VITO
ANTONIO LEUZZI |
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A Mezzogiorno tornarono i banditi cafoni
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Questione
meridionale: accadeva 50 anni fa.
Le lotte in Sicilia condotte dal pacifista Danilo Dolci per riconquistare una dignità alla gente del Sud. In Puglia l'azione di Tommaso Fiore. Due volumi e un processo che destò scalpore internazionale
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Ad alimentare 50 anni fa una presa di coscienza nazionale dell'enorme divario tra il Sud ed il resto dell'Italia, concorse la pubblicazione di un'ampia produzione meridionalista. Soprattutto i due saggi
Il cafone all'inferno di Tommaso Fiore e
Banditi a Partinico di Danilo Dolci. La pubblicazione dell'indagine di Fiore (in parte presentata sulla rivista di Calamandrei «Il Ponte» e su «Cronache Meridionali») avvenne per l'interessamento di Italo Calvino, uno dei responsabili editoriali della torinese Einaudi, che suggerì all'umanista di Altamura di modificare il titolo originario,
Quando non avevamo il pane. Mentre il libro-denuncia di Danilo Dolci, edito da Laterza, si avvalse della presentazione di Norberto Bobbio.
Le due inchieste sulla condizione del Mezzogiorno che, pur a cinque anni dall'avvio della Riforma agraria, era ancora afflitto da un immobilismo e da una arretratezza non solo economica, ma culturale e civile, suscitarono un largo dibattito sulla stampa dei primi mesi del 1956. L'umanista di Altamura aveva messo in luce la povertà diffusa e l'abbandono di alcune zone della Capitanata, in particolare dell'area
garganica e di Taranto vecchia, mentre l'intellettuale triestino aveva evidenziato il rapporto tra banditismo siciliano, analfabetismo e disoccupazione: nella zona di Partinico, su 33.000 abtitanti ben 350 erano fuorilegge.
In quegli anni si moltiplicavano le indagini di denuncia sulle condizioni di vita della popolazione delle aree meridionali più depresse. Nel 1954 l'antropologo barese Franco Cagnetta, pioniere della fotografia scientifica d'argomento etnologico, concludeva la sua Inchiesta su Orgosolo (Banditi a Orgosolo). Suscitò una vasta eco nell'opinione pubblica italiana nel marzo del 1956 il processo a Danilo Dolci davanti al Tribunale di Palermo per aver capeggiato una manifestazione di protesta contro le autorità che non avevano provveduto a dar lavoro ai disoccupati. Il sociologo ed educatore triestino (nato a Sesana, oggi in Slovenia), si era trasferito in Sicilia (Trappetto, Partinico), per promuovere nel solco dell'insegnamento di Aldo Capitini, lotte non violente contro la mafia e manifestazioni pacifiche per il lavoro e per i diritti sanciti dalla Costituzione. La manifestazione di Partinico era stata organizzata da Dolci dopo un lungo sciopero della fame che aveva mobilitato intellettuali di diverse regioni italiane.
Tommaso Fiore espresse la sua solidarietà a Dolci fornendone, dopo un viaggio in Sicilia, un efficace ritratto sul settimanale «Il Contemporaneao» del 7 dicembre 1955. Nell'articolo, con il titolo
La febbre civile. Digiunatore tra i
contadini, si legge: «Colui che eseguì il primo digiuno in Sicilia 3 anni fa e lo ha ripetuto in questi giorni trascinando al suo esempio contadini e misere donne, è un gentile scrittore di Trieste, sano e robusto. Io fui affettuosamente prelevato di sera dal treno e condotto nella terra dei Briganti. Mentre ponevo i piedi tra le pozzanghere della strada, il trentenne Danilo sorreggeva la mia tremante vecchiaia con le sue braccia robuste. Entrammo in una umile casa di contadini e intorno alla tavola sedevano 14 ragazzi, intorno a quegli che era il loro padre, Danilo, e alla loro mamma Vincenzina (una povera vedova, con cinque figli, le avevano ammazzato il marito senza
ragione). La mattina seguente lasciamo la piazzetta quadrata di Partinico. Il dolore mi ha quasi inebriato e fatto perdere il senso del tempo. Dunque appena usciti di casa, io sto lì fermo a guardare, un mucchio di immondizie grigio con un po' di verde. Non è molto alto, ma è come rassettato dal tempo. Dopo mezz'ora di auto, eccoci a Trappeto. Il Vallone centrale non è più un rivolo di escrementi; per opera del Dolci e del suo primo digiuno è stato ricoperto».
Danilo Dolci con la sua protesta pacifica
chiedeva l'attuazione dei diritti più elementari: la garanzia dell'istruzione ai ragazzi, un minimo di assistenza per le famiglie dei carcerati e condizioni di vita sopportabili. Nel febbraio del '56 la sua ennesima manifestazione non violenta ne determinò l'arresto, perché assieme ad alcuni disoccupati aveva iniziato i lavori di sterramento ed assestamento di una vecchia strada comunale abbandonata («sciopero a rovescio») nei pressi di Trappeto, con l'intento di dimostrare che non mancava la volontà di lavorare, in assonanza con l'articolo 4 della Costituzione che esaltava la funzione etica e civile del lavoro.
Il processo a Dolci si trasformò in processo all'articolo 4 della Carta Costituzionale, provocando una forte risonanza nazionale e internazionale. Alcuni giornali stranieri scrissero che «in Italia a chi chiede il rispetto della Costituzione si nega la libertà provvisoria». Calamandrei assieme a tanti altri giuristi si mobilitò per la difesa di questo «eroe civile», che aveva abbracciato la causa dei poveri in Sicilia, lottando contro la mafia ed i poteri forti. Nella sua arringa il giurista affermò: «Aiutateci, signori giudici, colla vostra sentenza, aiutate i morti che si sono sacrificati e aiutate i vivi a difendere questa Costituzione, che vuole dare a tutti i cittadini del nostro Paese pari giustizia e pari dignità».
Vito
Antonio Leuzzi
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