di Luisa
Derosa
Introduzione - Le aree culturali - Le schede: Bitonto; Isole Tremiti |
Introduzione
- Organizzazione
spaziale, temi e modelli
Di
incerta etimologia, la parola mosaico indica la decorazione di una superficie
architettonica (pavimento, parete o soffitto) realizzata per mezzo di piccole
pietre, terrecotte e paste vitree saldamente fissate su uno strato di
supporto. Una tecnica di antichissima origine che prosegue ininterrottamente
dalla tarda Antichità per tutto il Medioevo, con le dovute differenze
regionali e cronologiche determinate dal sopravvivere delle tradizioni e dalla
diffusione di nuovi modelli secondo linee di sviluppo ben precise.
La
tecnica dei mosaici parietali è differente da quella dei mosaici pavimentali,
sia per quanto riguarda le operazioni di posa sia per quanto riguarda la
scelta dei materiali. Diversa è anche la concezione estetica che è alla base
del mosaico parietale. Ben lungi dal voler imitare la pittura murale, il
mosaico produce effetti di luce e di profondità che nessuna altra tecnica
monumentale sa eguagliare.
I
due tipi di decorazione, parietale e pavimentale, hanno in comune, invece, il
fatto di essere una delle forme di decorazione di lusso preferita dai ceti più
abbienti. Se attualmente gli esemplari rimastici sono tutti circoscritti in
ambito chiesastico-religioso, sappiamo con certezza che ne erano adornate
anche le sontuose dimore civili ed i castelli. Tra gli esempi più noti, le
residenze dei sovrani normanni a Palermo, risplendenti non solo di
raffinatissimi mosaici parietali, ma anche di sontuosi pavimenti musivi, come
quello descritto da Boudri de Burgueil agli inizi del XII secolo.
Se
nella residenza di
Castel del
Monte, in Puglia, un’esigua traccia in una
delle sale del pianterreno lascia intravedere una decorazione a motivi
geometrici con tessere di varie dimensioni in marmo bianco e ardesia, sappiamo
che altri mosaici con intarsi di “serpentini e porfidi e verdi antichi”
decoravano la regale dimora. La perdita pressoché totale della decorazioni
musiva civile impedisce di valutare quali rapporti intercorrevano tra queste
opere di ambito profano e quelle di ambito sacro. La loro conoscenza avrebbe
forse potuto aiutare a spiegare meglio alcune scelte iconografiche della
committenza ed a valutare appieno l’incidenza della cultura laica
all’interno di un più ampio discorso eminentemente religioso.
Il
mosaico pavimentale medievale viene anche definito “tappeto in pietra” per
sottolineare le qualità del materiale, un insieme di piccoli elementi
accostati per costituire una superficie decorata.
In
linea con la tecnica in uso dell’Antichità, nel Medioevo venivano
assemblati piccoli frammenti di marmo, pietra e pasta vitrea, ceramica e altri
materiali, chiamati tessere, disposti su un supporto per formare disegni
geometrici, floreali o figurati.
Nella
stesura musiva compaiono sia lastrine di marmo di una certa dimensione (opus
sectile) sia tessere di pietra più piccole (opus
tesselatum), spesso usate contemporaneamente per creare diversi effetti di
superficie.
Nel
sectile i pezzi di marmo, tagliati
in forma, sono accostati gli uni agli altri senza lasciare uno spazio
intermedio, come avviene invece nel tessellato. La posa in opera di questo
tipo di pavimenti richiede, dunque, l’intervento di maestranze specializzate
e tempi di realizzazione più lunghi, comportando, di conseguenza, costi di
realizzazione maggiori. Il suo utilizzo, oltre a sottolineare l’importanza
del luogo, è quindi segno del grado economico e sociale della committenza.
In
genere i materiali usati sono di provenienza locale. Diffuso è l’uso di
reimpiegare frammenti antichi, in particolare marmi, porfidi e altre pietre
dure. Nei pavimenti cosmateschi romani, ad esempio, i dischi di porfido o
marmo inseriti nelle trame geometriche provengono da colonne antiche tagliate
trasversalmente.
Se
si posseggono numerose fonti scritte relative a queste tecniche, rare sono le
fonti figurate. Tra queste la più completa rappresentazione relativa alla
preparazione del materiale musivo tesselato risale all’età romana. Si
tratta di un documento marmoreo conservato nel Museo degli Scavi di Ostia in
cui sono raffigurati alcuni operai intenti al taglio delle pietre.
Nell’immagine si vedono due operai seduti su sedili lignei dinanzi ad un
ceppo su cui è infisso il tagliolo, un attrezzo di acciaio di sezione
rettangolare con la parte tagliente rivolta verso l’alto. I frammenti di
pietra sopra collocati sono frazionati battendo il materiale per mezzo della
martellina, un attrezzo di forma affusolata con i bordi taglienti, secondo una
modalità in uso ancora oggi.
Le
tessere tagliate sono, in genere, nel Medioevo molto irregolari, di forma
vagamente trapezoidale e di dimensioni maggiori rispetto alle antiche. Il
supporto è costituito da una malta grossolana mista a ciotoli. Il numero
degli strati varia da uno a tre, per uno spessore totale di circa 3-15 cm, che
diminuisce in superficie. Lo strato superiore del letto di posa traspare in
superficie tra le tessere disposte irregolarmente.
Il pavimento a mosaico veniva eseguito generalmente al termine della costruzione dell’edificio, quando il suolo era livellato. Dopo la preparazione della malta di posa era eseguito un disegno preparatorio o sinopia con tratti di ocra rossa disegnati sulla superficie ancora fresca. Gli artigiani utilizzavano probabilmente cartoni o raccolte di modelli. Si trattava generalmente di repertori dove erano riportati motivi decorativi, figure umane e animali, piuttosto che progetti generali o temi iconografici. In Puglia, ad esempio, elementi identici si ritrovano sui pavimenti di Taranto, Otranto, Brindisi e Trani. Difficile è immaginare la circolazione dei disegni degli interi pavimenti. Più probabile è invece ipotizzare la circolazione di fonti figurative comuni, utilizzate di volta in volta per creare effetti e programmi differenti.
I
mosaicisti medievali organizzano il lavoro secondo tappe analoghe a quelle
seguite dai mosaicisti dell’antichità. Queste sono chiaramente
identificabili su taluni pavimenti in tessellato che hanno conservato tracce
delle linee di giunzione corrispondenti al limite raggiunto dalla disposizione
delle tessere lungo una linea continua, generalmente rettilinea. Queste
giunzioni corrispondono in genere alle stecche di legno che erano utilizzate
come una sorta di armatura per tenere insieme la malta di posa ancora fresca.
Tracce di queste interruzioni sono visibili ad Otranto come a Murano. Le
figure venivano realizzando tracciando il contorno con tessere generalmente
nere, un po’ più lunghe delle altre affondate in profondità nella sinopia.
A partire da questo schema compositivo di base le superfici venivano riempite
con una o più file di cubetti disposti generalmente lungo il perimetro, per
poi giungere progressivamente al rivestimento di tutto il fondo. Un esempio di
questo modo di procedere è perfettamente riconoscibile nella chiesa rinvenuta
sotto la
cattedrale di Bitonto, dove un monumentale grifone si staglia su un
fondo circolare di piccole tessere quadrate di colore bianco, con allineamenti
che partono dalla circonferenza e convergono variamente verso la figura
centrale, adattandosi alle diverse
forme degli interstizi, segno del simultaneo intervento di più maestranze.
I
tempi di realizzazione variavano a seconda della qualità dell’opera e
dell’estensione della superficie. Le iscrizioni del mosaico del duomo di
Otranto indicano che l’opera venne realizzata nel giro di pochi anni.
Il
mosaico era, come è facile intuire, un’opera collettiva, all’interno
della quale è difficile individuare l’intervento del singolo maestro. Nelle
iscrizioni, tuttavia, si incontra spesso il nome di un artista, in genere in
luoghi privilegiati come l’altare o, ancora più frequentemente,
all’ingresso dell’edificio, in una posizione tale da poter essere
immediatamente letto. Sappiamo che i maestri mosaicisti occupavano un posto di
rilievo nella categoria degli artisti medievali. Per tale motivo si trova
sovente la distinzione, nella documentazione, tra il pictor immaginarius,
ovvero colui che traduceva in un organico progetto i desideri della
committenza, ed il musivarius,
ovvero colui che interveniva nella messa in opera delle tessere. Sebbene sia
difficile distinguere le diverse mani che hanno atteso alla realizzazione
dell’opera, attraverso la scelta del colore, il taglio delle tessere e la
loro disposizione nel letto di malta emergono in modo chiaro le diverse
scelte, anche stilistiche, di ciascun artista.
In
Puglia si conservano i nomi di due maestri, tramandatici attraverso alcune
iscrizione: Pantaleone e Petroius,
il primo probabilmente pictor
immaginarius del mosaico di Otranto, il secondo di quello, quasi del tutto
perduto, di Taranto. Pantaleone si definisce presbiter, ovvero sacerdote, secondo una lunga tradizione che nella
regione aveva visto altri religiosi rivestire panni di artisti, primo fra
tutti lo scultore Acceptus, autore
delle suppellettili liturgiche di
Siponto,
Monte Sant’Angelo e
Canosa, o
ancora in pieno Duecento Nicolaus,
autore del pulpito di Bitonto e del campanile della cattedrale di Trani.
L’espressione per manus che
precede il nome di Pantaleone gli conferisce, comunque, un ruolo attivo nella
realizzazione del mosaico. La sua creazione viene definita opus
insigne.
è
probabile che lo stesso artista, o la sua bottega, sia
intervenuto nella decorazione del mosaico della cattedrale di Trani. Al di là
di queste osservazioni la personalità di queste maestranze sfugge e si perde
nell’anonimato del lavoro di bottega.
Diverso
il caso della committenza. Si tratta sempre di figure di ecclesiastici:
l’arcivescovo Gionata ad Otranto, Guglielmo a Brindisi, Girardo a Taranto.
Se volgiamo lo sguardo verso altre aree geografiche la situazione si ripete.
In Calabria a Santa Maria del Patir compare l’abate Biagio; un altro abate,
Guglielmo, figura in una iscrizione nel San Giovanni Evangelista di Ravenna. A
Ganaigobie, negli alti Pirenei è il priore Bertrant, a Lescar, nella Francia
centrale, il vescovo Gui. E gli esempi potrebbero continuare. Ad Otranto il
nome del committente compare per ben tre volte nella decorazione del
pavimento, a dimostrazione dell’intento celebrativo che l’arcivescovo
Guglielmo volle affidare alle iscrizioni. Ma ancora altri nessi possono essere
stabiliti tra le immagini del pavimento e la personalità del committente.
Nella stessa Otranto la scelta del ciclo di Giona nella conca absidale è
stata interpretata come una sorta di parallelo tra il profeta dell’Antico
Testamento e l’arcivescovo stesso.
Non
abbiamo, invece, alcuna indicazione circa i possibili finanziatori di queste
opere. è
possibile ipotizzare che per complessi decorativi così costosi
come i mosaici pavimentali, gli oneri dell’impresa non fossero sostenuti
esclusivamente dalle chiese locali, sia pure ricche e potenti. Soprattutto nel
periodo normanno, quando i nuovi conquistatori, per legittimare il loro
potere, patrocinarono le costruzioni di chiese e monasteri ottenendo in tal
modo l’appoggio del clero e delle comunità locali, potrebbero esserci state
anche per i mosaici diverse modalità di finanziamento. Difficile invece
sostenere, come è stato fatto, un apporto economico diretto di Guglielmo II
nel mosaico di Otranto, che d’altro canto sarebbe stato evidenziato nella
stessa iscrizione.
Il grifo: particolare del pavimento musivo della Cattedrale di Bitonto
Organizzazione spaziale, temi e modelli
Le
immagini dei pavimenti sono concepite per essere scoperte a mano a mano che si
avanza nell’edificio, mai globalmente, cosa che, se pensiamo ai casi in cui
la decorazione musiva ricopriva l’intera superficie dell’edificio sacro,
sarebbe stata impossibile. In genere ognuna di esse è in rapporto con la
parte del monumento in cui si trova, navata, coro, altare, spazio tra le
colonne e così via. Nei casi pugliesi che saranno di seguito presi in esame,
le navate presentano decorazioni varie, suddivise in pannelli o inscritte
entro rotae, liberamente disposte su
un fondo neutro caratterizzato indifferentemente da ornati geometrici o
vegetali o figurati. Ogni stesura è inquadrata da una o più cornici, mentre
in genere lo spazio tra i pilastri è costituito da pannelli stretti e
allungati. Le epigrafi musive sono collocate dinanzi al presbiterio (Otranto),
in alcuni casi tagliano trasversalmente la navata (Taranto, Otranto) o sono
disposte all’estremità occidentale di quest’ultima (Otranto, Brindisi).
La zona presbiteriale è spesso caratterizzata dalla presenza di decorazioni
trasversali costituite da un pannello simbolico con composizioni coordinate di
animali entro clipei annodati (Tremiti) o da motivi entro rotae (Otranto, Brindisi, Taranto) Frequenti sono anche composizioni
a registri sovrapposti con temi di carattere narrativo (Otranto, Brindisi,
Giovinazzo). L’organizzazione liturgica degli spazi determina, in Puglia ma
anche altrove, la distribuzione dei temi. Taluni soggetti, come Cristo, la
Vergine ed in generale temi del Nuovo Testamento, sono esclusi a priori dal
mosaico pavimentale, poiché sarebbe irrispettoso camminare su di essi.
Le
rappresentazioni che si trovano sui pavimenti appartengono a serie
iconografiche molto caratteristiche. Innanzitutto l’Antico Testamento, con
specifici episodi ricorrenti che prefigurano il Nuovo Testamento: Adamo ed
Eva, le storie di Sansone, Giona, Davide. In Puglia le scene più ricorrenti
sono quelle del Peccato originale e della conseguente Cacciata dal Paradiso
terrestre, della vita di Noé, di Caino e Abele, di Sansone, oltre
all’imponente ciclo di Giona nell’abside di Otranto. Assenti sono, invece,
episodi relativi alla vita dei santi locali, ampiamente diffusi altrove.
Frequenti
sono, inoltre, temi tratti dalla mitologia e dall’antichità e cicli
ispirati alla letteratura, alla storia e alle leggende popolari, come quelli
che fanno riferimento all’ascensione di Alessandro Magno (in Puglia
largamente presente a Otranto, Taranto e Trani), alla leggenda di Re Artù o
ai cicli epici, come le imprese dei paladini di Francia (di cui a Brindisi,
città sulla rotta delle crociate, erano un tempo raffigurate varie scene).
Un
altro gruppo di immagini caratteristiche dei pavimenti musivi sono le
rappresentazioni cosmologiche e geografiche. Le raffigurazioni dei dodici mesi
dell’anno accompagnate dai segni zodiacali compaiono, ad esempio, ad
Otranto.
Ma
le immagini più comuni sono, senza dubbio, quelle degli animali, reali o
fantastici, popolarissime
nel medioevo attraverso i
Bestiari, raccolte di storie moralizzate sugli
animali. Collezioni di exempla per i
sermoni e le prediche, i Bestiari costituiscono una raccolta di storie sulle
meraviglie della natura, in grado di esaltare la fantasia medievale, frutto
della percezione cristiana dell’universo. Queste raccolte, ispirate al Physiologus
antico, trattato di storia naturale moralizzata risalente al II-III secolo d.C.,
presentano, accanto alla descrizione di ogni animale, un’allegoria relativa
al suo naturale o immaginario comportamento.
Molti
pavimenti presentano figure di animali tratti dai bestiari, racchiusi in
cerchi (o rotae). Tale motivo
costituisce uno dei temi decorativi più comuni nelle stoffe seriche che
dall’Oriente si diffusero nell’Occidente medievale. Il motivo a clipei
seriali, già presente nel mondo persiano o sassanide e dominante in Europa
almeno fino alla fine del Duecento, rappresenta un tema che dai tessuti fu
ampiamente tradotto nei più diversi media
artistici. A partire dall’XI secolo con la nascita delle città marinare –
Amalfi, Genova, Pisa – e Venezia, e soprattutto con le crociate e
l’occupazione latina di Costantinopoli (1204-1253), l’importazione di
sete, soprattutto da Bisanzio, crebbe con un ritmo notevole, al punto che
cominciarono a sorgere manifatture anche in Italia, Spagna e Francia. Di
questa grande diffusione, nonché della traduzione di schemi compositivi e
motivi iconografici desunti da tessuti, esistono numerosissime testimonianze
soprattutto nell’ambito della scultura e dei pavimenti a mosaico. Va del
resto tenuto presente che questi motivi divennero parte integrante di un
consolidato repertorio di immagini a cui attinsero gli artisti medievali. Essi
facevano parte del patrimonio comune della cultura artistica di quei secoli.
Ricordiamo che la seta era utilizzata anche a ornamento dell’edificio di
culto, nelle stoffe da parato e nei tendaggi, funzionali questi ultimi a
circoscrivere gli spazi secondo un uso che appare assai comune soprattutto
prima dell’età romanica quando sono documentate vela
alle pareti, negli spazi tra le colonne del corpo longitudinale, nelle pergule
o nei cibori.
Se
si è sempre ripetuto che il mosaico pavimentale imita i tappeti che ornavano
le chiese e i palazzi e la stessa disposizione dei vari pannelli musivi fa
spesso pensare all’aspetto dei pavimenti ricoperti di tappeti delle moschee
islamiche, resta indubbio che lo stile dei pavimenti si apparenta a quello
delle altre arti della regione in cui si trova l’edificio.
Le
raffigurazioni di animali araldici costituiscono, nel XII secolo, una
tipologia di immagini consolidata e diffusa in modo capillare in Occidente e
in Oriente. I continui confronti tra le opere pugliesi ed il trono ligneo di
Montevergine, che presenta appunto una decorazione di animali entro clipei, o
alcuni olifanti in avorio di produzione siciliana o pugliese, va dunque
inquadrata all’interno di un più vasto campo di diffusione di questo tema.
Ciò che evoca invece il rapporto con il mondo bizantino è la presenza, ad
esempio a Taranto, Otranto e Trani, di una rosetta o di un semplice cerchio
sulle cosce degli animali, che richiama l’usanza islamica di marchiare il
corpo dell’animale come segno di possesso.
Un
altro motivo frequente nella decorazione dei pavimenti pugliesi è costituito
dall’inserzione nelle cornici che delimitano le diverse zone del mosaico, di
caratteri cufici o pseudo-cufici. Si tratta di un tema ornamentale
frequentemente utilizzato nell’arte meridionale e siciliana.
Oltre a componenti di matrice orientale sono ravvisabili nei mosaici pugliesi anche altri “segni” di marca occidentale. Lo stesso carattere narrativo delle scene del mosaico di Otranto disposte nella navata principale e articolate lungo una fascia continua trova un convincente parallelo con la decorazione a ricamo dell’arazzo di Bayeux. Simile è il meccanismo narrativo di ridurre le sequenze a poche azioni, con pochi protagonisti; l’espressività dei gesti e delle raffigurazioni è affidata, in entrambi i casi, al colore e le azioni sono scelte in funzione non di un racconto storico ma di un più ampio significato religioso (ricordiamo che l’arazzo veniva esposto nella cattedrale di Bayeux durante la festa del santo protettore. Se oggi l’arazzo è un opera unica del suo genere, sappiamo che tra il IX e l’XI secolo ne esistettero altri esemplari in ambito scandinavo, inglese e anglosassone. Non è quindi impossibile pensare che opere simili o comunque ricordi di queste realizzazioni giungessero anche nel sud Italia, in particolare in Sicilia nell’ambito della corte normanna, dove molteplici erano i rapporti con la corte inglese che culmineranno, di li a poco, con il matrimonio del re Guglielmo II con Giovanna d’Inghilterra, figlia del re inglese. Componenti inglesi sono state ravvisate in Sicilia tanto nel campo della produzione miniata quanto in quello dell’architettura. Non è un caso, inoltre, che tali motivi si ritrovino ad Otranto in un opera commissionata da un arcivescovo che con la corte di Palermo dovette avere intensi e consolidati rapporti e che in due iscrizioni celebra la grandezza del sovrano Guglielmo.
I
temi ed i modelli sin qui trattati sono stati spesso considerati dalla critica
come espressione di una cultura artistica affermatasi e sviluppatasi in età
normanna. Il fatto che tutti i mosaici pugliesi figurati siano stati
realizzati tra l’XI e il XII secolo, indicherebbe che si tratta di una
cultura espressione di un determinato ceto dominante. A favore di tale ipotesi
sono coloro che considerano le tematiche profane ampiamente presenti nelle
decorazioni musive, veicoli di messaggi legati al potere, come nel caso di
Otranto dove la presenza in due iscrizioni, del nome di Guglielmo I di
Sicilia, accompagnata dai titoli di magnificus
rex e di triunphator, ha fatto
interpretare il mosaico anche come documento politico, rivolto in particolare
alla esaltazione della monarchia normanna.
In questo caso un mezzo ornamentale come il mosaico si trasforma in uno strumento di comunicazione ideologica.
Alcune parti di questo capitolo sono tratte da: X. BARRALT I ALTET, Il mosaico pavimentale, in La pittura in Italia. L’Altomedioevo, Milano 1994, pp. 480-498.