata della vicina chiesa di San Felice in Pincis, spendendo per la macchina 1450 ducati e altri 700 ducati per la scala in fabbrica. Il progetto fu affidato all’architetto Tommaso Sarto, sostituito nel 1846 dall’architetto Achille Catalano mentre i lavori furono commissionati all’appaltatore Giuseppe Malfitano; ma poiché il meccanismo del vecchio orologio versava in cattive condizioni, nel 1846 si preferì utilizzarne uno nuovo che Nicola Romano acquistò dall’orologiaio Giuseppe Escoffier per 450 ducati. La torre con la sua svettante mole si configura come uno degli edifici più rappresentativi della Città di Pomigliano. Lo slancio dell’attuale edificio verso l’alto è equilibrato dalla suddivisione orizzontale in tre ordini: quello inferiore è a bugnato gentile, interrotto soltanto dal portale con l’elegante cornice in piperno e dal balcone pensile sovrastato dalla cornice marcapiano, il cui aggetto pronunciato crea un accentuato plasticismo chiaroscurale. La fascia intermedia è caratterizzata dalla meridiana solare, il cui liscio quadrante, contornato da una cornice profilata, si staglia al centro del bugnato. La parte superiore è certamente la più elegante e aggraziata fra le tre; essa si eleva su una seconda cornice marcapiano, affiancata da due volute di gusto tardo roccocò che costituiscono l’elemento di raccordo tra la cornice sottostante e le due lesene angolari che la ornano. Al centro si staglia un grande orologio circolare, incastonato in una spessa cornice e messo in risalto dalla superficie perfettamente liscia del piano d’appoggio. Tutta la costruzione termina con una trabeazione sormontata da altre due piccole volute, che affiancano la struttura in ferro battuto, sostegno delle due piccole campane.
La Torre, nella parte corrispondente all’antica chiesa, si presenta su due livelli con pianta rettangolare e ambienti voltati a botte. L’accesso alla chiesa coincide con l’attuale portale su Corso Vittorio Emanuele, costituendo la testata d’angolo tra le vie Napoli e Borgo Pacciano. Oggi il piano terra ospita un’Aula Magna e presenta una copertura piana in cemento e travi in acciaio; possiede una configurazione longitudinale data dalla successione di quattro campate separate da archi a sesto ribassato, superstiti delle antiche mura perimetrali. Il piano superiore dell’originaria chiesa attualmente ospita l’aula consultazione e di lettura della biblioteca. Dell’originaria aula liturgica sopravvive la copertura con volte a botte, scandita in tre ampie campate mediante archi a sesto ribassato. La volta è decorata con cornici modanate in stucco; la campata centrale presenta sulle pareti due archi a sesto ribassato ciechi, in corrispondenza dei quali si aprono sulla volta due lunette ad unghia. Sulla parete di fondo è presente una finestra per l’accesso ad un piccolo balcone che affaccia sulla piazza antistante, probabilmente l’originaria apertura decorativa presente sul portale della chiesa. Attualmente l’edificio è sede della Biblioteca Comunale, di corsi universitari, di corsi di formazione professionale, insieme a corsi di alfabetizzazione informatica e di lingue straniere, seminari, convegni e congressi».
http://www.bibliotecapomiglianodarco.na.it/index.php?option=com_content&view=article&id=11
«è di certo l'edificio più antico di Portici, appartenuto prima ai principi di Stigliano Colonna, poi a Casa Mari, quindi alla famiglia Capuano ed infine alla famiglia Materi. Situato in Piazza S. Ciro, tra via della Libertà e via Casaconte, attualmente, del palazzo resta una parte dell'edificio e la torre. Secondo il Venditti, la costruzione risale alla prima metà dell'anno mille, mentre lo Iori la fa risalire al 1200. Di certo si sa che nell'800 ospitava il Municipio e, fino a circa cinquanta anni fa, la Regia Pretura. Nel periodo di maggiore splendore il palazzo era famoso sia per gli splendidi soffitti affrescati da Belisario Corenzio e rappresentanti le storie del Vecchio Testamento, sia per la torre situata nel mezzo. Altro pregio era la presenza di abbondante acqua perenne, che formava fontane nei cortili, nei giardini, e negli appartamenti. Al tempo dei signori Capuano l'acqua presente nel palazzo, attraverso canali sotterranei, proveniva dalla parte alta di Resina e si distribuiva anche nelle camere e nelle cucine, giungendo fino a due fontane nei giardini. Originariamente l'imponente palazzo si estendeva fino al primo vicolo a destra nella strada della Parrocchia, dove si trovava una masseria, che costituiva il confine dell'antica Portici, prima dei 1631. Del Palazzo Capuano restano pochi elementi originari riconoscibili: la volta a vela nell'androne, la Torre, i residui di piperno negli stipiti del portone. L'edificio fu tagliato nel 1948 per aprire Via Libertà e furono distrutti gli affreschi di Corenzio. Il palazzo diviso in due tronconi, prese i nomi di Comune Vecchia e Villa Materi(non più presente), nel cui giardino era incastrato in un muro un mascherone di fontana, traccia dei vecchi giochi d'acqua. Nel palazzo dimorarono illustri personaggi come le Regine di Napoli, Giovanna I e Giovanna II, la vice regina, donna Anna Carafa, prima feudataria di Portici e madre del Barone, Nicola Guzman Carafa, e la duchessa di Medina las Torres».
«La storia racconta che la reggia di Portici fu voluta da Carlo di Borbone, allorquando i sovrani, invitati dal principe di Elboeuf Emanuele Maurizio di Lorena, a trascorrere una giornata nel suo palazzo di Portici, si innamorarono del luogo e decisero di costruirvi la loro residenza estiva. La direzione dei lavori fu affidata al romano Canevari mentre per decorare le sale furono chiamati pittori tra i quali Giuseppe Bonito. I lavori della Real Villa terminarono nel 1742 ma, rivelatasi insufficiente ad ospitare tutta la corte, molte famiglie aristocratiche, per star vicino ai sovrani, acquistarono o fecero costruire ville nei dintorni, creando quel patrimonio artistico caratteristico dell'area, noto come Ville Vesuviane. Per le sculture della Reggia e le statue che furono messe nel parco, affidate al Canart, furono realizzate in marmo di Carrara, a parte le colonne antiche che furono tratte da antiche basiliche. Originariamente la Villa aveva una pianta quadrata: l'ala verso il mare e quella verso il Vesuvio furono aggiunte nel periodo francese. Presenta una superba facciata con ampie terrazze e balaustre ed è costituita da una parte inferiore ed una superiore, divise da una piazza che in realtà è il cortile del palazzo, attraversata dall'antica strada delle Calabrie, attualmente viale Università. Sulla sinistra l'antica Caserma delle Guardie Reali, oltre alla cappella Palatina del 1749, costruita dove prima era il vecchio teatrino. Dal vestibolo si accede al primo piano attraverso un magnifico scalone lungo il quale, in alcune nicchie, si ammirano statue provenienti da Ercolano; anche per i pavimenti di alcune stanze furono usati mosaici provenienti dagli scavi delle cittadine vesuviane. Al primo piano troviamo la Sala delle Guardie e quella del Trono, che ancora conservano parte delle decorazioni originarie; da ammirare, poi un gabinetto Luigi XV ed un altro cinese con pavimentazione proveniente da Ercolano. Tra le realizzazioni più preziose, ricordiamo il salottino di porcellana della Regina Maria Amalia, splendido esempio della perfezione raggiunta dalla Real Fabbrica delle Porcellane di Capodimonte: attualmente si trova presso il Museo di Capodimonte a Napoli. Una delle meraviglie del parco è stata la realizzazione del maestoso parco, dolcemente degradante verso il mare, suddiviso in inferiore e superiore. Quest'ultimo, caratterizzato da lunghi viali, è in effetti un giardino all'inglese: notevole è la fontana delle Sirene, una statua di scavo raffigurante la "Vittoria", il "Chiosco" di re Carlo, con un tavolino con mosaico, la fontana dei Cigni e la statua di "Flora", anch'essa di scavo; vi è poi un anfiteatro a tre ordini di scale. La Reggia aveva anche il belvedere della Regina con fontane e statue. Nel parco, ancora i resti dell'antico gioco del pallone e una riproduzione della fortezza di Capua che nasconde la Capanna dei Canguri; nel bosco, infatti, fu realizzato nel 1742 uno zoo con animali esotici, tra cui un elefante regalato a re Carlo dal sultano Mahmud, per il quale fu pubblicato anche un opuscolo, Dissertazione dell 'Elefante, del 1766».
http://www.comune.portici.na.it/index.php?option=com_content&view=article&id=408&catid=81&Itemid=80
«La Terra Murata sorge sul promontorio più alto di Procida a circa 91 metri sul livello del mare. Grazie alla sua posizione strategica, la Terra divenne, dal IX secolo, il nucleo abitativo dell'isola e fu denominata Terra Casata. Era possibile accedervi da due porte: la Porta della Terra, o di Sant'Angelo e la Porta di Mezz'Omo. La particolare forma ovale della cittadella testimonia ancora oggi la vita quotidiana che si svolgeva tutt'attorno all'Abbazia. In via del Borgo è possibile ammirare un'abitazione tipica che rappresenta un esempio di edilizia locale. L'unico esemplare inveece di architettura gentilizia è il Palazzo De Iorio ritenuta l'abitazione di Giovanni da Procida, primo feudatario dell'isola ed eroe dei Vespri Siciliani. Nel 1656 l'edificio fu adibito a Conservatorio delle Orfane. Le continue incursioni piratesche che imperversarono per tutto il XVI secolo, spinsero il Cardinale Innico d'Avalos d'Aragona, feudatario dell'isola nonché Abate Commendatario dell'Abbazia di San Michele Arcangelo (1561-1600), a ordinare il riassetto dell'intero borgo di Terra Casata. Nel 1563, egli fece costruire il Castello d'Avalos, in luogo dell'antica Porta della Terra ed edificare intorno alla cittadella delle mura bastionate nelle quali venne aperta la Porta di Ferro: la Terra Casata divenne così Terra Murata, terra cinta di mura. In tal modo il palazzo avrebbe reso il borgo inaccessibile dal mare ma avrebbe anche conferito al Cardinale una degna dimora. Gli architetti Giovanbattista Cavagna e Benvenuto Tortelli furono incaricati della realizzazione. Il Castello fu costruito a picco sul mare a semplice pianta rettangolare su quattro livelli, furono abbattute la porta d'ingresso della Terra Casata e la Porta di Sant'Angelo. Esso rimase la dimora della famiglia d'Avalos sino agli inizi del XVIII secolo, fin quando l'isola di Procida venne loro confiscata. Nel 1744, Procida divenne bene allodiale della Corona e Carlo III di Borbone dispose la trasformazione del Castello in Palazzo Reale. Gli interventi tesero prevalentemente ad una razionale ridistribuzione degli spazi interni ed alla realizzazione di nuovi ambienti per la corte. Dopo il 1815, il palazzo reale divenne prima collegio militare e, tra il 1830 e il 1831, fu adibito a BAGNO PENALE dal re Ferdinando II di Borbone. Il Castello d'Avalos fu modificato per soddisfare le necessità del nuovo impianto carcerario: celle, corridoi, camerate comuni e cubicoli per le punizioni. I quattro livelli dell'edificio, vennero suddivisi a seconda della gravità delle pene: i piani bassi, umidi ed angusti, ospitavano prigionieri politici o assassini; il piano più alto, chiamato Reclusione, era occupato da condannati al 'minimo dei ferri'. Nei sotterranei vi erano, infine, celle interrate utilizzate come celle di rigore. Dal XIX secolo, il complesso carcerario mutò notevolmente: le aree sottostanti vennero utilizzate per ricavare ulteriori spazi per soddisfare le mutate esigenze (celle, servizi igienici, lavanderie, medicheria) e nel 1850 fu realizzato un opificio, volto ad attenuare le condizioni di degrado in cui versavano i detenuti. Nel dopoguerra, furono apportate ulteriori modifiche all'intero impianto per rispondere meglio ai canoni di carcere di massima sicurezza. Il carcere di Procida fu chiuso definitivamente nel 1988».
http://www.procidamia.it/terra_murata.htm
«Sede dei regnanti, dalle incerte origini, si hanno notizie in alcuni documenti del XIII secolo. Divenne, successivamente, albergo. Oggi è stata riportata all’antico splendore. La Reggia di Quisisana è caratterizzata da un complesso architettonico di fabbriche ubicate in posizione paesaggistica dominante. La ragione dell’esistenza di Quisisana è nel nome: “Domus de loco sano”, luogo accogliente per la salubrità del clima. Dubbie sono le origini del primo volume murario: la reggia compare già in alcuni documenti del 1280 sotto Carlo I d'Angiò e in una novella del Decamerone. La storia dei regnanti inizia da Carlo I d’Angiò che, fortificando con una cinta muraria la città, iniziò i lavori al Palazzo Reale. Roberto d’Angiò ingrandì ed ampliò ulteriormente l’impianto. Gli edifici erano accompagnati dalla Torre, unica delle tre fabbriche giunta a noi. Nei secoli successivi non vi furono modifiche nè abbellimenti, pur rimanendo luogo di villeggiatura estivo preferito dai regnanti, soprattutto in occasione della peste a Napoli. Le cronache segnalarono numerose guarigioni che ampliarono la fama di Quisisana. Durante il corso di questi secoli il Palazzo passò da un notabile ad un altro e nel 1541 divenne proprietà dei Farnese: comincia lo stato di abbandono. Il periodo di massimo splendore si ebbe durante il Regno Borbonico. Nel 1758 Ferdinando IV avviò la prima fase di lavori che inglobarono ed ampliarono i vari volumi, saldandoli fra loro e ottenendo un elemento ad “L”. Ma la sistemazione definitiva fu data da Ferdinando II il quale sistemò la villa secondo uno schema tipicamente anglosassone. Al piano nobile venne creata una loggia, che era specificatamente adibita al diletto di sua Maestà, il quale così poteva “sparare alle quaglie”. Dopo l’unità d’Italia, la Regia tenuta passò ai Savoia fino alla proposta del Ministro Depretis che la declassò a Demanio dello Stato, il 31 Maggio del 1877. L’anno successivo, con regio decreto, il palazzo fu ceduto al Comune di Castellammare di Stabia. La struttura fu adibita ad albergo e divenne "Hotel Margherita". Dopo un periodo in cui rimase dismesso riaprì nel 1923 con il nome di "Royal Hotel Quisisana" fino alla metà degli anni '60. La struttura attuale della Reggia si compone di tre corpi di fabbrica che formano un unico organismo architettonico. Il primo, che si articola su due livelli, possiede l’ampio portale d’ingresso, in asse con il lungo viale alberato, e al primo piano è ubicato l’originario piano nobile che si apre verso il parco con una gradevole loggia. Il secondo, orientato verso un eccezionale paesaggio, è posizionato ortogonalmente alla fabbrica d’ingresso, a voler formare una “L” e si sviluppa su due piani e il sottotetto. Le lineari facciate di questi manufatti sono scandite dalle slanciate finestre ornate con elementi classici. Il terzo corpo accompagna il pendio ed è caratterizzato dallo sviluppo planimetrico che segue la forma di una “U” e dal possente porticato che movimenta il prospetto verso valle. Nel cortile interno al Palazzo, il giardino conserva ancora l’impianto di “giardino all’italiana”».
http://www.comune.castellammare-di-stabia.napoli.it/cultura-e-turismo/reggia-quisisana/index-95.aspx
San Paolo Bel Sito (palazzo Ducale o Accinni)
«Il Palazzo Accinni, situato in Piazza Camillo Santorelli, ovvero nella parte alta del centro abitato, fu costruito probabilmente nella seconda metà del 700, da Giacomo Milano, principe di Ardore e marchese di S. Giorgio, poi anche principe del S.R.I. e duca di Santopaolo. Nell'800 il palazzo fu acquistato dalla famiglia nobile degli Accinni. La struttura del palazzo si erge ancora imponente nella Piazza Santorelli delimitandone tutto un lato. Moltissime ed impietose sono state le manomissioni e gli adattamenti a nuovi usi dei locali e delle sale, facendo perdere, quasi completamente, la connotazione storico-artistica del palazzo. Ma il suo antico splendore e la sua dignità architettonica si leggono ancora su una parte della facciata. Rimane il grande portale la cui linea è decorata di quadri in stucco e i due pilastri ai lati, coronati da vasi con pigne, vanno, con ricche cornici, ad inquadrare la finestra sovrastante il portone. La finestra e i due balconi laterali sono incorniciati da un elegante motivo decorativo detto ad "ali di falco" tipico del periodo tardo barocco e in voga nella capitale partenopea. La Cappella padronale si apre su un lato della facciata ed è caratterizzata da un portale d'ingresso con colonne laterali e un timpano che racchiude un'epigrafe. Contiene un piccolo altare in marmo policromo e la tomba del duca Milano, già da tempo profanata».
http://hosting.soluzionipa.it/s_p_belsito/stampa.php?id=59
Sant'Arcangelo (resti del castello)
«La località di S. Arcangelo nasce anticamente come insediamento romano. Nel VI secolo, considerata luogo strategico del ducato di Benevento, viene occupata dai longobardi, divenendo così un villaggio fortificato. Con questa occupazione la località assume il nome di S. Arcangelo, a testimonianza della grande devozione dei Longobardi verso l'Arcangelo Gabriele. Il primo documento in cui si scrive di S. Arcangelo e di una Chiesa omonima risale all'anno 964. Le antiche origini di questa località sono confermate da un ritrovamento avvenuto nel 1995 da parte di alcuni studenti. Si tratta di un mosaico di epoca romana, raffigurante un bue, un delfino, un pesce ed uno splendido cavallo. Il ritrovamento è stato di fondamentale importanza, perché attesta che la Rocca di S. Arcangelo è stata un insediamento romano, prima di diventare centro fortificato e posto di guardia per i Longobardi in epoca Medioevale. Non conosciamo la denominazione di questo insediamento, ma si presume che sia stato "Paraedium Marcellanum", nome che deriva dalla via "Marcigliana", che collega Casolla Valenzano a S. Arcangelo. Nell'alto Medioevo (e fino alla conquista normanna), S. Arcangelo domina su tutte le terre e i centri circostanti al territorio. Quando Caivano diviene sede feudale durante il periodo Angioino, si ha la rapida decadenza di S. Arcangelo. Nel Settecento, S. Arcangelo si spopola e si trasforma in area di caccia reale. Sul suo territorio rimangono solo i ruderi di un castello edificato nel X secolo».
http://www.cittadelfare.it/musei/caivano.htm
Somma Vesuviana (castello d'Alagno, detto anche castello de Curtis)
«Il castello aragonese di Somma fu
realizzato per sostituire un altro di origine normanna ubicato più a monte.
Quest’ultimo, infatti, presentando un accesso troppo disagevole e le tipiche
caratteristiche dei castelli costruiti allo scopo di difesa, risultava
sprovvisto di ogni conforto e comodità. Qui si era rifugiata Lucrezia d’Alagno,
amante del re Alfonso di Aragona alla cui morte avvenuta nell’anno 1458, al fine
di mettere al riparo se stessa e le sue ricchezze dalle mire dei suoi nemici, ed
in particolare di quelle del suo successore Ferrante II. Poiché il castello sul
monte si rivelò poco accogliente, nello stesso anno del suo arrivo a Somma, la
nobildonna concepì ed attuò il disegno di costruirne uno più moderno e comodo, a
ridosso del centro abitato, in prossimità delle mura della città. Il nuovo
sovrano, volendo impadronirsi degli averi di Lucrezia, la invitò a Napoli ed al
suo rifiuto nell’anno 1461 venne ad occupare Somma con schiere armate. Intuiti i
propositi del re, la nobildonna, si rifugiò nella rocca più a monte abbandonando
il suo castello all’invasore che vi si insediò, ponendo l’assedio alla rocca
normanna. Dopo 25 giorni di assedio, Ferrante II, avendone constatato la sua
imprendibilità lasciò Somma non prima di aver saccheggiato il castello
recentemente costruito. Dopo il passaggio d Lucrezia allo schieramento angioino,
per più di duecento anni il castello seguì le alterne vicende del paese,
cambiando padrone con il susseguirsi dei vari reggenti. Costoro, però, resisi
conto dell’importanza strategica di una simile area fortificata, ritennero
opportuno non concederla più in feudo, né alienarla, temendo che divenisse
ostile in mani nemiche. Verso la fine del secolo XVII don Felice Fernandez de
Cordoba, duca di Sessa e di Somma, diede in affitto, a tempo indeterminato, al
dr. Luca Antonio De Curtis di Napoli, il castello e tutto il terreno
circostante. Sull’immobile sarebbe gravato un canone di 25 ducati da pagarsi in
“perpetuum” con l’obbligo di trasformare il suolo in campo fruttifero. Il censo
sarà riscattato solamente nell’anno 1859 dal Marchese Pasquale De Curtis. Nel
1946 l’immobile fu alienato dai marchesi De Curtis, insieme al terreno
circostante, a favore del Dr. Nicola Virnicchi da Montella. Infine nel 1998 il
Comune di Somma Vesuviana è diventato proprietario dell’immobile, e ad oggi
(2008) sono in corso i lavori di restauro e ristrutturazione per la futura
apertura del Museo civico.
Il luogo in cui sorge la costruzione fu, come per ogni altro castello, scelto
con cura e con criteri correnti per simili architetture: solitamente era
costituito da una balza da cui si potesse dominare una vasta zona ed essere
facilmente difendibile. Il Castello D’Alagno, infatti, domina l’abitato di
Somma, l’estesa piana che va da Nola a Napoli e la Terra di Lavoro, con il
coronamento degli Appennini campani. Originariamente il castello sorse con
quattro torri rotonde e merlate, di cui due stringevano la facciata principale,
su cui si apriva a pianterreno il largo fornice del portone d’ingresso. In
corrispondenza, al primo piano, si svolgeva un ampio salone di rappresentanza ed
altre sale prospettanti ad ovest sulle pendici del monte, mentre nelle due ali
laterali erano ricavate le cucine e le camere da letto. A piano terra le stalle
e depositi si aprivano sul cortile e sull’atrio dell’ingresso. Delle quattro
torri angolari, in origine allo stesso livello, due furono maggiorate di un
piano per ricavarne nuovi ambienti; essi vengono così a trovarsi a due a due,
una alta e una bassa, rivolte verso la vallata e verso la montagna. Alle fine
del secolo XVII il castello già versava in pessime condizioni ed aveva bisogno
di urgenti lavori, trovandosi in uno stato di abbandono che durava da tempo,
essendosi ridotto a riparo per pecore e capre. Anche il giardino, ridotto in
larga parte in zona boschiva, non dava alcun frutto e necessitava di una nuova
piantagione. Pertanto fu ritenuta la soluzione migliore da parte del Duca di
Sessa concedere in affitto al migliore offerente l’intero complesso, piuttosto
che lasciarlo andare in completo disfacimento. Una sostanziale modifica dello
stabile fu effettuata verso la fine del ‘700, allorché Camillo e Gaspare De
Curtis rinnovarono quasi completamente la fabbrica sia all’esterno che
all’interno, adeguandolo agli usi ed allo stile del tempo. In particolare
rivestirono il castello di intonaci e decorazioni neoclassiche con grande
profusione all’interno delle sale ed anche sulle precedenti semplici e severe
facciate. Le coperture che si presentavano piane in lapillo battuto, circondate
da parapetti merlati, furono sostituite con un tetto a capriate in legno,
ricoperto da coppi in creta. Altri caratteri specifici dell’epoca riguardano la
rampa di accesso e l’ingresso, ove due pilastri listati rivestiti di intonaco,
portavano alla sommità un elegante vaso in creta. Alla fine della rampa si apre
una piazzetta semicircolare con due ingressi laterali simmetrici per l’accesso
al giardino. Una larga fascia di stucco lavorata a bugnato contorna i piedritti
e l’arco del portone che immette nel cortile interno. Altri elementi sono
distribuiti un po’ ovunque: particolare interesse rivestono il cornicione
barocco al primo piano, le riquadrature delle finestre, del balcone principale a
primo piano, le paraste laterali listate, nonché varie decorazioni a stucco, sia
all’esterno che all’interno delle stanze e sui soffitti, come ad esempio la
cappellina nella sala a primo piano. Decorativo e scenografico, alla maniera del
700, infine, si presenta il muro di fondo del cortile».
http://beniculturali.ilmediano.it/public/somma/allegati/castello_alagno.pdf
Somma Vesuviana (resti del castello normanno, mura, borgo del Casamale)
«...Nella parte più alta, in posizione strategica rispetto all'intera pianura campana, verso l'XI secolo, fu eretto il fortificatissimo castello che ospitò longobardi, normanni e svevi, mentre successivamente gli ungheresi ne saggiarono l'imprendibilità. Con l'avvento degli angioini il castello sul monte e la cittadina medioevale di Somma, sviluppatasi più in basso, ebbero maggiore importanza e un incremento significativo sia nella parte residenziale che in quella artistica. La zona fu selezionata come stabile dimora estiva dai regnanti angioini per la salubrità dell'aria e la fedeltà dei sudditi a cui furono per riconoscenza concessi molti privilegi e molte opere d'arte, tra cui ricordiamo quelle architettoniche più importanti: restauro del castello a monte con la costruzione della cappella di Santa Lucia, opere di fortificazioni del borgo medioevale, il palazzo reale in località Starza della Regina e la monumentale chiesa di San Domenico con l'annesso convento. Non da meno furono i successori degli angioini, cioè gli aragonesi, che soggiornarono molto spesso in Somma Vesuviana e lasciarono la loro traccia con la riedificazione della cinta muraria, giunta fino a noi quasi intatta, con il castello a ridosso delle mura, eretto da Lucrezia d’Alagno, e con la magnifica chiesa di Santa Maria del Pozzo, fatta costruire dalla regina Giovanna III d'Aragona, che viveva a Somma Vesuviana e che nelle sale del palazzo della Starza della Regina assistette alla celebrazione delle nozze della figlia Giovanna IV con Ferrantino. Precedentemente proprio Ferrante I aveva constatato l'imprendibilità del castello di Somma allorquando era qui venuto con molti armati per sottomettere Lucrezia d'Alagno, amante del padre Alfonso il Magnanimo, che a quest'ultima aveva regalato la terra di Somma, sotto la finta stipula di una vendita al fratello Ugone. Fu per questo riconoscimento che Somma ebbe rifatta interamente la cinta muraria per migliorarne la struttura difensiva e non fu più concessa in feudo, ma restò sempre sotto il più stretto demanio regio e i diritti su di essa vennero concessi solo ai familiari del re, per salvaguardare la città di Napoli da attacchi di nemici provenienti dal lato orientale. Solo con la caduta degli aragonesi la cittadina venne concessa in feudo, ma la fierezza dei suoi abitanti fece sì che questa situazione non perdurasse a lungo e, con indicibili ed esaltanti sacrifici e con notevoli indebitamenti, furono raccolti i 112.000 ducati, cifra occorrente per pagare il riscatto e rientrare così sotto il demanio regio. Nel frattempo l’urbanizzazione della zona era cresciuta e si erano sviluppati il quartiere Margherita, il quartiere del Borgo e il quartiere di Prigliano, mentre nelle fertili campagne più a valle, nei poderi acquistati da vari nobili napoletani, venivano edificate ampie ed attrezzate "masserie". ...
Il borgo del Casamale prende il nome dalla aristocratica famiglia dei Causamala, che compare per la prima volta in un atto di locazione del 1011. Circondano il borgo le antiche mura aragonesi, consolidate nel 1467 dal re Ferrante d’Aragona. Tali mura servivano per il contenimento dei terrapieni intorno alla Terra Murata. Quattro porte si aprivano lungo le mura: Porta Terra o Porta San Pietro situata sul lato Nord; Porta Formosi o Porta Marina situata sul lato ad Ovest; Porta della Montagna o Porta Castello situata sul lato Sud; Porta Piccioli o Porta Tutti i Santi situata sul lato ad Est. Il nucleo centrale del Casamale è un edificio ecclesiastico, il convento dei Padri Eremitani di Sant’Agostino con la cappella titolata prima a San Giacomo e poi, dopo la costruzione della chiesa, a Santa Maria della Sanità. Nel 1595 la chiesa fu insignita del titolo di Collegiata cambiando il nome di Santa Maria Maggiore. Il Casamale racchiudeva tra le sue mura, oltre alla imponente Collegiata, conventi e palazzi dell’aristocrazia che occupavano solo in misura parziale le insule. Questi terreni sono stati pian piano occupati e abitati da coloni, commercianti, artigiani. L’antico borgo medievale del Casamale si conserva ancora integro, nonostante le evidenti tracce di manomissioni consistenti in interventi in calcestruzzo tra le antiche murature in pietra. Il borgo si sviluppa sulla dorsale del Monte Somma, tra i 180 ed i 220 m.s.l.m. e consiste in uno spazio delimitato da antiche murazioni ancora oggi ben visibili che individuano un netto confine con il resto dell’abitato. Il borgo è astutamente protetto a Sud dal Monte Somma, a Est dall’Alveo Fosso dei Leoni e a Ovest dall’Alveo Cavone del Purgatorio. Attorno al centro, l’attuale Collegiata, si sviluppa un impianto medievale fatto di vie strette, alcuni archi, con le coperture delle case che sembrano toccarsi non consentendo al sole di filtrare. Le costruzioni presentano una colorazione grigia e spesso si trovano importanti archi d’ingresso in piperno. I balconi delle abitazioni, ornati da parapetti di ferro battuto, sono poco sporgenti e sono impostati su robuste soglie di piperno lavorato. Elementi architettonici del XVI, XVII e XVIII secolo sorgono accanto alle costruzioni medievali, tra cui palazzo Colletta–Orsini, il palazzo Basadonna, il Monastero della Monache Carmelitane, palazzo Secondulfo. Questo importante patrimonio d’arte e di cultura ha subito purtroppo numerose manipolature che hanno distrutto in poco tempo strutture che si mantenevano intatte da secoli. ...».
http://it.wikipedia.org/wiki/Somma_Vesuviana#Monumenti_e_luoghi_di_interesse
Sorrento (torri di avvistamento)
«Come tante perle di una preziosa collana nel 1300 furono edificate delle torri di guardia per la difesa dalle scorrerie dei pirati saraceni che infestavano le coste tirrene con agili e veloci navi. Le prime due furono costruite, per ordine del re di Napoli, Roberto d'Angiò tra il 1332 ed il 1343, sul maggiore degli isolotti de Li Galli e sulla Punta Campanella. A forma piramidale, quadrata, tronca le due torri furono il primo esempio di fortificazione militare costiera. In seguito al moltiplicarsi delle scorrerie altre torri furono costruite lungo tutta la Costiera e castelli sorsero in posizioni strategiche per avvistare i pirati in arrivo. Mentre dei castelli esistono pochi ruderi, come alla Annunziata, le torri ancora oggi restano delle costruzioni visibili lungo la costa: al Capo Massa, a Punta Corvo, a Punta S. Lorenzo, Fossa di Papa, Punta Campanella, Montalto, Marina del Cantone, Recommone, Crapolla. Dopo l'invasione turca più feroce del 13 giugno 1558, il viceré di Napoli, don Pedro de Toledo, ordinò col rifacimento delle Torri di Punta Campanella e de Li Galli la costruzione di un altro gruppo di torri, non solo lungo la costa, ma anche all'interno delle cittadine. Gli esempi più evidenti si trovano a difesa del colle gesuitico di Massa Lubrense, dove il torrione rappresentava la costruzione più alta dell'intero regno di Napoli, a San Francesco del convento dei frati Minimi, in località Turro ed a Monticchio, alla Annunziata, alla Marina Lobra, Pastena, Nerano».
http://www.penisolasorrentina.info/index.php?option=com_content&task=view&id=49&Itemid=60
Torre Annunziata (castello d'Alagno o palazzo Dentice)
«Il castello era dotato, in origine, di un fossato, di un ponte levatoio e di mura che circondavano il giardino. Il lato posto a sud si affacciava sull'arenile, questi a seguito dell'eruzione del 1631 si allargò formando un tratto di spiaggia. La zona che si affaccia su via De Simone è la parte più moderna della struttura, fu realizzata, infatti, nei primi anni dell'800 e in seguito alterata da sopraelevazioni. Questa struttura è conosciuta oggi come palazzo del principe. Venne costruito nel 1440 dal primo feudatario di Torre Annunziata Nicola d'Alagno».
http://sit.provincia.napoli.it/MDScheda.asp?key=4163
Torre Annunziata (torre di Rovigliano)
«Posto fra Castellammare di Stabia e Torre Annunziata, sorge in una posizione isolata e incantevole e forse proprio per questa ragione fu scelta come luogo di riposo fin dai tempi antichi. Il nome gli fu dato solo in seguito; da alcuni documenti medievali risulta che era denominato Insula Rubiliana, dalla gens Rubilia che la possedette. Sullo scoglio fu edificato un tempio dedicato ad Ercole; non si è conservato nulla, sebbene vi siano testimonianze in scritti di Plinio e del Corcia. La certezza di questa costruzione romana ci è data dal residuo di opus reticolatum che è visibile sulla parete della fortezza. Nel XII secolo vi fu un continuo succedersi di ordini religiosi che vi fabbricarono un monastero e una chiesa; nella seconda metà del XVI secolo fu costruito un torrione a difesa delle incursioni barbariche e saracene. La fortezza fu completata intorno alla metà del ‘500 per volere del viceré spagnolo; durante la dominazione francese fu invece destinata a prigione. è costituita da una torre e da una serie di terrazze che si adattano alle sporgenze della roccia, creando una serie di archi e vari ambienti. La torre, a pianta rettangolare, è nel punto più elevato. Dopo l’unificazione fu venduta a un privato. Nel 1925 la zona di Rovigliano fu sottoposta a tutela, essendo ritenuto bene di interesse storico».
http://www.comune.castellammare-di-stabia.napoli.it/index.php?option=com_content&view=article&id=455:scoglio-di-rovigliano...
«Il complesso monumentale Torre Caracciolo nasce nel XV sec. sulle colline dei Camaldoli, tra la città di Napoli e Marano, per volontà di Ferrante I d'Aragona, re di Napoli dal 1458 al 1494. Costruito per essere adibito a residenza temporanea durante le giornate di caccia nei boschi circostanti, il maniero sfrutta il clima mite e la formidabile vista che spazia dalla penisola sorrentina al golfo di Gaeta. Pur non avendo notizie del coinvolgimento del castello in eventi bellici, si riscontra nell'impianto planimetrico l'intento di creare un presidio stabile di difesa del territorio che, in forma di casa-fortezza, fosse capace di resistere ad un eventuale attacco per un lasso di tempo breve ma tale da permettere l'arrivo di aiuto da presidi vicini quali i castelli Scilla e Monteleone, che insieme ad Aversa ospitavano guarnigioni; ancora bisogna tener conto della vicinanza alla città di Napoli e al castello di Baia. Con la caduta degli Aragonesi e l'avvento del Vicereame spagnolo (1504), Torre Caracciolo divenne proprietà privata della nobile famiglia Ricca, baroni di Ampollosa, con i quali il complesso fu adibito ad austera residenza di campagna. Dopo una lunga e travagliata successione, nell'anno 1700, la Torre ed i suoi territori furono acquisiti al patrimonio della famiglia Capace Piscicelli la quale si adoperò in numerosi restauri senza mai intaccare l'originaria struttura. Al 1860 seguirono anni di incuria sino al 1935, quando la proprietà fu acquistata dal conte Ambrogino Caracciolo di Torchiarolo, dal quale deriva l'attuale denominazione. Nell'ultimo periodo bellico la Torre tornò alla sua originaria vocazione ospitando la sede del comando tedesco, che la utilizzò come punto d'avvistamento temendo uno sbarco degli Alleati sul litoraneo domizio; ma nell'attesa, i militari non ebbero eccessiva cura del luogo che li accoglieva. Il complesso occupa una superficie di circa 2.400 mq che si sviluppa attorno ad un vasto cortile rettangolare e risulta essere composto dalla torre costituente il mastio, da due corpi di fabbrica, di cui il primo ha sviluppo planimetrico a "L" e cinge il cortile a sud e ad ovest, mentre il secondo, a pianta quasi rettangolare, lo chiude a nord. Immancabile la cappella gentilizia a pianta quadrata impreziosita da un altare in marmo grigio. La torre costituente il mastio si eleva per tre livelli fuori terra, presenta una pianta rettangolare, interrotta da torrette in corrispondenza degli spigoli, ed è attualmente a copertura piana. La muratura perimetrale del mastio si innalza a scarpa sino all'estradosso del primo impalcato proseguendo, poi, verso il piano di copertura in perfetta verticalità. Le torrette, invece, presentano solo pareti a piombo. Parte dei materiali da costruzione utilizzati provengono dai vicinissimi Campi Flegrei, ma è interessante sottolineare che la maggior parte del tufo giallo adoperato è stato cavato direttamente in loco».
http://www.castcampania.it/marano-1.html
TORRE DEL GRECO (palazzo Municipale, palazzo Vallelonga)
«Palazzo Municipale. Probabile dimora fortificata del re Alfonso d’Aragona che vi soggiornava spesso per incontrare la giovane e bella Lucrezia d’Alagno, dopo il riscatto del 1699, divenne palazzo dei baroni Langella. Esso dominava il mare dall’alto di una rupe prima della costruzione del sottostante quartiere della marina. Oggi, restaurato, ospita gli uffici comunali e la segreteria del primo cittadino. ... Palazzo Vallelonga. Residenza del marchese di Vallelonga, è la prima delle ville settecentesche di Torre del Greco. Costruito nel ‘700, come residenza estiva di ricchi signori dell’epoca, questa villa venne rimaneggiata a metà del secolo scorso da Sasso, che la elevò aggiungendovi un terzo piano. Caratteristica: la scala d’accesso ai piani dell’edificio. Posata in fondo a un cortile, essa è in piperno e articolandosi, si snoda fino al primo piano da dove riprende poi a salire con due rampanti paralleli. Oggi è sede della Banca di Credito Popolare, che di recente, attraverso un lungo restauro le ha restituito l’antico splendore».
http://www.prolocotorregreco.it/?p=54 - http://www.prolocotorregreco.it/?p=60
Torre del Greco (torre delle Mortelle o Scassata)
«Cento e cento torri, cilindriche e quadrangolari, integre o diroccate, isolate o circondate da altre costruzioni, sorgono ancora oggi qua e là lungo le coste dell'Italia meridionale e della Sicilia, rimaste a narrare i secoli delle lotte sostenute dai paesi rivieraschi contro i pirati e i corsari nordafricani e turchi. Nel territorio di Torre del Greco esiste ancora, in contrada Sora, in buono stato di conservazione, la Torre di Bassano; vi è inoltre, più a sud-est, la Torre delle Mortelle detta poi Scassata perché in parte diruta; esisteva anche, agli inizi del nostro secolo, il fortino di Calastro che fu demolito quando sulla sua area si costruì il Molino "Feola", poi "Marzoli". ...». è stata quasi interamente demolita nell'Ottocento.
http://www.cittadelfare.it/palaz
TORRE DEL GRECO (torre di Bassano)
«La Torre di Bassano, così chiamata dalla località in cui si trova, fu fatta costruire dall'Università torrese nel quadro generale di difesa disposto dal viceré de Ribera. Fu imposto un contributo straordinario secondo il numero dei "fuochi", cioè delle famiglie esistenti nel territorio. I lavori di costruzione furono diretti dall'ingegnere regio Marco Altobello. Posta in posizione dominante su uno sperone roccioso affacciantesi sul mare, essa ha forma quadrangolare, muraglie spesse e scarpate all'esterno; all'interno il piano terreno con i magazzini, il secondo con gli alloggi delle guardie, il terzo, che è una terrazza scoperta, con le postazioni per artiglierie consistenti in colubrine e petriere e con una fornacella per le fumate di giorno e i fuochi di notte per le segnalazioni. Le vedette erano in guardia costantemente o almeno nei periodi di maggior pericolo e segnalavano l'arrivo all'orizzonte di navi corsare; uomini a cavallo, detti "cavallari" accorrevano poi a spron battuto nell'abitato e, al suon di trombe o di corni, esortavano tutti ad abbandonare le case e fuggire fra le campagne» - «La torre di Bassano è una delle tante torri di avvistamento situate lungo la costiera amalfitana. Fu costruita nel 1563 in prossimità della cala di Fuenti, in cui i pirati saraceni ormeggiavano le loro feluche e da cui partivano per le numerose scorrerie. Proprio una di queste incursioni, pochi anni prima, era costata cara alla vicina Cetara, che fu completamente distrutta, con 300 abitanti deportati; capo dell'assalto era stato il famigerato Sinan Bassà (più famoso col nome temibile di Ariadeno Barbarossa), dal quale sembra che derivi il nome della torre. Nei pressi immediati della torre nei primi anni Sessanta venne costruito il mega-hotel Fuenti, poi divenuto tristemente noto come "mostro di Fuenti"».
http://www.torreweb.it/citta/torrebas.htm - https://it.wikipedia.org/wiki/Torre_di_Bassano
Vico Equense (castello Giusso)
«La tradizione vuole che il castello fosse stato edificato da Carlo II d’Angiò, con lo scopo sia di difendere il piccolo borgo di Vico Equense, sia di utilizzarlo come residenza estiva; tuttavia l’ipotesi più accreditata è che il maniero sia stato costruito dal feudatario Sparano di Bari, secondo le forme militari dell’epoca, con alloggi per soldati, magazzini per i viveri e depositi per munizioni, ottenendo anche un finanziamento dal re angioino: il complesso fu costruito tra il 1284 ed il 1289. Con il passare degli anni appartenne a Gabriele Curiale, paggio della corona d’Aragona, a Ferrante Carafa, feudatario del paese nel 1568 e a Matteo Di Capua, appartenente alla famiglia dei Ravaschieri, i quale furono feudatari di Vico Equense dal 1629 al 1806, anno in cui Giuseppe Bonaparte abolì i feudi; divenne quindi residenza estiva della famiglia reale. Dopo un breve periodo nelle mani di Nicola Amalfi, fu di proprietà della famiglia Giusso, che lo acquistò per una somma di quattrocentomila ducati, dal 1822 al 1934, quando fu ceduto alla Compagnia di Gesù, i quali a loro volta lo vendettero a privati nel 1970. Della sua fisionomia originale rimane ben poco, solo parte della cinta muraria ed una terrazza sul mare: nel XV secolo furono costruite tre torri, di cui una chiamata Torre Mastra, un ponte e un fossato; nel secolo successivo due torri furono abbattute per far posto al palazzo baronale. Semidistrutto dall’invasione gotica e notevolmente provato da numerose incursioni pirata, fu in parte ricostruito nel 1604; nel XVII secolo furono eseguiti numerosi lavori di restauro che trasformarono il castello in una residenza signorile: furono infatti sistemati i giardini, adornati con grotte, giochi d’acqua e piante secolari, furono impreziositi gli interni e furono create alcune sale per ospitare la collezione d’arte, andata poi perduta, di Matteo Di Capua. In seguito, Luigi Giusso, e poi il figlio Girolamo, ristrutturano notevolmente l’edificio, donandogli la caratteristica colorazione rosa salmone ed affrescando i saloni come quello delle Armi e quello dei Ventagli, oltre alla piccola cappella privata, dedicata a Santa Maria della Stella, la quale si trovava sullo stesso luogo in cui sorgeva una chiesa, retta dai monaci benedettini, abbattuta per far posto al castello. All’interno del castello morì il 21 luglio 1788 il giurista napoletano Gaetano Filangieri, convinto che l’aria del posto avrebbe giovato alla sua salute cagionevole».
http://www.castellogiusso.it/?page_id=28
«Alle porte del paese ritroviamo gli antichi resti del castello. Portatore delle memorie del passato, si suppone che il castello si ergeva maestoso ed imponente. Oggi restano solo le mura perimetrali e si distinguono archi a tutto sesto ed il torrione quadrangolare».
http://www.comuni-italiani.it/063/089/foto/
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