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GRAVINA IN PUGLIA, CASTELLO SVEVO
testo di approfondimento e foto a cura di Francesco Mastromatteo
scheda testo di approfondimento
I resti del castello. In basso, veduta d'insieme nella foto di Nicola Stucci.
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Altre immagini del castello
Nel 1220 l’imperatore Federico II, dopo l’incoronazione per mano di papa Onorio III, decise di visitare le province del Regno di Sicilia per rendersi conto del loro stato effettivo, e visitò Gravina nel 1223, lo stesso anno in cui la città, che - già capoluogo di Contea e importante centro politico ed amministrativo - aveva appoggiato Enrico VI contro Tancredi di Lecce, ritornò ad appartenere al regio demanio dopo il breve dominio del conte Riccardo de Say, morto senza eredi legittimi. Al seguito di Federico c’era l’architetto e scultore fiorentino Fuccio, incaricato della direzione dei lavori di costruzione di castelli e fortilizi.
Com’è noto, l’imperatore era un
appassionato della caccia con il falcone, e stando a quanto riferisce il
Vasari, egli, evidentemente colpito dalla particolare ricchezza di selvaggina
che caratterizzava il fertile e boscoso territorio di Gravina, da lui definita
secondo la tradizione «giardino di delizie» e «urbs opulenta», incaricò
Fuccio di costruire un «parco per l’ uccellagione» cinto da mura. Il
castello quindi sarebbe sorto con lo scopo di fare da dimora per il sovrano ed
il suo seguito durante i soggiorni nella stazione venatoria. Tuttavia la
posizione strategica del castello, costruito su un’altura isolata posta a
nord dell’abitato, che consentiva di dominare l’ampia distesa delle
campagne, il lago artificiale della Pescara, creato in epoca normanna e ricco
di pesci, e tutte le vie di accesso e di transito alla città, insieme al
fatto che esso faceva indubbiamente parte di una serie di costruzioni simili
che dalla Puglia raggiungevano la Campania
e
Senza
tener conto delle quattro torri quadrangolari che molto probabilmente lo
fiancheggiavano, il castello di Gravina, di
Il piano superiore era destinato agli alloggi imperiali, illuminati da finestre bifore ornate di pietra gentile intagliata e da finestroni ad arco a tutto sesto, e coperti a volte; quello inferiore, presumibilmente destinato alle scuderie ed altri usi di servizio, presentava le caratteristiche comuni ad altri edifici a metà tra la residenza e la fortificazione: una cortina muraria aperta qua e là da oculi e finestrine strette e strombate. Entrando si trovava un ampio cortile in parte scoperto e in parte coperto, con in fondo un porticato di archi voltati su pilastri intagliati, sul quale si apriva dalla parte del cortile una loggia, e le porte di accesso dei locali al pianterreno: scuderia, forno, magazzini, cellari, lavandaio, cucine, tinello, e l’ingresso alla scala regia.
Sotto il cortile si stendeva un enorme vano sotterraneo con una volta a botte, diviso in tre navate e privo di una via d’accesso; secondo alcuni si tratterebbe di una cisterna, altri lo ritengono un vivaio per i pesci da utilizzare per il lago artificiale della Pescara. Salendo dalla scala si accedeva all’ ammezzato adibito a falconeria e ad alloggi per il personale di servizio. Continuando a salire si raggiungeva il piano nobile, il cui interno doveva essere sicuramente arredato come si conveniva ad una dimora imperiale. I pochi resti ancora oggi visibili, tra cui alcuni fregi, danno l’idea di un accurato decoro architettonico purtroppo totalmente perduto.
Si è a lungo dibattuto se lo stile della costruzione, di
solito definita tipicamente romanico pugliese, sia stato influenzato da
caratteristiche orientali, come farebbero pensare alcuni caratteri cufici
visibili su alcuni graffiti rinvenuti sulle pareti della cavità situata sotto
il cortile; ipotesi confortata dal fatto che la pianta del castello è molto
simile a quella del ricovero fortificato di Kirk-Genz-Han (che tuttavia appare
databile ad epoca successiva). A questa congettura
si è unita quella che vorrebbe lo stesso imperatore Federico non solo
committente, ma anche personale autore del progetto stesso della fabbrica,
come è stato ipotizzato (peraltro senza alcun riscontro nelle fonti) per lo stesso Castel del Monte.
La
città di Gravina dovette fare un’ottima impressione al sovrano svevo, che
la visiterà certamente ancora per almeno altre tre volte: nel
Morendo nel 1250, per espressa volontà confermata dal testamento, l’imperatore lasciò al figlio naturale Manfredi, già designato come successore al trono, il principato di Taranto e le contee di Mons Caveosus, Tricarico e Gravina, il cui contado fu conteso per un breve periodo dal fratellastro Corrado durante la sua discesa in Italia, per tornare sotto il dominio di Manfredi e rimanervi anche dopo la sua incoronazione. Con la sconfitta di Benevento (1266) e l’avvento della dominazione angioina, il castello federiciano continuò a svolgere la sua funzione strategica, rinforzata dalla presenza di una stabile guarnigione con a capo un castellano, incaricato di mantenere il maniero sempre fornito di armi e vettovaglie e di sorvegliare la riserva di caccia sottostante.
Alcuni documenti che riportano copie dei Registri Angioini tratti dal Grande Archivio Napoletano da Roberto Bevere e conservati presso il museo cittadino ci forniscono numerose informazioni sul castello di Gravina, definito di volta in volta “castello” o “palazzo regio”. Un mandato del 1275 indirizzato al giustiziere di Terra di Bari sollecita l’istruzione del processo istruttorio contro alcuni gravinesi colpevoli di essersi opposti al tentativo di collegare con un canale il lago della Pescara ad una fonte, attuato dal castellano Girardo di Mannovia, il quale era stato preso a sassate e ingiuriato insieme ai suoi servi da un gruppo di gente armata.
Un altro documento, del 1277, indirizzato al castellano lo informa dell’imminente arrivo di duemila anguille e duemila tinche destinate a popolare le acque della Pescara, al fine di evitare il ristagno e l’imputridirsi delle stesse, con gravi conseguenze per la salute degli abitanti. Nella riserva regia quindi rientrava una vasta area che comprendeva la collina dove sorgeva il castello, detta “dell’Amendolara” per la presenza di numerosi mandorli, diversi laghetti tra cui la già citata Pescara e tutta la zona della selva, allora denominata «difesa», in cui, come riporta un documento del 1279, erano allevate numerose giumente di proprietà regia; sappiamo infatti da un documento del 1305 che a Gravina era presente una “maristalla”, ovvero un allevamento di cavalli sotto il controllo di un funzionario regio.
Un interessante atto del 1281 contiene la nomina a castellano di Guarniero di
Bosco, fornendo molte notizie circa l’amministrazione del castello e la
riscossione delle tasse. Sappiamo così che nel Palazzo vi era abbondanza di
armi e vettovaglie, provviste di legumi e vino ed un consistente arredo di
mobili; il castellano aveva il compito di vigilare sulla selva e sul lago, per
impedire caccia, pascolo e raccolta di legna e ghiande senza regia
autorizzazione e previo pagamento della tassa relativa; era considerato
bracconaggio anche il cacciare cervi, caprioli e daini con l’autorizzazione
ma fuori della riserva o nei mesi proibiti di aprile, maggio e giugno. Dal
documento si evince come la pena pecuniaria per le varie infrazioni fosse
commisurata alla condizione sociale del trasgressore, aumentando
progressivamente in rapporto al reddito: per la stessa infrazione un nobile
avrebbe pagato
Un altro
documento del 1301 è firmato dal re di Napoli e riconferma ai Gravinesi
alcuni privilegi concessi loro da Federico II, e ciò indica come in quel
periodo essi erano stati se non cancellati, quantomeno messi in discussione
dai feudatari. Da queste fonti emerge come sotto la dominazione angioina il
castello di Gravina fosse diventato per gli abitanti della città un simbolo
inviso di un opprimente potere centrale lontano, costringendo il sovrano ad
intervenire per ripristinare il diritto consuetudinario in base al quale, per
esempio, i Gravinesi si sentivano autorizzati a prelevare legna verde malgrado
i divieti, e spegnere sul nascere il focolaio della protesta. Ancora a metà
del Trecento il castello doveva trovarsi in buone condizioni e custodito da
una guarnigione, come riportato nella Cronaca del notar Domenico; a partire
forse dal terribile terremoto del 5 dicembre 1456 (epoca in cui non apparteneva più
al regio fisco, ma alla corte feudale), esso subì dei danni e restò
parzialmente disabitato, per poi subire una lenta ma progressiva decadenza nei
secoli successivi.
©2005 Francesco Mastromatteo