Dino
Messina |
|
La
storia non può essere una
corrida
|
|
Una
raccolta di saggi riflette
sull' uso giornalistico
delle memorie e dei
documenti
|
|
|
«A intervalli sempre più brevi la stampa rivela che Stalin, nei suoi
giovani anni, era un agente della polizia zarista, che Edoardo d'Inghilterra e la
sua moglie americana avevano forti simpatie per
Hitler, che Togliatti non fece nulla per strappare Gramsci al carcere, che Pio XII impedì la pubblicazione
dell' enciclica antinazista commissionata a un gesuita americano...». Il
nuovo libro di Sergio Romano, Giudizi della
storia, che esce da Rizzoli
(pagine 522), una raccolta di interventi e saggi apparsi prevalentemente
sul «Corriere della Sera», ma anche su «Relazioni
internazionali»,
«Nuova Storia Contemporanea», «Palomar e
«Prometeo», si apre con una pungente riflessione sullo
spazio sempre più ampio che da qualche anno le rievocazioni storiche
hanno conquistato nei mezzi di informazione. Romano individua almeno
due ragioni all' origine del fenomeno: da un lato il «grado di
magnitudine» degli eventi del Novecento; dall' altro le guerre civili che
dalla Rivoluzione d' Ottobre alla fine del secondo conflitto mondiale non
solo hanno dilaniato l' Europa, ma provocato una guerra delle memorie
con cui i vari popoli hanno cercato di metabolizzare la violenza del
secolo.
Questo controverso processo di elaborazione
del passato, spiega Romano, è più accentuato nei Paesi europei che hanno
perso la guerra, come l' Italia, la Germania e, in parte, la Francia, cosicché
gli italiani, «quando non si combattono nei tribunali, si combattono sul
terreno della storia e passano gran parte del loro tempo ad argomentare che
il fascismo è peggio del comunismo e viceversa». La lunga stagione delle
rivelazioni storiche sui quotidiani, oltre che figlia dell' apertura degli
archivi in Urss, Germania, Italia, Spagna, è anche è anche il frutto di
questa guerra politica condotta sul piano delle memorie contrapposte:
gli ex comunisti che rivendicano non a torto il grande ruolo avuto nella
Resistenza, e i neofascisti che chiedono un posto nella discussione
pubblica dopo il lungo «esilio interno».
La guerra ideologica delle memorie, che ha creato un vero mercato della
storia e con esso in gran parte il fenomeno del revisionismo, sembra ora
destinata ad esaurirsi per lasciare il posto a una nuova fase. «Si può tracciare un
diagramma - spiega Romano - in cui a un periodo di
negazione dell' orrore subito, seguono nelle generazioni successive
richieste di risarcimento morale, culminate nelle giornate della memoria,
un riconoscimento del ricordo per legge che io considero negativamente. Del resto, per capire quanto tempo
occorra per superare le divisioni di una grande guerra ideologica, basta
pensare che ancora negli anni Settanta e Ottanta dell' Ottocento in Francia
era viva la contrapposizione tra bonapartisti e
filoborbonici».
Al di là
dell'analisi sul secolo delle ideologie, resta la provocazione di Sergio
Romano, che tra i tanti saggi, ricordiamo, è autore di
Confessioni di un revisionista, sul «buono e cattivo uso della storia» da parte dei media.
«L' esercizio della rivelazione continua - aggiunge Romano -
spesso si è trasformato in una corrida dove il toro da abbattere è una
volta Lenin, una volta Mussolini, una volta i partigiani sanguinari, una volta l' efferato
repubblichino». Insomma, la «rivelazione quotidiana» fa
bene o male? Sentiamo le risposte di alcuni storici, studiosi e giornalisti.
Per Gian Enrico
Rusconi, professore ordinario di Scienza politica all' Università di Torino, «l'ideologizzazione
del discorso pubblico ha bisogno di risposte storiche, che non sempre gli
accademici sanno dare. Ma alla fine lo stimolo che viene dai mass media è
positivo: non soltanto per quanto riguarda il lavoro degli storici, che si
sono messi a scrivere un po' meglio, ma anche per la vasta minoranza interessata
ai temi del passato. A cominciare dagli studenti, meno preparati di una volta
sul terreno delle nozioni, ma più curiosi. Dopo aver letto una pagina di
giornale o aver visto un programma su Sky Tv o Rai Tre, i ragazzi
vengono in università a farci delle domande cui in qualche modo dobbiamo rispondere».
Un circolo virtuoso, dunque, testimoniato «anche dal fatto che la parola
revisionismo non viene più usata in un' accezione negativa». Certo, continua
Rusconi, «nell' uso pubblico della storia ci sono gli eccessi, i pezzi di
carta presentati come inediti, in realtà conosciuti da tempo. Raccontare
a un vasto pubblico temi conosciuti agli specialisti crea nuova domanda di
storia, il che non è affatto negativo».
Rusconi tuttavia segnala che una
fase della polemica storica sui giornali si va inesorabilmente esaurendo
(«che cosa abbiamo più da dire sul "triangolo rosso"?»), mentre si aprono
curiosità sul secondo dopoguerra, dagli anni Cinquanta ai Settanta. E poi
c' è la domanda creata dagli stessi media: «Non considero affatto negativa
tutta la discussione che c' è stata sul Codice da
Vinci, romanzo considerato mediocre che però ha aperto una serie di domande sui primi anni del cristianesimo».
Anche per Giorgio Bocca, giornalista che ha scritto una biografia di Togliatti
oltre a numerosi saggi sull' Italia tra il 1940 e il ' 45, stiamo vivendo
una stagione tutto sommato positiva, in cui non c' è soltanto
dissacrazione, ma tanta libertà di ricerca: «Negli anni in cui c' erano il re e il fascismo,
il discorso pubblico sulla storia era considerato un territorio sacro, buono
per le cerimonie ufficiali». Quest' atteggiamento sacrale è continuato in
forme diverse anche nel secondo dopoguerra: «I comunisti raccontavano le
vicende del Pci, i socialisti quelle del Psi e i cattolici le origini della
Dc e del Partito popolare. In questa accademia lottizzata c' era, per esempio
tra i comunisti, chi, come Ernesto Ragionieri, sosteneva tesi assurde e chi,
come Paolo Spriano, non negava l' evidenza dei documenti. Ma la stagione
non era ideale. Dopo la biografia di Togliatti, ne volevo fare una su De
Gasperi, ma dovetti rinunciare perché era difficile trovare i documenti.
Mi rivolsi per un aiuto a Giulio Andreotti, il quale mi rispose che su De
Gasperi c' era già il suo libro».
Critico sulla stagione delle «rivelazioni
quotidiane» è invece Giovanni De Luna, saggista brillante e docente di Storia
contemporanea all'Università di Torino: «Quel che affiora sulle pagine dei
quotidiane e nei programmi televisivi non è la storia, ma un uso pubblico
della storia. C' è un dibattito sui media che corre parallelo alla discussione
scientifica degli storici, senza mai toccarla. Da un quindicennio i nostri
giornali stanno parlando di guerra civile e ignorano che la ricerca, anche
grazie a una serie di nuovi documenti, ha stabilito che quella del 1943-45
è stata soprattutto una guerra ai civili. Sui media viene rappresentata una
storia saccheggiata a seconda delle congiunture politiche, una storia
che alimenta le memorie contrapposte e le divisioni del Paese. Con uno slogan
direi che per una cittadinanza matura abbiamo bisogno di più storia e meno
memoria».
Insomma, «meglio un elzeviro di Federico Chabod o di Rosario Romeo,
apprezzati solo in ambito accademico, o una intera pagina culturale,
che magari ha una ricaduta su radio e trasmissioni tv?», sintetizza Giovanni
Sabbatucci, docente di Storia contemporanea alla «Sapienza» di Roma, ma non
estraneo al mondo dei media. «A volte - continua Sabbatucci - la rivelazione
va a scapito della riflessione, però le pagine dei quotidiani hanno aperto
un mercato e nuove occasioni per accedere a una conoscenza più matura. Libero
ciascuno di coltivare le proprie ricerche, ma la domanda di storia va cavalcata
e controllata. Spetta ai giornalisti culturali evitare gli eccessi e alla
scuola colmare invece le lacune dei giornali, che raccontano una storia a
chiazze e insistono un po' sempre sugli stessi
temi».
Dino
Messina
|
|