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MEDIOEVO RUSSO |
a cura di Aldo C. Marturano, pag. 67 |
La casa, lo smierd, l'artigianato, il lavoro.
Uno sguardo all'economia della campagna russa nel Medioevo
Dopo l'invasione tataro-mongola del XIII sec. d.C. la campagna russa restò abbandonata a sé e in grandissima parte in autogoverno fino al XVI-XVII sec. d.C. e i contadini, considerati niente più che vili animali, furono lasciati vivere, almeno rispetto alle genti di città, di una vita grama imbalsamati nelle loro foreste e abbarbicati alle loro tradizioni. La Chiesa Cristiana (ortodossa e specialmente del nordest – di Vladimir-sulla-Kliazma e poi di Mosca) in certo modo ebbe un ruolo pesante nello stabilizzare e allo stesso tempo nel godere di tale situazione e fu capace unicamente di esibire la facoltà di consolatrice sui generis inducendo e costringendo alla pazienza onde evitare sollevazioni o rivolte contro il potere. Persino i suoi preti, diaconi e assimilati, per definizione abituati all'obbedienza al proprio vescovo, diventarono altrettanti semplici contadini che vivevano del lavoro dei campi in autarchia e in autogoverno come gli altri... Che cosa intendiamo però con autogoverno e che rapporto aveva con la vita nell'izbà (la casa di campagna russa) e fuori di essa? Era forse e esclusivamente l'accesso alla decisione (votare) sui destini della propria comunità senza ingerenze di altri poteri estranei e diversi dall'assemblea degli anziani? Oppure significava spartire i frutti delle fatiche dei membri della comunità e dirimere le differenze che a volte seguivano alle spartizioni del terreno e delle messi? O forse ancora consigliare matrimoni e intimare traslochi? O infine celebrare propri riti e venerare propri dèi con propri sacerdoti? Attenzione però! Il nostro lettore non immagini da quanto finora detto circostanze simili o, peggio che mai, analoghe alle nostre odierne giacché qui si parla di qualche decina di persone che si riuniscono intorno agli anziani per discutere delle vicissitudini degli ultimi tempi. Qui una storia individuale facilmente diventa generale. Ricordiamo infatti che dobbiamo partire dal concetto che l'izbà sia un microcosmo dove chi vi abita nasce vive e muore, a parte eventuali migrazioni, ma che ha intorno altri microcosmi imparentati e che insieme fanno un villaggio o mir. Nello svolgersi delle nostre ricerche abbiamo pure visto che la casa è collegata non soltanto col momento dell'instaurazione dell'agricoltura e quindi con la produzione di prodotti, servizi e oggetti, ma anche con la nascita della concezione di attività lavorativa. Ecco perché occorre adesso vedere un po' meglio la questione del lavoro giacché fra il XII e il XIV sec. d.C. la parola non ha avuto nella Pianura Russa dal punto di vista storico gli stessi contenuti filosofici e giuridici che noi troviamo in Occidente. Già la parola russa moderna per lavoro, rabòta, ma è lo stesso per alcune altre lingue slave e non slave, è praticamente eguale a schiavitù (rab è schiavo in russo) e si distingue dal termine più antico trud che indica invece la fatica del lavorare. In termini più “scientifici” il lavoro è una trasformazione di energia sottratta al corpo e se come quando e perché ciò comporta una scelta in libertà allora il lavoro è una fatica attuata per necessità o convenienza. Senza libertà è invece una costrizione e in quest'ultimo caso, giacché parliamo dello smierd (termine russo spregiativo per contadino libero), questi l'accetterà unicamente se è imposta dagli dèi. D'altronde, siccome il solo vero lavoro che lo smierd conosce è svolto nei suoi campi, il primo riferimento pratico per qualsiasi attività lavorativa è di norma il calendario o meglio il dialogo con le forze divine che governano il tempo. Le osservazioni comuni suggerivano infatti nella natura tanti cicli ripetitivi di eventi, sebbene mai esattamente uguali, nei quali si era coinvolti proprio perché si stava lavorando la terra. I nomi slavi originali dei mesi, oggi quasi ovunque sostituiti da quelli ormai convenzionali, rispecchiavano giusto i fenomeni che la natura attraversava nei detti ciclici eventi. Niente di strano naturalmente, ma, sapendo che ogni giorno o ogni mese o qualsiasi altro periodo determinato dell'anno è sotto l'influsso di uno di questi eventi, il Paganesimo slavo, per giustificarne la realtà e per capirne per quanto possibile lo svolgimento, antropomorfizzava l'evento stesso. Lo interpretava e lo spiegava sotto la forma di lotte continue fra forze invisibili sovrumane e la tradizione avvertiva l'uomo in attività di stare ben attento a non fare da disturbatore, bensì ad agire da attore che contribuisce al miglioramento dell'universo, se voleva evitare guai a sé (persino la morte!) e ai suoi intimi... Sappiamo bene che la composizione dell'anno di 12 periodi lunari o mesi (il latino mensis o il russo mesjac significano sia luna che mese) era già stata ideata in Mesopotamia millenni prima dell'apparizione degli Slavi e era stata ereditata direttamente col racconto biblico dal Cristianesimo e dall'Islam. Piuttosto c'è da dire che il Cristianesimo da secoli ormai aveva optato per l'agricoltura come attività umana “santa”, seppure in contraddizione col mito di Caino e Abele in cui il primo, contadino, uccide il secondo, pastore vittima e fratello, e per questo suo fratricidio viene mandato maledetto e ramingo per il mondo dal dio creatore. Ci si appellava pure alla Genesi dove si legge (3, 17): “E (il signore dio) disse ad Adamo... maledetta è la terra per causa tua. Nel dolore ti nutrirai da essa per tutti i giorni della tua vita.” prefigurando nell'attività del lavorare i campi una condanna da scontare piuttosto che una necessità per una sopravvivenza più piacevole. Anche la Rus' di Kiev cristianizzatasi alla fine del X sec. d.C. accettò il modo di vita agricolo come l'unico modo di vita “civile” e marchiò invece “selvaggia” nelle sue Cronache del Tempo Passato ogni altra maniera di esistere e di abitare. Persino il posto occupato da tempi antichissimi dai nomadi pastori (evidenti discendenti di Abele!), le steppe, è detto con un tono dispregiativo in quelle cronache Campo Selvaggio o non coltivato ossia in russo Dìkoe Polje... L'attività contadina “cristiana” passava poi attraverso tutta una serie di festività patrocinate da un nugolo infinito di santi e sante ai quali ci si poteva rivolgere, nei riti prescritti e per mezzo del prete, per ottenerne protezione e benevolenza, ma non dimenticando mai che il lavoro è sofferenza. Vista l'enorme somiglianza di credenze nell'ambito calendario/lavoro dei campi, niente contrasti fra cristiani e pagani allora? E perché abbandonare il vecchio modo pagano di scandire il passare delle stagioni? Al limite si sarebbero dati dei nomi dei santi cristiani alle forze divine e si continuava secondo l'antica consuetudine, visto che i fenomeni ciclici alla fine erano i medesimi. Nel calendario nordico ci sono però due eventi celesti alle latitudini di Mosca (meno a Kiev), di Novgorod e di Bolgar-sul-Volga di fronte ai quali il Cristianesimo (X-XI sec. d.C.) e l'Islam (921 d.C.) si trovarono per la prima volta nella loro storia e ne rimasero impressionati per la spettacolarità: la lunghissima notte del solstizio invernale (24-25 dicembre) e il lunghissimo giorno del solstizio estivo (24-25 giugno. Su queste date e su questi eventi era basata gran parte della mitologia nordica come pure certi riferimenti nella vita attiva di chi abitava a tali latitudini. Ne tennero mai conto i due monoteismi che stavano colonizzando con le loro ideologie la Pianura Russa e il resto della Slavia? Non lo sappiamo di certo. Ci preme al contrario sottolineare che altro era il modo in cui il Paganesimo slavo percepiva questi fenomeni. Le domande fatidiche che la gente si poneva preoccupata erano: E se il sole non tornasse più? O peggio: Chi garantiva che ritornasse il fresco della notte e che invece tutto non bruciasse sotto il torrido sole estivo (si giunge ancor oggi a temperature intorno ai 40° C per molte ore)? Insomma occorreva porsi in contatto con gli antenati che questi eventi avevano finora superato e con la loro sapienza ne erano usciti indenni. Per questi motivi l'anno cominciava non prima di essersi assicurati che il sole sarebbe ritornato in cielo. I sacerdoti si ponevano in attesa che la luce tornasse a crescere nel firmamento e a loro era affidato il compito di superare la paura terribile collettiva impetrando l'intervento degli eponimi presso gli dèi. Soltanto così, dopo sette magici giorni (in russo koljady) ovvero più o meno al 1° di gennaio, ritornava la normalità. Gli elementi culturali e pratici descritti fin qui in realtà si basano su un grosso bagaglio culturale portato dalla tradizione slavo-russa, ma che certamente non tutto è puramente slavo. Molti concetti sono in debito con le culture delle varie etnie della Pianura Russa e possiamo immaginare quanto difficile e laborioso per delle religioni istituzionalizzate, cristiana o islamica, che non ammettevano eccezioni e disprezzavano i pagani per principio, fosse entrare, compenetrare e eliminare queste tradizioni “diaboliche” (per i cristiani) e “idolatre” (per i musulmani). Se si voleva conquistare questa gente, non c'era scelta: l'unica maniera era riuscire a installarsi nella loro casa, se non fisicamente almeno “spiritualmente”! Purtroppo conosciamo abbastanza bene Cristianesimo e Islam e conosciamo abbastanza male il Paganesimo del Grande Nord e, sebbene i paragoni fra queste mitologie siano incerti e ambigui, per inciso dobbiamo notare a nostro vantaggio che le concezioni pagane sono sopravvissute nella Pianura Russa (almeno nel corpus folcloristico) meglio che in altre regioni slave. Per il nostro assunto ciò è fondamentale. Anzi! Ci si permetta come prova di ricordare che il Paganesimo lo si ritrova ancora oggi in veste ufficiale nella Repubblica dei Mari (Mari El) tanto che il Presidente eletto, Vladislav Zotin, è stato consacrato nel 1992 in pompa magna dai locali Vescovo ortodosso e Gran Sacerdote pagano. Ciò detto, continuiamo il breve discorso sul lavoro e sui suoi intrecci religiosi e culturali per poi passare all'autarchia contadina. Dunque il lavoro! Al presente è un'attività mercificata, misurata e pesata in un complicatissimo gioco fra offerta e domanda esattamente come un qualsiasi oggetto che si scambia ricevendone denaro e dove l'uomo non conta più come essere vivente, ma solo come venditore o compratore. Non solo! Non c'è più nel lavoro il significato di attività individuale condotta per mantenersi, per vivere e per migliorare la propria vita e quella della comunità, ma è decaduto a una parte di tempo di vita da sacrificare per poter avere del denaro da spendere... pena la decadenza fisica e morale! Il discorso è molto articolato e vivo e noi non possiamo affrontarlo, senza trascurare il nostro tema che è invece altro. Più semplicemente diciamo che nella campagna russa medievale il lavoro rispondeva esclusivamente alla domanda per un prodotto (diverso dal cibo che comunque si donava a chiunque non ne avesse e lo chiedesse) e appariva come la maestria di chi sapeva produrre e niente più. Alla stessa stregua era visto un servizio e cioè come un favore fatto al vicino senza tener conto di ricompense e, solo nel caso peggiore, poteva diventare un'oppressione da subire per evitare la morte. L'individuo, lo ripetiamo, agiva/lavorava per la comunità perché questa gli garantiva oltre alla vita fisica (il cibo) la difesa totale in qualsiasi frangente della vita... purché si rispettassero i riti fissati nel lontano passato e che la tradizione aveva conservato. Ed ecco riapparire sempre più spesso la parola tradizione che dovrebbe spiegare e chiarire la visione del mondo. Malgrado tutto la tradizione non è una serie di regole e di concetti immutabili. Assolutamente no! La tradizione non si oppone genericamente né all'evoluzione tecnica né alle esperienze scientifiche nuove. Anzi! Periodicamente si trasforma in scienza e scibile da insegnare ai giovani, cambiando solo di nome (la scienza, l'istruzione, la materia di insegnamento e simili). E siccome è presente in tutte le società umane in forme più o meno simili, se di primitività si vuol parlare per attribuirla al contadino medievale della Pianura Russa in particolare in ambito lavorativo e produttivo, è bene non tirarla in ballo, ma si noti invece come le comunicazioni fossero insufficienti per gli scambi e come le ideologie imposte fossero totalizzanti o, peggio che mai, come l'arbitrio del potere ostacolava l'evoluzione culturale. Alla fine non vediamo un'arretratezza congenita né una caparbia opposizione dello smierd al sapere e di conseguenza non ci permettiamo di giudicare negativi in toto i principi olistico-pagani. Muoversi e agire nel reale d'altro canto è molto difficile sempre e ovunque. Gli ostacoli da superare non vanno semplicemente eliminati, ma capiti e studiati e, se ci sono, vuol dire che gli dèi li hanno voluti porre là dove si trovano. Il confronto dell'uomo medievale con la natura insomma era cauto e attento e nei dubbi la tradizione, appunto, suggeriva la soluzione con riti e celebrazioni che tutti apprezzavano e di cui si tutti fidavano. Ed ecco alcuni riti pagani che la Chiesa dové “consacrare” suo malgrado per non “impedire” il lavoro agricolo che alimentava (kormlenie) letteralmente l'élite al potere! Ad esempio, prima di introdurre un seme nel terreno, occorreva il permesso dalla dea Madre Umida Terra e la tradizione indicava come si poteva ottenerlo. In più la si doveva ringraziare donandole l'ultimo covone che era abbandonato alla fine della mietitura. Lo stesso rispetto verso di lei c'era nel decidere quando cominciare a lavorare i campi giacché, se si trasgrediva e si andava in campagna prima delle Radunicy (ricorrenza pagana che cadeva poco prima della Pasqua e ricordava gli antenati), la medesima dea avrebbe risposto con una siccità e una carestia per tutti. La comunità, il mir, non deve essere dunque offesa con atti inconsulti di riti trascurati! Il mir è fatto di vicinanze e di parentele che sono il baluardo per l'individuo che vi appartiene e, poiché la parola è un atto reale che può far male, non si deve mai parlar male degli altri! Se lo si fa, sicuramente dopo qualche tempo ecco che quelle parole oltraggiose ritorneranno proprio nell'izbà del trasgressore sotto forma di un fantasma orribile e vendicatore che lo tormenterà. Un aspetto tipico delle prescrizioni della tradizione è la ripartizione delle fatiche fisiche della vita quotidiana fra i sessi, più che fra le età. Legata alle gerarchie del gruppo-famiglia-villaggio “patriarcale”, il lavoro femminile distinto da quello maschile era una divisione inevitabile per la coesione della grande famiglia slava, tanto che per questa ragione il giovane/la giovane era educato/a non ad essere maschio o femmina a tutti i costi, ma a vedere nella differenza sessuale un destino economicamente predeterminato. Ciò permetteva non solo di avere un posto assegnato di fronte agli altri membri parenti e amici, ma pure di riconoscere subito chi era “intitolato” a eseguire certi lavori, sebbene poi non ci risulta ancora una ben chiara descrizione di ogni attività. Da un lato ciò è logico dato che non si è ancora giunti a una produzione di massa che risponde a logiche moderne di mercato e dall'altro è indispensabile tuttavia che chiunque sappia fare o debba saper fare qualsiasi cosa, costretto o comandato. La versatilità resta la virtù maggiormente stimata a quei tempi, mentre lo specialista opposto al contadino per principio era negato. D'altronde su quest'ultimo punto non è stato provato fino ad oggi che si possa essere dotati potenzialmente di facoltà particolari e eccezionali, ma che al contrario nelle condizioni ambientali favorevoli qualunque persona, da bravo prodotto culturale di una certa società, può esprimere il meglio di sé. Nella visione pagano-slava perciò chi sapeva far meglio di altri qualcosa non era esaltato e “mercificato” come si fa oggi, ma semplicemente gli veniva riconosciuto uno sguardo particolare su di lui da parte degli dèi e... unicamente per il tempo che consumava nell'abilità per la quale era conosciuto! Era inaccettabile che un membro della grande famiglia, per il solo fatto di sapere far qualcosa meglio di altri perché magari l'aveva fatto più volte e aveva più esperienza, potesse essere esentato dalle attività di base e si dedicasse alla sua specialità... mentre gli altri gli procuravano da mangiare! Il fattore tempo aveva un grande ruolo in queste cose giacché con i pochi strumenti di cui si disponeva creare, fare un certo oggetto implicava un grande dispendio di tempo e la logica economica indicava che tale tempo fosse disponibile solo nella quiescenza invernale... quando infatti il maschio, in particolare, non aveva granché da fare! Guai ancora se l'eccezionalità individuale andava fuori dagli schemi di normalità fissati nella tradizione! Ad esempio un individuo mentalmente disturbato o fisicamente disabile in modo grave, era isolato e rifiutato, se non fosse stata già soppresso accorgendosi della sua anomala diversità nei primi mesi dalla nascita. Eppure gli artigiani da tempo stavano cominciando a diventare importanti per le realtà cittadine della Pianura Russa. A Bolgar-sul-Volga dal principio del X sec. d.C. tutta una parte della grande città era stata costruita vicino alla piazza del mercato e riservata agli artigiani con le vie divisorie fra specialità e specialità. Così era stato organizzato anche il Podil di Kiev o della capitale càzara, Itil, per non menzionare la repubblica di Grande Novgorod. Si era nei secoli della grande rinascita del mercato compratore di Costantinopoli dopo la stasi dovuta alle invasioni arabe e nella Pianura Russa si rispondeva con la formazione, un po' alla volta, di una “casta” (di maschi per lo più) di cosiddetti specialisti nelle produzioni “non agricole”. A questo proposito però sorsero alcuni problemi che i Rjurikidi, la dinastia al potere negli stati russi, non riuscirono a risolvere per il meglio senza ricorrere alla forza e al ricatto e cioè: Un artigiano, se non gli si dà da produrre, perché mantenerlo? E come controllarlo nel progresso del suo lavoro quando gli si è affidata una materia prima costosissima? Se poi teniamo presente che la materia prima sono metalli da importare o pellicce pregiate o quant'altro che il “committente principe” deve procurarsi la faccenda diventa ancor più complicata! La soluzione globale in questi casi fu spesso quella di render l'artigiano schiavo tramite un contratto a vita o holopstvo e addirittura con la sua famiglia in ostaggio, in modo che il legame con i suoi gli impedisse di fuggir via. A. Guagnini, visitatore italo-polacco del XVII sec. d.C. a Mosca scrive: «Il lavoro degli artigiani di solito si paga con pochi soldi. Quando poi aumenta il prezzo del pane per costoro è difficile comprarne con quello che guadagnano lavorando per tutta una giornata». Quando in seguito arrivarono i Tataro-mongoli nel XIII sec. d.C., ovunque trovassero artigiani gli invasori li prelevavano e li mandavano a Qara Qorum a servizio del Gran Khan, sconvolgendo quelle situazioni cittadine “artigianali” finora consolidatesi tanto che si cominciò a temere da parte dei principi russi che i loro specialisti migliori potessero attirare l'invidia dei Tatari e che questi prima o poi li avrebbero deportati senza por tempo in mezzo. E' una situazione che durerà fino all'emancipazione di Mosca nel XV sec. d.C. dal giogo tataro, ma che si fissò in certe strane informazioni (rimaste nelle byliny o favole russe fino a oggi) per cui si spargeva la voce che far fare un certo oggetto era complicatissimo giacché l'artigiano non era reperibile o lontanissimo o prigioniero di un mostro e simili altri racconti fantastici. Noi però lasciamo qui la questione e torniamo alla campagna e al suo artigianato riservato all'uso e al consumo della grande famiglia. La maggior parte delle volte i lavori maschili inoltre erano svolti fuori di casa e logicamente nella spartizione degli spazi, la porzione minore non poteva che toccare al maschio, seppur quella di maggior prestigio data la natura patriarcale dell'organizzazione domestica. Quale? Nell'izbà era l'angolo bello, il belyi kut, dove sappiamo che ci fosse un piccolo santuario domestico costituito da oggetti e strumenti sacri particolari o da oggetti appartenuti ai defunti e che si arricchisce col Cristianesimo di icone, croci e altarini. Se però nella bella stagione l'uomo si levava all'alba e non tornava a casa prima del tramonto dal lavoro nei campi, la stagione fredda poteva essere impiegata ad attività da svolgere nello spazio domestico a lui riservato. Essendo ingenuo pensare che gli abitanti maschi della Pianura Russa facessero tutti le stesse cose su un territorio così esteso e altrettanto vario dal punto di vista etnico, solo rifacendoci alla tradizione riusciamo a distinguere meglio quali fossero le necessità e i bisogni istituzionalizzati e a chi, uomo o donna, fosse affidato il compito di sopperirvi e con quali mezzi. E dunque partiamo dagli strumenti e dalla materia prima più importante affidata alle mani del maschio, il legno. Intanto un dettaglio tecnico importante da menzionare e da lamentarsi è che questo materiale, pur essendo la più diffusa materia prima in casa e nella campagna, costituisce un problema archeologico imbarazzante. Il legno infatti lascia pochissime tracce nel campo di scavo, specie se si tratta di oggetti non voluminosi o non infissi nel terreno per cui le suppellettili e gli arnesi fatti di legno sono reperti rarissimi. Gli archeologi hanno scavato molti tipi di strumenti di solito in ferro per lavorare il legno diffusi in tutta la Slavia fra il XI e il XIII sec. d.C. Nelle figure qui sotto (da M. Semjònova, op. cit.) sono disegnati, a sinistra, due tipi di ascia/accetta (russo topor): sopra è quella che con un lungo manico può diventare un'arma micidiale e sotto quella “da falegname” con dimensioni ridotte e talmente comune da essere usata come moneta di scambio fra gli Ugro-finni. Quanto alle seghe (russo pilà) ne sono state trovate sia lunghe oltre i 2 m con i denti triangolari ritagliati nella lama sia con piccole pieghe a zig-zag (più facili da fare!). Se ne sono trovate persino piccole e con le lame a nastro fini e dentate tese fra un arco di legno, come si vede nell'altra figura in basso insieme con ceselli e altri strumenti di punta.
Naturalmente le collezioni disegnate qui e che si vedono nei musei non significa che esse fossero il corredo di un solo utente falegname giacché in ogni caso gli strumenti a disposizione in ogni izbà erano pochissimi e vigeva l'uso nei villaggi di scambiarseli con i vicini evitando costosi doppioni. Possiamo allora immaginare che, se occorre scavare, ad esempio, per fare contenitori oppure forare per fare incastri e congegni rotanti o lisciare etc., tutto ciò si fa a mano con pazienza e con un'enorme perdita di tempo, diremmo noi oggi. Un errore può significare la rottura o l'abbandono del pezzo già iniziato e doverne ricominciare un altro. Facciamo ancora una considerazione. Se gli dèi aiutavano il lavoratore in generale nelle sue attività, pure gli strumenti e gli arnesi andavano difesi dalle forze invisibili ostili, nečistye sily. Di qui scaturiva l'obbligo di custodirli in un luogo appartato, ma sicuro e lontano dalle donne! Così prescriveva la tradizione e così l'abbiamo constatato nella vita di casa del Grande Nord... L'armamentario metallico comunque è raramente di rame e solitamente è di ferro, ma per molto tempo certi strumenti vennero dal Mar Baltico occidentale e dal Centro Asia. Successivamente in tempi più recenti (XIII sec. d.C.) il ferro fu di provenienza locale cioè quando si cominciò a cercarne e a trovarne in buone quantità nelle paludi (ferro meteorico) e lo si scambiò grezzo, questa “pietra nera”, per strumenti o oggetti fatti dai fabbri . Per molto tempo intanto non si seppe (o non si osò) lavorarlo dato che fucinare etc. era per il contadino un'attività misteriosa e pericolosa e si temevano gli uomini che piegavano, scioglievano e formavano una pietra con l'azione del fuoco. In seguito lo smierd imparò anche lui a lavorare il ferro a contatto con i fabbri (di origine quasi sempre caucasica) che accompagnavano i nomadi pastori, ma la società contadina tradizionale non andò oltre la grande conquista “sociale” di accettare nel mir (ma non nel dvor!) la presenza di un fabbro e concesse che costui s'impegnasse a svolgere il suo lavoro, ma unicamente “su ordinazione” e isolato e lontano dal villaggio stesso! E, malgrado l'uso del fuoco, lavorare il ferro restò un lavoro maschile e naturalmente un esperto fabbro ferraio interessò moltissimo il potere che aveva una domanda crescente di armi e altre ammennicoli militari... Dunque l'uomo che non lavora i campi d'inverno si dedica a una serie di altri lavori e lo fa in spazi appositi, a lui riservati. Attenzione però! Da quanto abbiamo detto finora, non si lavorava al chiuso a causa del clima o altro, ma perché in casa ci si trovava in ambiente protetto, puliti nel fisico e nel cuore, e si poteva esser sicuri di eseguire tutto nel migliore dei modi perché gli déi ci avrebbero assistiti. Qui sotto (da V.V. Aleksandrov, op. cit.) diamo un esempio di come appariva quella che possiamo chiamare un'officina in un dvor coperto nel nord della Pianura Russa. Si noti la slitta, il truogolo, la scala a gradini, la macina rotante e poco altro, dato che gli strumenti si portano addosso e da riporre non ce ne sono molti...
Nell'immagine qui sotto invece c'è un'intera ger di un fabbro ferraio delle steppe ucraine descritta dal tedesco P. S. Pallas (da I. Lébédinsky, v. bibl.) ancora nel XVIII sec. dove, ripetiamolo, alle donne era vietato entrare!
Quali altri oggetti/luoghi troviamo adesso nell'izbà che suggeriscano della attività domestiche? Chi come noi indaga il periodo medievale e non trova menzioni chiare nei documenti scritti sull'oggettistica esistente nella campagna russa, non potrà che rivolgersi all'arredamento che ancor oggi si usa, attentissimo alle stratificazioni culturali accumulate nei secoli. Assodato ciò, alla fine ci siamo affidati allo storico del XIX sec. d.C. N.I. Kostomarov il quale, nel descrivere quel che riuscì a raccogliere sulla vita in casa dei russi del suo tempo, dà un quadro abbastanza accurato degli interni domestici e di conseguenza (entro certi limiti) può fare da sfondo abbastanza affidabile per la nostra storia. Il nostro autore comincia dall'arredo sacro del belyi kut col dire che nella campagna c'era una particolare preferenza per i ritratti e per le figure dipinte ossia per le icone sacre che si eseguivano non tanto in ateliers specializzati, ma a casa da parte di chi vi si sapeva dedicare nella quiete dell'inverno, salvo farsele benedire dal prete. Argomento interessante, ma, ahimè, impossibile da estendere acriticamente a tutta la Pianura Russa dove il Cristianesimo ancora non dominava ovunque e dove gli amuleti erano più importanti delle immagini sacre per tacere degli ambienti domestici musulmani dove la figure umane dipinte erano aborrite. Agganciandoci a questa topica però lavorare il legno, dipingerlo, scolpirlo, rifinirlo era di certo un'attività domestica. Anzi, era l'industria regina della repubblica novgorodese. Lavorare il legno si inseriva nella gamma di attività del Cantone dei Falegnami sulla Riva del Mercato della città dove si eseguivano non solo manutenzioni navali per i natanti dei mercanti che risalivano o scendevano lungo il fiume Volhov, ma si fabbricavano e si fornivano elementi di arredamento, strumenti, contenitori, telai, aratri, remi, pegole etc. insieme con statue di prima qualità da incorporare nello scafo o in un piedritto della porta di casa etc. a scopo apotropaico o per abbellimento. Se a Novgorod esistevano scuole di iconografia famose che sfornarono artisti eccellenti come Andrei Rubljòv, per lo smierd che scuola c'era? Visitando oggi i musei del legno (o comunque un museo qualsiasi) noi osserviamo gli oggetti in mostra e ammiriamo sculture, pitture, ricami considerandoli degli oggetti abbelliti dall'arte umana perché generalmente ignoriamo il vero significato di quel “lavoro in più” che ai nostri occhi li rende “belli”. In realtà l'abbellimento era un elemento magico-religioso e serviva prima di ogni altra cosa a coprire gli oggetti di segni che garantissero la protezione della rispettiva “funzionalità” efficacemente e a lungo contro le nečistye sily. Insomma non esisteva una vera libertà di scelta dei soggetti da ritrarre né dei simboli, dei materiali, dei colori... La pittura ad ogni buon conto nella civiltà contadina si apprezzava meglio sulle suppellettili di casa e qui sotto nelle figure vediamo quelle di base che non mancavano in nessuna izbà. Mentre molti oggetti raffigurati qui sotto (a sinistra tratti da O.N. Selegina, v. bibl., e a destra da L.V. Belovinskii, v. bibl.) sono fatti sono prevalentemente in legno o con scorza di betulla e di tiglio e persino con cuoio (specie per gli otri e più in uso nella steppa), fra i materiali di altri appare il ferro (ghisa e fucinato) che, ripetiamo, è un apporto tardivo del XIV sec. d.C. Notiamo allora la pentola (a) per cuocere zuppe e stufati chiamata čugunka che, riempita degli ingredienti, veniva immessa nella pečka posta sul treppiedi o tagan/taganka. Nel passato però invece del treppiedi e della pentola di ghisa (o di bronzo) si usava un bel pentolone di coccio con tre piedini sul fondo. Il secchio di legno o vedrò è destinato a tirar su l'acqua dal pozzo, mentre le botticelle sono per le bevande alcoliche rituali (l'idromele o mjod). In questi articoli si nota la tecnica delle doghe strette insieme dai vimini e non da fascette di ferro come avverrà in seguito.
La cassapanca o sunduk inoltre serviva per riporvi il corredo e altri tessuti e il cucchiaione o kovš/kuvšin fungeva da scodella da cui si sorbiva la zuppa e lo si reggeva dal grosso manico. Non esistevano piatti e di solito, se si trattava a volte di dover tagliare della carne, lo si faceva sulla lavka o sulla ridotta piattaforma davanti alla bocca della pečka e nelle cene all'esterno su ceppi/resti di tronchi lisciati. Se mancano i corni bovini per bere è perché essi si usavano esclusivamente per le libagioni. Notevole è ancora la lučina o svetec cioè un ramoscello di betulla che intriso com'era di resina (djogot) bruciava con un buon profumo e faceva luce. Senza scendere nei particolari rileviamo che i soggetti da dipingere restarono senz'altro le nature morte con bestie e fiori e di certo raffiguravano vari elementi folcloristici o magici come ninfe e esseri immaginari, mentre si evitavano i paesaggi ritenendo ridicolo riprodurli quando era possibile guardarli da sé nella realtà né potendone immaginare di diversi di quelli creati dagli dèi. Nei disegni qui riprodotti le superfici sono nude, ma in realtà ovunque si potesse (se l'oggetto non veniva a contatto col fuoco o con l'acqua) risultano sempre dipinte preferendo il color rosso. Guardando l'izbà dall'esterno, si nota la scultura di una testa di cavallo o (più raramente) di gallo sulla punta rivolta alla strada dell'ohlùpen'. Il cavallo infatti era l'animale del Sole, ma anche il gallo era accettato nella scultura dell'ohlùpen' giacché era il membro della famiglia che per primo vedeva il sole tornare nel cielo e come segno cristiano ricordava il tradimento dell'apostolo Pietro. Anzi! Siccome le nečistye sily agivano nell'oscurità e di notte più volentieri, il gallo col suo canto le scacciava immediatamente al mattino e alla fine chi si avvicinava al dom vedendo queste sculture deduceva subito che la casa era ben protetta.
Lungo i gocciolatoi delle varie coperture esterne il ricco vi aggiungeva assi di legno merlettate per tutta la lunghezza sulle cui punte rivolte all'ingiù poi si sarebbero formati i caratteristici ghiaccioli durante l'inverno che gocciolando avrebbero avvertito quando s'avvicinava la primavera. C'è da dire che, mentre l'ohlùpen' “doveva” avere la detta scultura animalesca, l'asse con merletti era invece un fregio voluttuario e costoso, se si pensa soltanto al fatto che occorre prima procurarsi i tronchi da “affettare” e poi scolpirli con ore di lavoro da sacrificare ad altre attività magari più utili. All'interno dell'izbà le pareti, la lavka, le ante delle porte erano dipinte, ma non la pečka forse per ragioni tecniche e nelle cartoline museali qui sopra di una casa russa (regione degli Urali, da V.A. Baradulin v. bibl.) si può ammirare l'ambiente colorato del XIX sec. d.C. che di certo ricalca gusti e moda di tanti secoli fa. Altro lavoro maschile fuori casa fu a lungo la raccolta del miele e della cera, quasi un monopolio dei Baškiri e degli Ugro-finni. Il prodotto si ricavava dal saccheggio periodico degli alveari selvatici che di solito si formavano nei cavi degli alberi e che occorreva svuotare prima di un temibile e vorace concorrente: l'orso! E il miele e la cera erano due prodotti che erano richiestissimi in tutta l'Europa medievale e il cui commercio controllava in grandissima parte Grande Novgorod. Sono però i cosiddetti “lavori femminili” che ci interessano di più perché all'occhio moderno esprimono il meglio del piacere artistico e della fantasia negli oggetti prodotti. Dipingeva quadri la donna? Tradizionalmente no, in base al principio che alla donna (e all'uomo) era vietato ritrarre il viso umano visto che ciò significava appropriarsi di una parte della persona e che su tal quadro si sarebbero potuti eseguire incantesimi dannosi e mortali. Persino gli specchi (di ottone lucidato) furono vietati dalla Chiesa in questo ambito anche perché in grande uso presso gli infedeli Bulgari del Volga i quali, al contrario, vi vedevano invece un legame col mondo celeste! Un'attività lavorativa in particolare va messa in evidenza qui: La tessitura. Noi sappiamo che è un'occupazione antichissima che appare all'inizio della sedentarizzazione dell'uomo e, abbinata con essa è la pianta tessile più antica conosciuta: il lino (Linum usitatissimum in russo ljòn). Com'è perciò naturale ogni izbà aveva il suo telaio, piccolo o grande. Il più diffuso nella Slavia era quello verticale che, subito dopo la trebbiatura, si montava e ci si metteva al lavoro insieme con tutte le altre donne di casa. Era però compito dell'uomo ripararlo, pulirlo e tenerlo in ordine prima e dopo averlo tirato giù dal čerdak. L'apparecchio (il disegno qui sotto è tratto da una cartolina museale con accanto i ricami dominanti nella campagna russa) da cui si traevano i teli da usare in casa era sotto il patrocinio della dea slavo-russa Mokoš o Mokošà, impersonata secondo i cristiani da santa Parascheva o santa del Venerdì e ogni tessitura andava appunto interrotta il venerdì e ripresa il lunedì.
Sui teli sotto forma di ricamo (benché raramente a impuntura perché era un lavoro troppo lungo da eseguire e senza luce sufficiente) con fili di diverso colore fra trama e ordito, la donna di casa riusciva a disegnare figure mitologiche stilizzate a seconda della destinazione del telo stesso. Le Cronache del Tempo Passato registrano inoltre la netta differenza, ad esempio, sull'aspetto dei teli “russi” e sulla loro qualità rispetto a quelli greci di Costantinopoli, ma non ne annota le particolarità pittografiche o i disegni. Era la stessa donna a coltivare in terreni separati vicino al fiume le piante tessili che usava: lino, canapa, prima di altre. Il lino non richiede terreni particolari e cresce quasi ovunque purché gli si dedichi una costante cura affinché cresca abbastanza alto da dare fibre lunghe e tenaci. Un po' prima che cominci fare i frutti viene estratto dal terreno con le radici e mai tagliato (la falce è un arnese maschile!) affinché le fibre risultino indenni da piegature e rotture. Dopodiché gli steli erano messi a macerare per qualche tempo finché le lunghe fibre si staccavano le une dalle altre. Per separare e scartare il collagene rimasto, le fibre erano scassate e pettinate e finalmente filate con i fusi verticali tradizionali. Il fuso e il contrappeso di argilla era uno strumento sacro e poteva essere usato soltanto dalla sua prima padrona tanto che il contrappeso portava il segno il nome di quest'ultima. Il filo infine era raggomitolato sull'arcolaio. I fili però richiedevano una colorazione con varie piante che si trovavano nella foresta e la preparazione e l'ottenimento dei colori vegetali nel cui bagno il filato doveva essere immerso era un lavoro complicato, lunghissimo e puzzolente. In particolare è da ricordare la galla della quercia per il nero, colore degli abiti dei notabili tatari. Ogni filato in colore era posto su un proprio arcolaio e da questo in lunghezze tagliate fisse e con un pesino legato al bandolo (se ne trovano moltissimi di questi pesini negli scavi!) si appendevano in un certo numero sul subbio superiore del telaio e rappresentavano l'ordito. Il resto del gomitolo costituiva la trama (o delle trame in colori diversi) e s'avvolgeva sulla sua navetta e quest'ultima, sebbene nella figura la trama si vede raccolta a lato senza navetta, era maneggiata solitamente dalle ragazze aiutanti nella tessitura la donna di casa più anziana, vera operatrice del telaio. La lana invece era importata dai nomadi e, non potendo usare lo stesso telaio, l'unica tecnica (che comunque arriverà tardi nel sud della Pianura Russa) da applicare su questa fibra animale era quella per fare il feltro il cui spessore e la cui delicatezza, se si aveva perizia, risultava ottima per farne panni e coperte. Non abbiamo trovato però notizie certe che tale lavoro fosse eseguito nelle campagne russe... E che cosa si produceva sul telaio che servisse nell'izbà? Abiti confezionati e cuciti certamente no e cortine neppure finché le finestre non si affermeranno e si diffonderanno. D'altronde a ben riflettere filare, tessere, cucire (che non sempre voleva dire la stessa cosa che noi oggi intendiamo usando ago e filo) e mettere insieme i panni per farne un abito, un mantello o una stuoia erano lavori che assorbivano molto tempo e quindi era più semplice ricorrere a bottoni e legacci o, se si riusciva a procurarsene, a fibbie di metallo e spilloni per tenere insieme più teli. Da quando era arrivato un prete e c'era una chiesa, il lavoro al telaio era aumentato di fatto e in certi casi si richiedeva la collaborazione dell'intero villaggio per certi lavori. Con la Chiesa però i disegni sui teli erano cambiati come pure i colori da usare poiché erano state introdotte numerose e complicate proibizioni “cristiane” sulla tessitura, sulle fibre tessili e sui colori. Non solo! Certi tessuti li tessevano gli stessi monaci affinché non si profanasse la loro santità con mani femminili. Un esempio? La tessitura e il ricamo dell'antimension (russo antimìns) specie di tovaglia sacra usata per l'altare dei templi ortodossi era eseguita interamente dai monaci. Ci siamo soffermati su questa industria domestica del lino giacché la richiesta di teli di questo materiale era enorme presso la gente di qualsiasi ceto per la biancheria di qualsiasi tipo e per quella intima specialmente. Un'attività così complicata non poteva tuttavia svolgersi nei podil o nei posad delle città-fortezze e raccogliere teli nella campagna rappresentò a lungo uno dei cespiti primari del tributo che le élites slavo-russe esigevano dal mondo contadino e avere una tessitrice o un tessitore nel terem era una delle aspirazioni maggiori dei principi e dei notabili. Un'altra attività femminile importantissima, stavolta però non del tutto “estraibile dall'izbà” era e resta preparare il cibo. Non solo, ma anche pozioni e decotti o, perché no?, veleni e eccitanti. L'argomento “cucina” però è troppo vasto e articolato per osare seppure riassumerlo e rimandiamo il lettore al nostro e.book Storia e Cucina nel Medioevo Russo. Noi qui aggiungiamo unicamente che alla donna era riservata la ricerca delle piante medicinali (oltre a quelle tintorie) e che verso l'autunno a partire già dal Solstizio estivo era consuetudine vedere donne anziane e ragazze lungo i fossi chinarsi per strappare uno stelo o tagliare un cespuglietto da riporre nel proprio sacco a tracolla. Queste erbe poi venivano poste a seccare non nell'ovin, ma su o dietro la pečka. Secche erano poi tritate a mano per poterne fare infusi vari. Altrimenti detto, l'attività di erboristeria e la farmacognosia erano prerogative femminili esclusive, come era ed è ancora nel resto dell'Europa. Un'attività maschile che va menzionata di sfuggita resta invece la guerra che coinvolgeva i giovani di casa. Non esisteva un reclutamento volontario, ma uno coatto che diventò regolare soltanto coi tataro-mongoli e con i loro censimenti e ripartizioni militari. Negli altri casi, quando ce n'era bisogno, i ragazzi venivano cercati nei villaggi e talvolta catturati per essere lanciati in qualche razzia o battaglia campale. Per il dvor ciò costituiva una sottrazione, dal punto di vista strettamente domestico-economico, di forze senza alcun vantaggio o ritorno e dunque una ragione in più per preferire la campagna alla società delle città-fortezze russe del tempo. Di qui la nostra ricerca sull'abitazione potrebbe continuare nelle case di città e nelle fortezze, ma esorbiteremmo dagli intenti che ci siamo posti, se ne parlassimo, e quindi diamo solo qualche indicazione a riguardo. La vita cittadina che si sviluppa fra il XIII e il XVI sec. d.C. infatti è molto diversa da un punto all'altro della Pianura Russa e per dare un'idea possiamo dire che nelle aree a dominazione cattolica sotto i Cavalieri Teutonici e affini o sotto le dinastie lituano-polacche le città si trasformano lentamente in centri amministrativi e vi nasce la prima borghesia. Un'enorme influenza in senso cittadino-borghese ha pure l'Hansa baltico-tedesca su Grande Novgorod almeno fino al 1500 mentre resta variegata e confusa la situazione nelle steppe del sud dove la società patriarcale si consolida. Le etnie turche presenti incontrano qui i mercanti (italiani per lo più), ma costoro sono interessati più a costruire depositi e mercati coperti con grossi muri di cinta che palazzi dove vivere e dal punto di vista culturale non trasmettono molto vista la loro precarietà. Probabilmente sono queste relazioni interetniche ad aver dato all'etnia circassa la possibilità di entrare nella storia come i Cosacchi e il loro stato, Sječ', nella seconda metà del XV sec. d.C. Per il resto, dato che si considera convenzionalmente il nordest come il centro di formazione dell'Impero Russo (e poi dell'URSS e della Russia moderna), rispetto alla capitale, Mosca, le altre città in questa area non avranno alcun grosso ruolo politico-culturale da diffondere nelle campagne ancora fino al XIX sec. d.C.
Bibliografia I lavori consultati su questo argomento sono un centinaio e in maggioranza in lingua russa. Chi fosse interessato può richiedermela o scaricarla da www.academia.edu
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©2014 Aldo C. Marturano.