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MEDIOEVO RUSSO |
a cura di Aldo C. Marturano, pag. 66 |
Le case del Caucaso e dintorni
Le costruzioni degli Alani riservate ai morti.
Il Caucaso è uno dei pochi luoghi della Terra la cui storia è complicatissima e per di più in gran parte poco divulgata. Proprio nella molteplicità delle lingue e schiatte qui esistenti chi scrisse della biblica Torre di Babele e del conseguente Diluvio riconobbe questa antichissima situazione multietnica e non solo i resti di quelle genti che avevano osato sfidare il dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Anzi! Quel dio stesso, quando scelse di salvare Noè e dettò a quest'ultimo le misure e le istruzioni per costruirsi una “casa galleggiante di legno” cioè la famosa “Arca di Noè” dove abitare per qualche mese con moglie e i tre figli e gli animali in attesa che le acque del Diluvio rifluissero, aggiunse agli altri caucasici anche i figli di Jafet. E così, a proposito di questo mito a cui avevamo accennato pagine fa, mentre l'Armenia vanta il monte Ararat dove l'Arca approdò, il Daghestan vanta nei dintorni del villaggio di Karat (regione di Rutul) il Monte di Noè (Nu'e-aban in iranico) ai cui piedi sono stati ritrovati giusto i resti di questa casa provvisoria di Noè. Addirittura, onde scongiurare ogni ripetizione del distruttivo Diluvio, proprio qui alla fine di ogni anno si innalzano ferventi preghiere al dio del cielo. Insomma, nelle loro parole gli abitanti del Caucaso sono gli unici veri discendenti di Jafet, figlio di Noè, e in Cecenia un leader politico-religioso dei nostri tempi, Hoĝ-Ahmed Nuhaev, indica come tali i Ceceni ossia i Nohči alla cui genia appartiene lui stesso... Con tali presupposti non dovrebbe neppur far meraviglia che in Georgia sia stato trovato un reperto di Homo ergaster addirittura dell'età di 1,7 milioni di anni perché ci suggerisce che le caucasiche terre già da tempi immemorabili fossero popolate/esplorate da esseri molto simili a noi.
A parte le leggende, come si vede nella cartina della regione (da H. A. Bernatzik, Popoli e Razze, Vol. 2, s. l. 1954) vivono più di una quarantina di etnie diverse che parlano lingue non accomunabili (per il momento) in famiglie linguistiche omogenee e che conservano costumi e modi di abitare del tutto propri e tipici. Culturalmente il Caucaso è stato dominato dall'ideologia cristiana sin dal IV sec. d.C. irradiante dalla Georgia e dall'Armenia, due stati cristiani molto antichi che nella loro lunga storia furono a volte fusi in un'unica entità politica. Successivamente giunse l'Islam e, esclusi Georgiani e Armeni rimasti orgogliosamente cristiani e fatte salve pure delle esigue minoranze ebraiche, oggi il Caucaso vive nel complesso ideologico musulmano. L'eroe riconosciuto ovunque nelle montagne è infatti Šamil, il glorioso difensore dell'identità islamica del XIX sec. d.C. contro l'Impero Russo invasore. Cominciamo allora naturalmente dalla materia che domina da queste parti per costruire ossia dalla pietra, anche perché sui declivi caucasici mancano quasi ovunque alberi di alto fusto. Sin dal lontanissimo passato di qui si esportava fin sulle coste della Grecia anche la selce di colore nero-blu traslucido che faceva scintille soltanto a batterla! Pertanto nei villaggi lungo i declivi e nelle cittadine ai piedi delle alte cime di ripiegamento tettonico del Caucaso che oltrepassano i 5000 m. si trovano case, tombe e templi fatti esclusivamente di pietra e di selce. Caratteristica del territorio è il fatto che qui arrivarono genti probabilmente fuggitive dal sud che si fermarono in permanenza e raramente continuarono il loro cammino verso il nord. Come oggi constatiamo riuscirono, pur trovandosi fianco a fianco con chi era giunto qui prima di loro, a conservare un'identità propria conservando la lingua, prima d'ogni altra cosa. L'archeologia indica che la maggioranza degli abitanti del Caucaso medievale fossero agricoltori sotto intensa influenza iranica e che avessero abitato in pianura finché, spinti dagli eventi, non iniziarono a ritirarsi sulle montagne passando a una più impegnativa pastorizia di capre e di pecore. E non è da pensare che l'agricoltura fosse difficile e precaria. Nella pianura del bacino del fiume Kurà, il fiume di Tbilisi e di Partava/Berda'a oggi parte della Georgia, vige un clima, probabilmente lo stesso di secoli fa, molto moderato (subtropicale) dove l'agricoltura è praticata con successo: dalla coltivazione di cereali fino agli alberi da frutto. Lungo i pendii al contrario non si ha molto spazio piano per tale attività e occorre risparmiare su strade, spiazzi e cortili e ridursi, ove possibile, a utilizzare terrazze artificiali. Così i tipici villaggi, noti col nome di aùl, su per i monti non soltanto erano un insieme di case attaccate l'una all'altra con pareti in comune, ma anche un insieme parentale di persone la cui unica proprietà privata e comune era il bestiame. La terra invece era un dono di dio, chiamato nelle diverse lingue locali Il Padrone, e da lui un capofamiglia attraverso l'anziano del villaggio ne riceveva un pezzo da coltivare per la sussistenza. La parcella coltivata naturalmente era una parte delle terrazze irrigate da canali appositi costruiti e mantenuti in ordine da tutta la comunità (giamaat con vocabolo arabo). Quanto poi alle transumanze in pianura a valle, serviva in continuazione stipulare patti nuovi e diversi con chi lì viveva stabilmente lungo i fiumi. Era però l'occasione per venire a contatto col più vasto mondo esterno e per scambiare prodotti e notizie e soprattutto per procurarsi pali di legno da usare. Abbiamo preso come primo campione della nostra storia la repubblica multietnica del Daghestan della Federazione Russa e ciò per due ragioni. La prima perché il suo territorio è compreso nelle steppe ucraine. La seconda è che, già col nome di Albania, essa confinò dapprima con l'antico Regno di Urartu e successivamente fu la sede di un grande stato medievale: l'Impero Càzaro (VIII-XII sec. d.C.) che fondò e dominò a lungo la città di Kiev. Se poi aggiungiamo che sotto questa repubblica ci sono un bel po' di genti caucasiche diverse, siamo certi che potrà ragguagliarci moltissimo sulla cultura nel modo di abitare del Medioevo Russo. La casa di montagna di solito è a due piani, di cui quello superiore è abitato di notte e riscaldato, mentre l'inferiore è riservato alle bestie e alle attività artigianali. Inoltre, forse eredi del mondo ittita o hurrita, sono addossate l'una all'altra e il tetto dell'una fa da pavimento o da terrazzino a quella subito superiore. L'unico lato libero per le più fortunate è quello finestrato che guarda il paesaggio sottostante. Chi abita più in alto e deve scendere più a valle passerà per i tetti, se vuole evitare un lungo e a volte pericoloso giro per non disturbare. Sono però previste delle scale (persino a pioli da riporre dopo l'uso) che passano all'interno delle case di vicini e di conoscenti. Niente di male vista la stretta parentela che c'è, sebbene ci siano casi in cui vicini e i conoscenti possano essere di altra etnia e parlare una lingua del tutto diversa. Negli acquarelli che seguono (da J.J. Karpov – Vzgliad na gorcev. Vzgliad s gor, Sankt-Peterburg 2007) sono riprodotte alcune case della cittadina àvara di Tidib che danno l'idea dell'agglomerato e accanto è l'aùl di Zahur nelle vicinanze del Monte di Noé. E più sotto c'è la foto di una terrazza parcellizzata in una stretta valle glaciale come è coltivata al giorno d'oggi e accanto un quadro della casa a due piani con muretto di cinta antistante del famoso Šamil. Si noti l'uso della pietra, del cannicciato che sporge ogni tanto dal muro e della terra cruda, qui usata nell'intonaco. Il legno è nelle travature, nei tetti, negli impiantiti dei pavimenti e nelle balaustre e, specialmente, per le scale a pioli. Le case così concepite e costruite sono il segno del trionfo della solida comunità parentale, della grande famiglia e, meglio, della grande schiatta detta in àvaro (una delle più parlate lingue caucasiche) con parola iranica tuhum.
I villaggi caucasici è logico che non siano fortificati in alto sulla montagna giacché in principio restano difficilmente accessibili, ma anche a chiunque non sappia “inerpicarsi” lungo strade che in realtà sono tratturi impervi. L'unico modo per attaccarli era in primo luogo scegliere di condurre la battaglia d'estate, cercare di ridurre i tuhum alla fame devastando le terrazze coltivate (una volta raggiunte!) e catturando i loro animali. Come fare però senza avere una guida sicura fra monti e passi invalicabili che potevano nascondere l'agguato in ogni angolo? E come riuscire a superare l'omertà che regnava fra le diverse etnie, unite in armi contro qualsiasi sconosciuto che osasse salire dalle valli sottostanti?
La storia della conquista di questa regione da parte degli invasori persiani e poi dell'Impero Russo è lunga e piena di sconfitte, giacché ogni sforzo fra i monti, se non dava l'esito sperato e la stagione fredda si avvicinava, costringeva a ritirarsi prontamente in blocco e l'attacco era sospeso in attesa di riprenderlo alla prossima stagione. Certo! A volte si riusciva a parlamentare con qualche capo di aùl ritenuto o reso dal nemico, con regali e promesse, più importante di altri... Tuttavia, se c'erano nemici umani da respingere con le armi, c'erano pure forze naturali ostili e invisibili, ma più insidiose e potenti, che andavano vinte per continuare a vivere e il paganesimo che noi assimiliamo oggi alla magia ha resistito nelle credenze popolari caucasiche, contro la pressione ideologica delle religioni monoteistiche che si sono avvicendate e malgrado l'ideologia socialista di pochi decenni fa. L'Islam giunse già nell'VIII sec. d.C. e pur radicandosi non riuscì o non ritenne utile cancellare le vecchie credenze nelle anime caucasiche (d'altronde queste credenze avevano superato vittoriosamente la pressione del cristianesimo precedente!). Scriveva ancora nel XV sec. Muhammad Rafi in Storia del Daghestan: «Gli abitanti del Daghestan sono stati pagani, gente piena di vizi e bellicosa. Adoravano gli idoli benché ricchi e arditi e tuttavia (restano) spregevoli più dei cani. Ogni villaggio ha il suo capo, uomo senza ritegno e vizioso … immerso nel peccato e nel paganesimo...».
Insomma qui si continuava a giurare nel modo antico, a disegnare segni apotropaici ovunque fosse possibile per difendere case e persone. Ancora oggi questi segni sulle case sono ripuliti e venerati e l'antropologo J.J. Karpov ha fotografato presso i Lachi un idolo fallico che la padrona di casa unge con olio nelle debite occasioni e un mattone con segni portafortuna (v. figure sopra!). Sono riti che corrispondono a antichissime venerazioni del sole e della luna, degli animali e delle piante totemici. D'altronde non sono un patrimonio religioso esclusivo del Caucaso, ma diffusi da millenni in tutta Europa come quando, ad es., quegli stessi segni li contempliamo pari-pari sui tetti dei trulli di Alberobello. Nel Caucaso però, siccome poi i riti e le preghiere per gli interessi comuni vanno celebrati insieme nelle feste comandate, ecco che il paganesimo in sé costituisce il cemento più forte che unisce il tuhum per sempre. E la casa entra in questo contesto come tempio della famiglia “viva”. Per questo motivo oltre al posizionamento del villaggio tutto intero che viene scelto facendo molta attenzione alla tradizione, anche la casa nella pianta e nelle orientazioni delle finestre e delle porte d'entrata deve rispettare i canoni antichi. E' tipico invece che per le case più a valle si preferisce la pianta circolare, mentre per quelle più in alto il quadrato. Lasciamo i monti qui e ci rivolgiamo a un popolo che ha avuto ruoli di rilievo nella storia della Pianura Russa e di tutta l'Europa e finanche dell'Africa settentrionale: gli Alani. Oggi ormai ridotti a poco più di un milione di persone, sono divisi, soltanto dalle beghe politiche di altri, in Alani di Montagna (sulle pendici nord e sud del Monte Kazbek) e Alani di Pianura del bacino del fiume Terek (ai piedi a nord del Monte Kazbek), pur sempre entrambi a gelosa guardia del già nominato Dar-i Al che sbarra il confine con la steppa ucraina. Il primo disegno che proponiamo qui sotto (da Les Alains di V. Kouznetsov e I. Lébédinsky, Paris 2005) riproduce, in base ai reperti archeologici degli scavi della capitale alana (il cui nome è ignoto) del VIII-XII sec. d.C. localizzata più o meno nelle vicinanze di Soči, una casa ordinaria che potrebbe corrispondere al modello più diffuso nella detta epoca come la descrive l'etnologo V. Cagaev (in Zolotaia Jablonia Nartov, Vladikavkaz 2000). Il disegno accanto è la casa di pietra diffusa nei villaggi ancora oggi che possiede una cantina sotterranea sotto l'impiantito. La casa alano-osseta, hædzar, deve prima di ogni cosa essere assolutamente orientata verso est in modo che la mattina il dio-sole illumini l'interno. Il suo centro mistico è rappresentato dal focolare, art, intorno al quale si svolge ogni atto e ogni rito della vita famigliare. Alla casa è legata la divinità alana, Safa, il dio della fortuna, del tempo e che ha avuto come rappresentante sulla terra l'eponimo o patriarca ora, da defunto, in contatto diretto col dio supremo.
La casa alana è dominata dalla trave centrale che tiene uniti gli spioventi del tetto ed è perciò la parte più importante. Essa poggia su tre pali. Quello centrale nel bel mezzo dell'ambiente – a volte in certe case di pietra entra fin nella canna fumaria – è abbellito con pitture e sculture, mentre gli altri due fanno parte delle pareti opposte. Il palo centrale è l'albero mitico che con le radici nella terra sostiene il cielo e dunque rappresenta anche la scala per ascendere al dio del cielo. Dalla trave centrale pende una catena con il gancio che tiene sospesa sul fuoco la pentola di rame dove cuoce ogni minestra. I vicini Abkhasi, quando erano ospiti presso gli Alani, dicevano persino che tale pentola riusciva a contenere una quantità di minestra che poteva saziare fino a 100 persone! Si diceva pure che finché la catena fosse rimasta appesa, voleva dire che la famiglia avrebbe goduto della benedizione del cielo e che, se la si fosse tolta, la casa sarebbe crollata, magari non fisicamente, ma nella fortuna di chi vi continuasse ad abitare. La promessa sposa perciò compiva il primo rito di benvenuto nella nuova casa proprio presso la catena e così anche la partoriente. L'interno della casa è imperniata sulla sacralità del focolare, mentre il perimetro quadrato esterno rappresenta il tempo che passa e le stagioni che cambiano svoltando a ogni angolo.
Il fuoco, il palo, il cibo fanno parte di un mito fondamentale che vede la concessione della vita da parte del dio-padrone del mondo attraverso il cibo e con l'accettazione di tale dono da parte di ogni commensale, mediata dalla padrona di casa che ha cucinato, si riconosce il potere supremo del cielo. Prima di iniziare la consumazione perciò si deve dare il primo ringraziamento al dio supremo. Poi nel corso del pranzo si ringrazia la mediatrice-donna o Gran Madre e infine un terzo grazie va alla “soglia di casa”. Nella grande festa alana dell'Anno Nuovo, Nog Az, si intonava una canzone che inneggiava giusto alla catena e come essa fosse scivolata giù dal cielo fatta di cento anelli e con attaccata al gancio una pentola con 4 manici e come il fuoco di “corna di cervo” l'aspettava insieme con la famiglia per il nuovo anno. Una figura umana fatta di paglia (Badanta) è posta a capo del convito e rappresenta i defunti padroni di casa e a questo simulacro si parlava e si passavano le richieste dei famigliari ancor vivi. All'alba l'anima però volava via e tornava nel regno dei morti o Barastyru e il pupazzo era bruciato. Gli Alani avevano (e hanno) inoltre delle costruzioni di pietra molto speciali riservate ai morti sparse ai piedi del Kazbek come si può osservare nella figura a sinistra sopra (tratta da L. Arys-Djanaïeva – Parlons Ossète, Paris 2004). Sono chiamate Città dei Morti con un un calco dal greco nekropolis e c'è da dire che, a parte la religione diversa rispettiva, le analoghe Città dei Morti dei Vainahi o Ceceni-Ingusci sono praticamente indistinguibili nello stile e nell'uso da quelle alane. Costoro, pur non essendo imparentati linguisticamente con gli Alani, ne condividono infatti la cultura in moltissimi aspetti. Per di più nel Medioevo i Vainahi subirono continui attacchi da parte dei nomadi conquistatori dall'est e dal sud e ad ogni assalto dovevano evacuare le loro case. Si pensò allora di fornirsi di vere e proprie torri, peraltro già esistenti in tempi anteriori per l'osservazione, nelle quali rifugiarsi. Oggi queste case-torri ormai inservibili si possono ammirare come se fossero intere cittadine abbandonate nella figura sopra a destra (da V. I. Markovič/N.A. Samsonenko – Kamennaia Letopis', Moskva 1994) e rappresentano dei monumenti caratteristici (patrimonio dell'UNESCO) nella cornice unica dello squallido paesaggio caucasico di montagna.
N.B. La bibliografia consultata è citata nel testo, naturalmente nei lavori giudicati più importanti dall'autore.
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©2014 Aldo C. Marturano.