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La salubrità dell'aria e dell'acqua nel Mezzogiorno normanno-svevo [*]
è
opinione diffusa che lo stato di
degrado ambientale in cui attualmente versa il nostro pianeta sia il risultato
di alcune scelte operate dall’uomo sul lungo periodo. Tali scelte non sempre
si sono dimostrate le migliori perché certe modifiche e trasformazioni,
compiute in maniera non «razionale» e inseguendo la logica del profitto e del
guadagno, hanno finito col compromettere l’equilibrio delle forze naturali.
Questa catastrofe ecologica è considerata figlia del progresso tecnologico: le
stesse idee di degrado e inquinamento oggi vengono messe comunemente in
relazione con l’industrializzazione selvaggia, con lo smog, con la
deforestazione e così via. Il degrado ambientale insomma sembra essere tipico
delle società industrializzate. In realtà forme di degrado ambientale, certo
diverse e non catastrofiche come le attuali, erano già presenti nelle società
preindustrializzate: si pensi al lavoro compiuto tra il XIII e il XIV secolo dai
Comuni dell’Italia centrosettentrionale, i quali si preoccuparono non solo di
rafforzare il processo di urbanizzazione del territorio, ma anche del «decoro
urbano». Certamente questa preoccupazione era dettata da una sorta di
sentimento di orgoglio civico, di ambizione per l’aspetto della propria città,
fomentato dalle ostilità e dalle incessanti lotte tra i singoli centri. La città
doveva essere bella e per questo furono messe a punto norme statutarie
concernenti la sua manutenzione, e istituite magistrature che ne curavano
l’applicazione e l’osservanza. Gli Statuti cittadini prevedevano
innanzitutto che essa non fosse deturpata dagli edifici rovinati, data
l’usanza di distruggere case o altre costruzioni per ricavarne legna e pietre
da vendere o riutilizzare. Per il suo stesso decoro, ma anche per favorire il
commercio, era prevista la manutenzione di vie e strade interne, in modo da
rendere più agevole il viaggio a mercanti e viandanti. Le strade, infatti, non
si presentavano più fangose come in passato, bensì ricoperte di ghiaia o
pietre levigate. La città inoltre non doveva offrire spettacoli sgradevoli, per
cui, ad esempio, le forche cui venivano appesi i criminali venivano poste in
luoghi non molto centrali; le capre e tutti quegli animali dannosi alle piante e
per giunta puzzolenti, dovevano essere allontanati dal centro abitato; piazze,
vie, portici, canali, strade, dovevano essere tenuti puliti e agibili, per cui
non vi si poteva gettare acqua dalle finestre, tenere animali sotto i portici o
nelle piazze, né tanto meno depositarvi letame. In taluni casi si ordinò
addirittura di togliere gli alberi selvatici dalle città, di piantarne di
domestici in campagna e di praticare determinate coltivazioni1
Nonostante
le norme e i divieti le condizioni igieniche dell’ambiente non erano ancora
delle migliori, perché minacciate comunque dai residui nocivi e maleodoranti
delle diverse attività produttive: si pensi all’allevamento dei bachi da seta2,
alla macerazione della canapa e del lino e ai lavori di macelleria. Tuttavia
l’elemento che contribuiva a rendere irrespirabile e insalubre l’aria,
soprattutto nel contado, era una pratica molto diffusa: la raccolta e la
conservazione del letame. Uno dei principali responsabili della bassa
produttività era, come è noto, la scarsità di fertilizzanti. Il fertilizzante
per eccellenza era il letame, in particolare gli escrementi degli animali: non
ce n’era mai abbastanza, tanto che i contadini che coltivavano terre in
prossimità delle città acquistavano regolarmente dai proprietari dei vuoti
pozzi cittadini interi carri di «maleodoranti rifiuti umani». Accadeva che,
essendo il letame una materia di importanza essenziale, il contadino ne curava
la raccolta e la conservazione. Queste due operazioni «quanto a igiene o
fragranza non erano tali da entusiasmare chi contadino non era». Né va
sottaciuta l’usanza, diffusa soprattutto tra i più poveri, di raccogliere il
letame per strada quando lo si trovava e di portarselo a casa, dove veniva
cumulato fino a raggiungere una quantità che poteva essere venduta3
Per
l’Italia meridionale non si posseggono attestazioni relative a questa curiosa
usanza; tuttavia sappiamo che sia i sovrani svevi che quelli angioini si
preoccuparono di contenere il degrado urbano, varando una serie di
provvedimenti.
Le Costituzioni di Melfi emanate da Federico II nel 1231 contengono la prima raccolta organica di leggi sanitarie del mondo occidentale; leggi che, raccolte nel Liber III, sono divisibili grosso modo in due capitoli: norme di deontologia e pratica professionale, e ordinamenti di polizia sanitaria4.
Il De Renzi, lo studioso che si è occupato più da vicino del Liber III delle Costituzioni, ha avanzato un’ipotesi suggestiva circa la sua stesura, e cioè che Giovanni da Procida, medico della corte sveva, avrebbe partecipato alla legiferazione, in quanto quei paragrafi potevano essere stati concepiti solo da un esperto di medicina. L’ipotesi è priva di fondamento per due motivi: innanzitutto mancano documenti coevi che attestino la notizia, e poi le leggi sanitarie non furono scritte ex novo, dal momento che Federico II rielaborò quelle precedentemente emanate dal normanno Ruggero II [5].
Nel
titolo XLVIII, «De conservatione aeris», Federico emanò una serie di norme a
difesa della salubrità dell’aria, intuendo una relazione tra il degrado
ambientale e certe lavorazioni artigianali nocive.
«Nulli
amodo liceat in aquis cuiuslibet civitatis [vel castri] vicinis, quantum
milliare ad minus protenditur, linum vel cannabem ad maturandum ponere»
perché «aeris ... corrumpatur». A
quanti disattendevano l’ordine veniva sequestrata la canapa o il lino [6]
La
legislazione federiciana rimase in vigore anche nei secoli successivi.
A Napoli nel 1300 Carlo II, in seguito ad una vivace protesta degli abitanti, sottopose ad una operazione di bonifica la zona circostante il Ponte Guizzardo, dove l’aria era malsana e fetida a causa della macerazione del lino nei fusari [7]. Qualche anno dopo, nel luglio 1306, fu ordinato lo sgombero di altri tre fusari: il primo si trasferì «ultra Santa Maria ad Dullolum in loco qui dicitur Campum Servionem»; il secondo «in locum S. Mariae ad Dullolum»; il terzo «in loco ubi dicitur ad tertium» [8].
Ancora
un esempio: «Le curature de lini possano curare purché siano distanti due miglia da
la città et se ne butta l’acqua»,
così si legge in due privilegi del XVI secolo a favore dell’Università di
Bitonto, per la quale l’industria del lino costituiva uno dei principali
cespiti d’introito. « Le vere acque
dove se curano decti lini sono in la marina, le quali parte per non essere
capace alla quantità de li lini se
fanno, parte ancora per la suspectione grandissima et ruina grande ce successe,
dove più e più fiate ci sono stati facti schiavi da turchi». Per la qual
cosa l’Università chiedeva ed otteneva il 6 gennaio 1550 dal marchese di
Bitonto don Conzalo Fernandez de Cordova «che
si possono curare de lini in tutti li
laghi soliti curarsi, tanto più che li padroni si obbligano et essa Univ. promette a vostra Excellentia che subito levati
che saranno li lini de l’acqua cavare et buttare l’acqua fuori, in tanto che
non potrà generare mal odore alla città et li poveri se potranno servire
de lloro antique et solite commodità» [9].
Tre anni dopo l’Università supplicava il cardinale Pacecco Pietro, viceré di
Napoli, «per quanto da tanto tempo che
non è memoria di homo in contrario, alcuni cittadini hanno avuto et hanno
alcuni laghi de acqua de curare lini infra milliare verso la città de Botonto
et contro la Costituzione del regno hanno curato detto lino; et, perché al
presente sono vetati, supplicano vostra Signoria
ill. mo ... permettere che possano curare ad causa che se perderà la gabella et
industria che molta importa ad essa università, stante li eccessivi debiti
nelle quali si ritrova, tanto più che dicti cittadini et patroni se offeriscono
in continenti, cavando il lino buttare l’acqua fora de dicti laghi». I
Bitontini speravano, e a ragione, di ottenere il permesso perché esisteva un
precedente: «il simile è stato concesso, alla terra de Terliczo» [10]
«Cadavera ... et sordes, quae foetore faciunt, per eos, quorum fuerint coria», potevano essere lavorati a non meno di un quarto di miglio dai centri abitati, così recita il titolo XLVIII delle Costituzioni federiciane: la pena prevista per i trasgressori era «pro canibus et aliis animalibus, quae maiora sunt canibus, unum augustalem, pro minoribus dimidium». Federico tuttavia consentiva che sia i residui della macerazione del lino e della canapa che quelli della lavorazione del cuoio «vel in mari vel in flumine proici ... debere» [11].
La
produzione del cuoiame, ha scritto Anna Maria Nada Patrone, serviva unicamente a
soddisfare le esigenze locali, visto che si
posseggono testimonianze di esportazioni tutte a breve raggio e soltanto
all’interno del regno: a Napoli, ad esempio, si vendevano cuoi bovini di
Sicilia [12].
Nelle città del Regnum esistevano sia
delle vere e proprie contrade dette «conciarie», come a Palermo, dov’erano ubicate nel centro
commerciale, fuori dalle cerchia del vecchio Cassero, che delle strade «di
mestiere», come a Messina, dove fin dal XII secolo c’era una «ruga
conzarie». La presenza di questi laboratori nel centro abitato è da
considerarsi anomala, perché i luoghi destinati alla lavorazione delle pelli
con i relativi residui solidi e liquidi, spesso abbandonati nelle strade o negli
scarichi all’aperto, erano considerati fortemente inquinanti. Da corna, unghie
e pelli, infatti, si sprigionavano in fase di decomposizione anidride solforosa,
tiolo, solfuro di idrogeno ed ammoniaca; mentre gli animali «grassi»
producevano vapori carboniosi come i formaldeidi, fortemente tossici. Tutto ciò
era noto sin dall’antichità, tanto è vero che tali attività furono
confinate extra moenia e regolamentate
da norme severe e limitative, per impedire che la puzza ammorbasse il centro
abitato e che i resti organici inquinassero le acque. Bisognerà aspettare le
Costituzioni federiciane perché venisse stabilita con precisione la distanza
(non meno di un quarto di miglio dai centri abitati) cui era permesso
abbandonare i residui della lavorazione. È possibile ritrovare provvedimenti
simili solo nelle Assise di Corleone, di Pietro II d’Aragona, e negli Statuti
della città dell’Aquila del 1315. E’ probabile che queste norme risalissero
sin alla fondazione dell’Aquila, località interessata alla lavorazione e al
commercio del pellame (lo fu anche nei secoli seguenti). Negli Statuti, simili a
quelli dei Comuni centrosettentrionali, era
contemplato il divieto di gettare sulle strade pubbliche l’acqua della
concia «vel ossa seu cornua ..., rasuram
coriorum»; di tenere appese davanti alla propria casa «aliqua
coria cruda vel consa colantia»; di stendere sulla strada per farle seccare
«coria recentia, putrida, pilose»;
di «decoriare coria equorum, molorum, asinorum» nell’abitato o ridare vigore al cuoio
secco nelle fonti cittadine. Si può ipotizzare che tali misure di igiene
pubblica, anche se poco testimoniate, fossero in vigore in tutto il regno già
da tempo, anticipando gli anni dello spostamento delle concerie extra
moenia, come accadde in alcuni centri calabresi, a Trapani e a Palermo, dove
Federico III proibì nel 1330 ai conciatori di «gittare
mortilla in lo fiumi de la conceria ca fora in preludicio di lo porto e de lo
fiumi», sotto pena di 4 once e di «extindiri
coyra davanti li porti di li vicini loro, ipsi non volenti zo consintiri»,
sotto pena di un augustale [13]
A Napoli la rimozione delle concerie dal centro risale al regno di Carlo II, in occasione dei lavori di ristrutturazione urbana. Le concerie, infatti, erano ubicate in Piazza dei Pistasi, nella regione di Forcella. Lo sgombero fu ordinato perché «magna pars civitatis ipsius redebatur sordiola, aer eius infectus». Le concerie furono trasferite per sempre in un luogo libero situato «extra civitatem eandem in loco, qui Moricinum dicitur, prope ecclesiam S. Mariae Ordinis Carmelitanum». Il divieto riguardò anche tutti gli altri luoghi della città in cui sorgevano le concerie [14].
La
maggior parte delle concerie era gestita da privati, anche se nel XIII secolo
non mancarono casi di possesso da parte di ricche abbazie, ad esempio quella di
Montecassino, che ne gestiva ben quattro delle sei esistenti nel territorio di
S. Benedetto.
Prima
della concia vera e propria lavoratori non specializzati, assunti nei primi mesi
dell’inverno, eseguivano tutta una serie di operazioni preliminari, necessarie
sia per le pelli fresche, ossia quelle provenienti dalle beccherie o dai
cacciatori, sia per quelle secche, scorticate da tempo, dure, raggrinzite e
spesso salate per una migliore conservazione. Le prime dovevano essere liberate
dei residui di carne e ossa dagli excoriatores
e poi deterse; le seconde invece dovevano essere rinverdite nelle acque e
deterse. Se ne deduce che tutte le concerie dovevano sorgere presso un corso
d’acqua per poter eseguire queste operazioni. I cuoi venivano poi messi nelle troscie
(buche di forma quadrata, scavate nella terra, profonde 60-70 cm.) ricolme di
acqua cotta, ossia bollita in una caldaia con una dose di concia [15]
(era necessario quindi disporre anche di grossi quantitativi di legna da
ardere). La «malza», cioè l’acqua
di concia, era fortemente inquinante e maleodorante, come si evince dagli
Statuti dell’Aquila in cui si dice che «pelliczariorum civitatem
deturpat». Il fetore era, infatti, avvertito nei pressi del palazzo regio,
di quello della Camera, del vescovato e della piazza del mercato: ciò significa
che le botteghe dei conciatori e dei pellicciai sorgevano anche all’Aquila nel
centro cittadino.
Anche i ciabattini erano impegnati in una, sia pur modesta, attività di concia: nelle Assise di Corleone emanate da Pietro II d’Aragona, ma a lui precedenti, si vietava ai corviserii sia di gettare l’acqua fetida dei loro vasi per strada durante il giorno, che di seccare sulle piazze e sulle strade private «coira pillosa» [16].
Nonostante i molti e drastici interventi angioini e aragonesi per bonificare l’aria, ancora nel 1500 gli strumenti e le strutture utilizzate per la concia delle pelli e per la tintoria, attività «lorde» per eccellenza, continuarono ovunque a provocare «mal’aere e puzzo grande» [17].
Dagli esempi fin qui riportati si può comprendere perché quella dei conciatori fosse una categoria mal tollerata: Beniamino da Tudela nel XII secolo scriveva, a proposito di Costantinopoli, che nei confronti degli artigiani ebrei c’era «molto odio, provocato dai conciatori di pelli, che gettano via la loro acqua sporca davanti alle porte delle case degli Ebrei ed insozzano il quartiere ebraico» [18]. Gli episodi di intolleranza nei confronti dei conciatori ebrei tra gli abitanti del Regnum crebbero maggiormente nei secoli successivi: nel 1464 l’Università di Taranto chiedeva a Ferdinando d’Aragona «che la conza del corame se debia fare da fore la cita de Taranto et non dentro la terra, salvo che in quelle quactro case quale sonno dentro vicino alla porta dovo è solito de farse per conservatione de lo bono ayro de la dicta cita» [19].
L’espulsione dalle città di certi mestieri divenne, sul finire del Medioevo, un dato generalizzato. A Palermo vennero espulsi dapprima i trappeti da zucchero e poi, nel XV secolo, le concerie. Nel secolo successivo fu la volta di Patti, sempre in Sicilia, dove il governo cittadino inaugurò una politica di maggiore sanità ambientale. Le uniche attività di trasformazione che rimasero al suo interno furono quelle dei filatori, dei tessitori e dei tavernai, i quali vinificavano nelle botti delle taverne perché il vino mal tollerava il trasporto. Le fornaci della terra cotta e della maiolica invece furono espulse non solo a Patti, ma anche a Palermo, Trapani e in Calabria [20].
Le
tintorie, ossia i luoghi in cui si praticava la tintura dei panni, erano
presenti su tutto il territorio meridionale, a Trani, Barletta, Taranto, Amalfi,
Napoli, Capua, Teano, Monteleone (Calabria), Petralia (Sicilia), e, come ben
risulta dai registri angioini ricostruiti, sottoposte a tassazione [21].
Queste
botteghe erano ubicate prevalentemente nelle giudecche, perché gestite da
Ebrei. Nel Regnum la distinzione degli
artigiani avveniva non solo in base ai livelli di specializzazione, ma anche
alla connotazione etnica, e gli Ebrei erano quelli che eccellevano nella
lavorazione della seta e nell’arte tintoria [22].
Federico
II, infatti, nel XIII secolo concesse loro il monopolio della seta e delle
tintorie, che a Napoli e Capua rimasero attive e operanti anche in periodi di
crisi economica. Il loro declino cominciò lentamente a partire dal XIV secolo;
e nella prima metà del ‘500 la comunità che risiedeva «nel miglior luogo di
Capua ... dove causavano mal’aere, mala conservazione e puzzo grande», era
ormai mal tollerata dai cittadini. Sporcizia, tanfo e turpiloquio divennero
allora sintomatici di una situazione di miseria ed emarginazione, avallata dallo
stesso governo di Capua, il quale chiese all’arcivescovo di costruire il
ghetto nell’area di «Piazza Vecchia». In seguito, nel 1540, gli Ebrei
vennero definitivamente espulsi, come ormai andava accadendo in tutte le zone
del regno [23].
Sempre a difesa della salubrità dell’aria, Federico II regolamentò anche la sepoltura dei morti i quali, se non richiusi in un’urna, dovevano essere sepolti ad una certa profondità. La pena prevista per i contravventori era di un augustale [24].
Un anno di lavori forzati nelle opere pubbliche era invece previsto per i pescatori che avessero avvelenato con «herbas» le acque per meglio catturare i pesci. Le acque, infatti, sarebbero risultate nocive agli uomini o agli animali che le avessero bevute [25]. L’atteggiamento dell’imperatore a tal proposito era piuttosto ambiguo, perché se da un lato proibiva l’intossicamento da veleno delle acque, dall’altro favoriva il loro inquinamento con i residui della lavorazione del lino e della canapa, contenenti a loro volta sostanze dalle proprietà tossiche. La purezza dei corsi d’acqua era messa in pericolo, anche se in maniera modesta, dalla presenza lungo le loro rive dei mulini, della cui presenza si hanno numerose testimonianze negli atti della cancelleria angioina [26]. Tra le attività artigianali e agricole e l’acqua esisteva una forte relazione, dal momento che senza l’acqua molti lavori non potevano essere effettuati. I documenti della città di Capua, ad esempio, abbondano di una espressione particolare, «terra et presa», generalmente tradotta con «terra coltivata», anche se «presa» molto probabilmente sta per presa d’acqua. Le terre coltivate, infatti, necessitavano di una irrigazione regolare, per cui è probabile che esistessero canali per captare l’acqua dal fiume o dal torrente, e cisterne per raccogliere quella piovana o conservarla per le emergenze. In città inoltre dovevano essere presenti anche numerosi pozzi, costantemente minacciati dalle acque del Volturno, in quanto accadeva spesso che esse infiltrandosi inquinassero la falda freatica. A tal proposito abbiamo alcune testimonianze, da Beniamino da Tudela secondo il quale «la città è bella, ma le sue acque sono cattive e le campagne sono devastate dalle febbri» [27], alle carte d’archivio che attestano come i prigionieri contraessero le febbri malariche bevendo l’acqua di pozzo [28]. Cisterne, pozzi, bacini idrici e simili erano dislocati anche nei centri abitati e nelle campagne pugliesi, dove per mezzo di elevatori (si pensi alle norie) si convogliava l’acqua nei campi. Come ha giustamente osservato Raffaele Licinio, «fonte di costante preoccupazione collettiva nella Puglia medievale, l’acqua ed il suo uso erano oggetto di aspre liti, di suppliche pertinaci, di normative contestate» [29]. Numerose, infatti, sono le chartae in cui compaiono contratti di costruzione di pozzi e cisterne, o clausole di miglioria. A tal proposito riportiamo due esempi significativi: nell’agosto del 1198 Guglielmo, vescovo di Conversano, concesse a Roberto, figlio di Pietro Lombardo, «puteum unum desertum et stercore oneratum» che il monastero di San Benedetto possedeva a Sassano, nell’agro conversanese, a patto che l’usufruttuario lo spurgasse, lo riattivasse e concedesse ogni anno, il giorno di San Benedetto, al monastero una libbra di cera [30]. Nel 1235 la chiesa di S. Angelo in Terlizzi allogava a tal Caropreso di Nicola un campo di ulivi con pozzo in località Morricino, con la clausola di «exicare ipsum puteum et mundare et cunziare decenter ut bene teneat aquam» e con l’obbligo, vita natural durante, di versare annualmente alla chiesa la metà del raccolto ed un censo di 12 tarì d’oro [31]. L’importanza dei pozzi per l’approvvigionamento idrico urbano è testimoniato da un ordine sui generis, emesso nel 1278 dalla cancelleria angioina: Carlo I infatti scrisse «ai giustizieri di Capitanata, di Terra di Bari e di Terra d’Otranto che i pirati spesso calano in terra sui litorali dei loro giustizierati per prendere acqua dai pozzi, dai porti e dalle cisterne che in quei luoghi stanno e con tale pretesto fanno scorrerie a danno delle robe e delle persone di quegli abitanti. Per la qual cosa ordina loro di subito devastare e distruggere fino ad un miglio presso al mare tutti i pozzi, i fonti che esistono, conservando solamente quelli indispensabili agli abitanti di quei luoghi» [32]. Ad Agrigento invece l’acqua della più importante fonte idrica urbana era trasportata da due condotte, una «de qua hauriebant aquam saccari», e l’altra che «ex parte orientis dicebatur canalis et decidebat in pilam, ubi bestie adaquabantur» [33].
Nel titolo XLIX delle Costituzioni, «De fide mercatorum», Federico II ingiungeva a macellai e pescivendoli «qui vitae hominum necessaria subministrant», di non commettere frodi perché avrebbero potuto recare danno. I macellai, ad esempio, non dovevano in alcun modo far passare la carne di scrofa per quella di porco, o la «carnes morticinas» per quella conservata da un giorno, o ancora permettersi di vendere a danno ed inganno dei compratori carne guasta o infetta. Similmente per i pescivendoli, i quali non dovevano vendere pesci guasti «et ab uno die ad alium», senza informare l’acquirente. Inoltre, qualsiasi cibo preparato il giorno prima e scaldato il giorno dopo non poteva essere venduto «sine praedictione», a difesa e tutela della salute pubblica [34].
Ad una più attenta analisi i provvedimenti federiciani risultano essere incompleti sotto diversi aspetti: non compare, ad esempio, alcuna disposizione relativa alla manutenzione di pozzi e fontane, o alla nettezza urbana, o alla presenza in città di animali vari, dai maiali alle capre agli asini alle oche; in tutti questi casi non è specificato a chi spettasse la sorveglianza [35], ragion per cui non sappiamo se e come la normativa nel quotidiano venisse rispettata. Una cosa è certa, nel periodo svevo «la qualità della vita sembra incupirsi e deteriorarsi» [36]. è probabile inoltre, come recentemente osservato, che Federico II avesse deciso di confinare alcune botteghe artigianali extra moenia dietro la spinta non solo di preoccupazioni sanitarie, ecologiche e ambientaliste, ma anche politiche: gli artigiani delle pelli, infatti, con la loro forza economica, erano sicuramente un ostacolo (e un concorrente) alle scelte economiche e politiche della Corona [37].
Le buczarie o macelli, sottoposti anch’esse a tassazione, erano invece ubicate all’interno delle mura cittadine, come si legge in un documento del luglio 1278 in cui re Carlo ordinava a Manfredonia la costruzione del «macello tra le mura della terra stessa» [38].
Un’altra
minaccia per la salubrità dell’aria e dell’acqua era con molta probabilità
rappresentata dalle acque di vegetazione, residuo della lavorazione delle olive.
Nel Mezzogiorno medievale sono testimoniati numerosi frantoi; in quelli di Terra
di Bari l’olio veniva così preparato: le olive macinate e pressate
producevano un liquido oleoso, che schiumato dell’acqua più pesante veniva
versato in apposite cisterne. L’olio, estratto in emulsione con acqua dalla
cisterna, mediante secchi o piatti, veniva versato nell’impianto di
decantazione, in modo che l’acqua se ne potesse separare. Quando l’olio
emergeva in superficie veniva «tagliato» con la patera o il piatto, mentre la
sottostante acqua, essendo più pesante, veniva evacuata mediante tubi di
scarico aperti e poi richiusi per permettere la ripetizione dell’operazione.
Nei tubi inoltre venivano introdotti dei tappi di cotone a mo’ di bacino di
filtraggio dell’impianto [39].
In base a questa procedura è possibile azzardare l’ipotesi di un inquinamento
causato dalle acque di vegetazione, le quali come è ormai noto contengono
polifenoli (composti chimici con deboli proprietà acide), pericolosi qualora
raggiungono una determinata concentrazione. Queste acque
sfociando direttamente nelle fogne o formando fanghi determinavano (e
determinano tuttora) ovvie conseguenze per l’ambiente. La stessa aria ne
risultava contaminata perché la spremitura delle olive provocava cattivo
olezzo. «Aer fit purus, fit lucidus, et
bene clarus, infectus neque sit, nec olens foetore cloacae» [40]:
questo è quanto prescriveva la Regola sanitaria salernitana, e i sovrani
angioini si sforzarono con interventi pubblici di rispettare il precetto.
Carlo Martello, ad esempio, ricordava nel giugno del 1275 ad alcuni abitanti della città di Capua di rispettare il divieto di gettare nella pubblica piazza cadaveri o qualsiasi altra lordura, perché responsabili della corruzione dell’aria. A quanti ignoravano il divieto venivano comminate le pene contemplate nelle Costituzioni del regno [41].
Durante il regno di Carlo I a Barletta si verificò un singolare episodio (dall’aspetto vagamente contemporaneo) di cattivo impiego del denaro pubblico. Il 5 maggio 1273 il re concedeva all’Università la facoltà di imporre una gabella di un quarto di grano per ogni rotolo di carne venduto per sopperire alle spese necessarie alla pulizia dei canali e alla rimozione delle immondizie, che rendevano l’aria insalubre [42]. è probabile che i Barlettani abbiano disatteso l’ordine se Carlo il mese successivo, il 2 luglio, ripeté l’ingiunzione, ordinando lo spurgo dei canali e dei corsi d’acqua della città, e incaricando i giudici Angelo Bonello e Giovanni de Riso di prelevare un aumento sulla gabella della vendita della carne da destinarsi all’esecuzione del lavoro di bonifica [43]. L’ordine, nuovamente disatteso, fu ripetuto per la terza volta il 31 agosto a Galgano Sannella di Ravello, abitante a Barletta e preposto a quei lavori. Nel settembre dell’anno successivo Carlo scrisse al giustiziere di Terra di Bari perché Giovanni di Benevento, dimorante a Barletta e incaricato dell’esazione di una colletta sul grano e sul macello dell’Università da utilizzarsi per lo spurgo dei suddetti canali, aveva raccolto ben 120 once d’oro senza però pagare Galgano Sannella, responsabile dei lavori, il quale non avendo percepito il danaro aveva sospeso l’opera. Il giustiziere doveva quindi costringere Giovanni a risarcire il Sannella delle spese, in maniera tale che il lavoro potesse essere ultimato nel minor tempo possibile [44]. Il successivo 9 novembre il re per l’ennesima volta ordinò al giustiziere di far ripulire il territorio di Barletta da «omnibus stercoribus», responsabili della corruzione dell’aria e di contagio sia tra i Barlettani che tra gli abitanti dei territori limitrofi. «Sub pena» si ingiungeva anche di far allargare di cinque palmi il canale di Piazza Vetere, in maniera tale che l’acqua potesse liberamente scorrere fino al mare. Il canale doveva infine essere ricoperto di laterizi «bonis et grossis et bene iuntis» [45]. Nel febbraio 1275 i giudici Angelo Bonello e Gaudio de Riso furono incaricati di recuperare nuovamente la somma di danaro necessaria alla pulizia dei canali della città, perché era accaduto un altro episodio increscioso: il preposto ai lavori di bonifica, Angelo Sannella di Ravello, «pecuniam ipsam detinet et in proprios usus convertit». Re Carlo però nel frattempo aveva sentito che tal Giovanni Fasano di Barletta si era offerto volontariamente di terminare i lavori «pro minori pecunie quantitate», ragion per cui si ordinava che «opus pred. ad meliorem conditionem concedere debeant» [46].
Un altro esempio di degrado ambientale è segnalato a Foggia da Nicolò Jamsilla, il quale narra che in occasione dell’assedio «per la corruzione dell’aria cagionata dallo sterco dei cavalli e da altre immondizie», in città la popolazione fu colta da contagio [47].
In Sicilia il degrado ambientale era stato notato sin dal pieno Medioevo da alcuni viaggiatori Musulmani: Ibn Giobair scriveva che Messina era «piena di sudiciume e di fetore», mentre Yaqut, suo contemporaneo, aggiungeva che i Siciliani «per la sporchezza e per il sudiciume» erano peggio degli ebrei e «il negrore delle loro case» superava la «fuliggine de’ forni da mattone» [48]. Nel 1300 i bagni pubblici, frequentati da uomini e donne e presenti in gran numero sul territorio siciliano tanto da essere riconosciuti di fatto come istituzione pubblica, erano (lo ha notato il Trasselli) i principali produttori di «immondizia»: si pensi ai pozzi neri da svuotare, come a Trapani; agli interstizi tra le case adibiti a vuotatoi e ai mucchi di immondizie per le strade, come a Palermo. In alcuni casi, come a Noto, le montagne di rifiuti erano così alte da ostacolare l’ingresso in chiesa; e ancora «recipienti svuotati in testa ai passanti, come a Nicosia; animalucci morti dovunque; le strade ingombrate dai porci che gettavano a terra persino i preti recantisi a dare l’estrema unzione, o che andavano a mangiare i morti al cimitero, come a Corleone; immondizie gettate dalle mura fino a riempire i fossati, come a Malta». Sudiciume e condizioni igieniche precarie erano presenti a vari livelli in città come in campagna, come ci informano sia i documenti del primo ‘500 (si pensi alle relazioni degli ufficiali palermitani che cercarono di ovviare a quei problemi), che il Boccaccio, il quale attesta situazioni analoghe a Napoli e a Parigi. Il «maestro d’immondizia» menzionato in molti Capitoli cittadini entrò in funzione dal 1500, dando luogo a gare, lotte e omicidi per la conquista della carica e per il suo esercizio. In quel periodo, infatti, le condizioni igieniche in genere migliorarono per poi deteriorarsi subito dopo, quando in città si aprirono stalle, in seguito alla diffusione delle carrozze [49].
Per
far fronte al degrado urbano sappiamo che a Napoli nel 1304 furono emanate una
serie di norme che nell’insieme risultavano una sorta di regolamento
edilizio-urbanistico. Carlo II vietò l’uso delle pennate, cioè delle tettoie
sporgenti sulle botteghe, le quali restringevano lo spazio specie nelle stradine
affollate del mercato; fece demolire gli edifici fatiscenti e puntellare quelli
meno sicuri nelle strutture; cercò di limitare, o quanto meno regolare, una
usanza molto diffusa, quella cioè di gettare i rifiuti per le strade; stabilì
una periodica ripulitura dell’acquedotto e delle numerose fontane che
abbellivano la capitale; impose una gabella detta del «buon danaro» per la
manutenzione di strade e attrezzature pubbliche [50].
Non sappiamo però se tali norme fossero state estese anche alle altre città
del regno; un dato è certo: la stessa Napoli nell’età di Roberto era ancora
interessata dal degrado urbano. Nel 1312 quest’ultimo cercò di rendere più
vivibile la parte della città prospiciente il mare, caratterizzata da numerosi
vicoli angusti e tuguri senza luce, afflitta, nonostante i provvedimenti presi
precedentemente da re Carlo II, dall’inquinamento delle acque di scarico e
dall’accumulo di rifiuti che ammorbavano l’aria. Qualche anno dopo, stando
ai racconti del duca di Calabria, anche il rione Forcella faceva a gara con il
porto quanto a sporcizia: «spesso, ..., passando di là, abbiamo visto agli
angoli dei vicoli e su la pubblica via cumuli di rifiuti e fango: tutt’intorno
alle mura cittadine una fanghiglia fetida rende difficile il passaggio, e gli
scoli dei pozzi ivi esistenti accrescono e alimentano il fango ... . Dalle
finestre e dalle porte, all’imboccatura dei vicoli si gettano acque sporche et
alia sordida». I responsabili dell’incuria e dell’abbandono di Piazza
Forcella pare fossero i proprietari delle case, anche se a detta del curiale
Giovanni di Lazzaro le stesse viuzze e le piazze adiacenti erano così sporche
che l’aria era irrespirabile. La Corte dal canto suo cercava in tutti i modi
di fronteggiare la situazione, ricorrendo spesso a dispendiosi interventi. Nel
1316, ad esempio, il re emanò una severa ordinanza per impedire che le case e
gli orti urbani, che sorgevano lungo il tracciato dell’acquedotto di Porta
Capuana (quello che portava l’acqua potabile a Castelnuovo e che pare fosse
molto capiente), sottraessero l’acqua per poi utilizzarla senza discrezione.
In quel periodo, infatti, Castelnuovo era particolarmente affollato a causa di
alcuni lavori di ristrutturazione, per cui l’acqua era indispensabile. Non
mancarono poi interventi di lastricamento di vie, piazze e strade, eseguito con
tecniche adeguate e utilizzando i prodotti delle cave di Pozzuoli o con i resti
degli antichi «basolati» romani, sempre di Pozzuoli.
La maggior parte delle città del regno, infatti, versavano in condizioni che oggi gli ambientalisti definirebbero disastrate, per l’assenza di strade, l’impantanamento delle acque, le frequenti frane, i ponti in rovina, la malaria, la siccità e i diversi mali sociali. La maggior parte dei lavori venivano eseguiti a spese dei privati: il territorio foggiano, ad esempio, infestato da malaria e paludi, fu bonificato a spese dei cittadini; Manfredonia col permesso regio ampliò la propria cerchia muraria e concesse a quanti lo desiderassero di costruirvi case, sotto la stretta sorveglianza dell’ordine dei Minori e dei Predicatori; San Severo, possesso della regina Sancia, ottenne il permesso di abbandonare la vecchia strada, la «via francigena» che conduceva i pellegrini al santuario di S. Michele Arcangelo, perché scomoda e senza molte possibilità di ristoro, e di costruirne un’altra più praticabile e meno solitaria. Di fronte a queste opere destinate a soddisfare alcuni bisogni locali re Roberto limitava il suo intervento a operazioni di incitamento o tutt’al più di integrazione delle iniziative cittadine. E’ il caso di Capua, i cui cittadini nei primi anni del 1300 decisero di costruire un nuovo acquedotto che convogliasse l’acqua in città, non più dal Volturno, come accadeva da gran tempo, ma dalle sorgenti del Monte Rocca. Nel corso dei lavori il duca di Calabria, in assenza del padre, fu costretto ad intervenire per reprimere alcune azioni di sabotaggio compiute da malfattori (presumibilmente briganti al servizio di signori feudali, che con il nuovo acquedotto non avrebbero più riscosso l’acquatico, ossia il tributo sull’uso delle acque) contro la salute pubblica. Anche a Sulmona il re fu costretto ad intervenire repentinamente per risolvere un altro problema: le terre di quella località, aride per natura, necessitavano di costante irrigazione, possibile solo attraverso la canalizzazione delle acque di due torrenti vicini. Il problema consisteva nell’incapacità (o assenza di volontà) da parte dei proprietari delle terre di trovare un accordo sui lavori da effettuare. Nel 1317 re Roberto per accelerare i lavori ordinò al capitano della città di rendersi promotore di una sorta di consorzio cui obbligatoriamente i proprietari dovevano partecipare. A Ruvo, essendo la «città situata in regione naturalmente arida, non ha né nell’abitato né fuori, nelle vicinanze, l’acqua necessaria per gli uomini e per gli animali, se non due soli pozzi lontani ...». In estate soprattutto la mancanza di acqua affliggeva gli abitanti e rendeva impossibile qualsiasi forma di allevamento. I cittadini erano disposti a tassarsi pur di raggiungere le 800 once necessarie per la costruzione dei pozzi e di una fontana nei pressi della città. Il re acconsentì alla proposta purché la somma non venisse poi stornata per altri scopi [51].
Gli
esempi fin qui addotti consentono di trarre una prima conclusione, e cioè che
per quanto le istituzioni politiche si sforzassero con norme e leggi di
garantire decenti condizioni igieniche e sanitarie, la situazione ambientale
rimaneva invariata. Tali provvedimenti da soli erano insufficienti a garantire
condizioni di vita più salubri e igieniche perché non tutti intuivano
l’importanza dell’igiene urbana e sociale.
Ad
aggravare ulteriormente le già precarie condizioni igieniche e sanitarie
concorrevano anche due annosi problemi, intimamente legati tra loro e di
difficile soluzione: il dissesto idrogeologico e la malaria.
Determinanti
per la diffusione della malaria in Italia furono le condizioni idrauliche, e più
precisamente le modificazioni del livello marino della penisola (individuabili
nella morfologia delle coste) e la crescita del regime torrentizio dei fiumi,
cui seguì la risalita dell’infezione nei fondovalle interni.
Vettore della malaria era la zanzara, presente soprattutto in prossimità della vegetazione palustre, sui cui steli deponeva le uova. La diffusione dell’anofele era da mettere in relazione tanto con l’estensione dell’acqua quanto con il tipo di vegetazione, la quale a sua volta dipendeva dalla «alternanza sia stagionale che interannuale della trasgressione dell’acqua stagnante sulla terra». La propagazione dell’infezione dipendeva oltre che dal meccanismo di sommersione della fascia costiera, anche da quella lenta variazione, sia positiva che negativa, del suo livello, che lasciava via libera all’acquitrino [52].
In Italia, sin dal Medioevo, il processo di bonificazione si è presentato per motivi di carattere sia morfologico che politico-sociale in modo disomogeneo: le zone interessate alla bonifica erano vaste ed estese al nord, frazionate e ristrette a piccoli spazi al sud. L’Italia meridionale, infatti, non ha mai posseduto fiumi paragonabili per portata a quelli settentrionali, ma piuttosto fiumare e corsi d’acqua a regime torrentizio, per cui i danni provocati dalle loro inondazioni erano minori e riguardavano zone poco estese. A determinare questa situazione concorrevano, oltre allo scarso regime pluviometrico, la presenza della dorsale appenninica (che rendeva ancor più breve il corso fluviale), e quella di un manto boschivo più esteso di quello odierno. Questo non significa che l’operazione di bonifica fosse più semplice e facile: la sistemazione dei torrenti a forte pendenza, il prosciugamento di acquitrini, la lotta contro la malaria, il miglioramento delle condizioni igieniche, dipendevano strettamente dal problema della sistemazione dei bacini idrografici, da quello del rimboschimento, dalla costruzione di strade e opere di irrigazione, dalle terribili condizioni pedologiche dovute alla presenza di terreni franosi. Le terre da bonificare erano perciò se non tra le più povere, certamente tra le più depauperate e geologicamente dissestate [53].
La situazione veniva ulteriormente aggravata dalla mancanza di efficaci interventi da parte del potere centrale, a differenza di quanto accadeva al nord, dove i Comuni, sin dalla loro nascita, misero a punto tutta una serie di disposizioni relative alla bonifica idraulica: dalla costruzione di strade e ponti all’arginamento di fiumi e torrenti. Vi furono persino accordi di collaborazione tra Comuni per la costruzione di canali di scolo e di navigazione: così l’accordo tra Modena e Pistoia del 1225, che vedeva per la prima volta due Comuni collaborare per l’inalveamento del Po, per la manutenzione delle strade ausiliarie e per il regolamento dei fiumi durante la stagione delle piene; e ancora quello tra Fiorentini e Bolognesi per la manutenzione del canale navigabile fino a Ferrara. Tali provvedimenti rimasero in vigore anche durante l’età delle Signorie, costituendo la base su cui in seguito si attuò, ad opera dei privati, la colonizzazione delle terre demaniali dalle acque. Secondo Raffaele Ciasca è in questo modo che sorsero i primi consorzi, i quali attuarono il principio dell’associazione: i comuni, infatti, permettevano ai privati di derivare, ossia di sviare in altra direzione, le acque dai fiumi per promuovere l’agricoltura e le industrie, senza però danneggiare la navigazione; si preoccupavano di mantenere in buono stato i canali di scolo e di farne costruire di nuovi lì dove se ne sentiva il bisogno, facendo concorrere proporzionalmente alla spesa gli interessati. Questi consorzi erano esistenti già dall’XI secolo, come testimoniato da documenti privati e statuti cittadini di Milano, Mantova, Verona, Cremona. Una politica comunale sensibile ai lavori pubblici, la collaborazione dei privati, la crescita e la pressione demografica, insieme alla presenza di capitali provenienti dall’industria, incentivarono le opere di sistemazione idraulica e il risanamento di numerosi luoghi infestati dal paludismo [54].
In
Italia meridionale le prime opere di bonifica e sistemazione idraulica furono
compiute in Sicilia dai Musulmani, i quali introdussero colture irrigue di
agrumeti, cotone e canapa, sfruttando non solo le attitudini naturali del
terreno, ma costruendo anche laghi artificiali, anticipando la moderna tecnica
idraulica.
Nel
Mezzogiorno peninsulare invece il panorama si presentava ben più degradato: qui
la politica comunale non aveva attecchito come nel resto d’Italia, perché
contrastata dal potere regio e feudale, il quale fino al XVIII secolo non
affrontò seriamente il problema della sistemazione idrogeologica. Ciò significò
assenza non solo di efficaci e durature bonifiche, ma anche di una tradizione di
studi sulle acque, di usi e consuetudini largamente diffusi al nord.
Lo
scarso interesse dimostrato dal potere centrale riguardo a queste opere non fu
colmato dall’iniziativa privata di altre classi sociali o degli enti
ecclesiastici. Gran parte dei feudatari, essendosi trasferiti nella capitale
dove investivano le loro ricchezze, non avevano alcun interesse a bonificare la
terra e a migliorarla; il ceto medio, formato da medici, notai, giudici ed altri
ufficiali regi, che nei Comuni centrosettentrionali aveva costituito il nerbo
della vita economica, in età angioina era ancora debole; assente era la ricca
borghesia degli «industriali» e dei commercianti (il commercio era, infatti,
nelle mani di Pisani, Fiorentini, Genovesi e Catalani, protetti dai
privilegi concessi dagli Angioini).
Perché
nel Mezzogiorno si realizzassero i necessari lavori di bonifica occorreva il
concorso di circostanze favorevoli, le quali o mancarono del tutto o operarono
in misura inadeguata. Il problema maggiore era rappresentato dall’assenza di
capitale: i proventi dell’agricoltura, infatti,
non venivano quasi mai investiti in migliorie; il commercio era nelle
mani degli stranieri, quelle poche e modeste industrie esistenti difettavano o
non producevano tanto da divenire esportatrici. A questo c’è da aggiungere la
scarsa pressione demografica e soprattutto l’ordinamento della proprietà
terriera. I diritti signorili, gli usi civici, le proprietà comuni a Universitates
ed enti ecclesiastici, il divieto di mutare la coltura e la destinazione
economica delle terre sottoposte a mano morta (le quali dal punto di vista
igienico e agrario peggioravano progressivamente), il carattere feudale di gran
parte del regno, durato fino agli albori del XIX secolo (se non oltre), la
difficoltà a trasformare un possesso feudale in proprietà allodiale,
impedirono la risoluzione non solo del problema della malaria, ma anche della
trasformazione agraria [55],
segnando il destino del Mezzogiorno.
L’operazione
di bonifica, in qualsiasi epoca storica, è risultata utile sia per il
miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie del territorio, che per
l’aumento del valore della terra stessa.
In
Italia meridionale le zone afflitte sin dall’antichità dal paludismo e dalla
malaria erano diverse e dislocate in più punti.
Lungo
la costa tirrenica, scendendo dalla Lucania alla Calabria, si incontra la piana
di S. Eufemia, impaludata dall’Angitola e dall’Anneto, la quale dopo aver
ospitato Terrina, uno dei più ricchi centri della Magna Grecia, andò
progressivamente incontro al degrado e all’abbandono (rendendo vani, ad
esempio, i tentativi di ripopolamento della pianura operati dai Normanni);
seguono la piana di Rosarno (anch’essa disabitata sin dall’antichità), e
quella di Gioia, che pur trovandosi in posizione geografica ed economica
favorevole era considerata «pestifera» per la presenza di paludi e maremme. In
questa pianura furono decimati dalle febbri palustri sia le truppe di Ruggero il
Normanno, in occasione della guerra contro suo fratello Roberto il Guiscardo,
sia l’esercito di Pietro d’Aragona nel 1283, durante la guerra del Vespro.
Superata la piana di Gioia la costa tirrenica calabrese si presentava ricca e
salubre. Le paludi ricomparivano sulla costa ionica a pochi chilometri da
Reggio, dal pantano delle Saline [56]
alla spiaggia di Squillace, e di qua ai circondari di Crotone, Rossano e
Castrovillari [57];
il primo centro abitato nei pressi del mare lo si rincontrava a Roccello Ionico.
In condizioni analoghe si presentava la costa ionica della Basilicata, una delle più desolate e malariche regioni d’Italia: lungo un percorso di 300 miglia, da Capo Colonna a S. Maria di Leuca, fino alla metà dell’800 non sorgevano che tre centri abitati, Crotone, Taranto e Gallipoli, che insieme raggiungevano appena i ventimila abitanti. Le restanti terre erano pianure desolate ed incolte, tra cui spiccava l’agro metapontino, che sin dall’età romana godeva, dal punto di vista sanitario, di una fama negativa. Nel Medioevo, precisamente nei secoli XIII e XIV, sorsero due centri, Torre di Mare e S. Trinità, che ebbero vita breve: scomparvero lasciando solo il nome alle località. Anche il porto di Metaponto nei secoli andò trasformandosi in una immensa palude, quella di S. Pelagina [58].
In Puglia le paludi si sviluppavano tra Manfredonia, Otranto e Capo di Leuca, e fra Taranto e Gallipoli [59]: il territorio tarantino e la provincia di Lecce furono devastati dalla malaria sin dall’antichità. Le basse terre di Otranto, la valle dell’Idro con le sue paludi dette Molviane, e i laghi di Alimini e Fontanelle erano, infatti, tra le più pestifere; non da meno era il territorio di Manduria, con le paludi del Tamari, del Chidro e del Burraco. Un’oasi era invece la provincia di Bari, con manifestazioni di paludismo limitate a pochi stagni tra Barletta e Bari, e tra Bari e Mola (lo stagno di S. Giorgio). Gravemente minacciata dalla malaria era invece la Capitanata, la cui costa adriatica era disseminata di paludi, lagune e stagni, a partire dalla bassa valle dell’Ofanto fino a giungere alle foci del Fortore e del Biferno in provincia di Campobasso. Particolarmente malariche erano le terre nei pressi dei laghi di Lesina, Salpi, Varano e del Pantano di Salso. Le città di Siponto e Anzano, un tempo floridissime, gradualmente decaddero perché decimate dalla malaria; Siponto, antico centro già disertato in età romana, si ripopolò nel Medioevo, anche se di lì a pochi secoli sarebbe nuovamente sprofondata nella solitudine e nell’abbandono. Come ha recentemente osservato Raffaele Iorio ad un certo punto della storia sipontina gli itinerari e i collegamenti col centro si interruppero bruscamente. In una pergamena rogata il 18 marzo 1270 un certo Beneventus si sottoscrisse come notaio «Siponti Novelli». Non siamo di fronte ad una città rinnovata, bensì ad un centro originale, ubicato più a settentrione. Re Manfredi, infatti, con una ordinanza del novembre 1263 rendeva noto che, per garantire una esistenza migliore ai cittadini e per la sopravvivenza della località stessa, «propter ipsius locis intemperiem et imminentem ibi corruptione aeris», concedeva agli abitanti il permesso di trasferirsi in una località vicina, senza indicare l’ubicazione del nuovo sito [60]. Il contestato Matteo Spinelli così narra l’avvenimento: « ... Re Manfredo fò a Siponto, et designao de levare la terra da chillo male aere, et de ponerela dove sta mò, et chiamarela de lo nome suo Manfredonia» [61]. In realtà sia la città che il suo porto furono costruiti da Carlo I d’Angiò nella seconda metà dello stesso secolo col nome di Siponto Novello. Può darsi che l’abbandono della vecchia Siponto sia da collegarsi ad una oscillazione del livello marino del suo porto oltre che alla malaria, dal momento che a poche decine di chilometri un altro centro, Salpi, che si affacciava sulla stessa laguna sopravvisse ancora per molto tempo. Come Salpi altri centri della Capitanata in epoca angioina erano ancora immuni da gravi fenomeni malarici: Lesina, ad esempio, che sorgeva sulle rive dell’omonimo lago, era tassata per circa 40 once [62].
Anche Napoli, la capitale, era circondata da paludi: a levante quella del Sebeto, a ponente quelle di Coroglio e Bagnoli. Malariche erano anche le zone circostanti i laghi di Licola, Fusaro, Averno, Lucrino, Maremorto e quelle di Patria; lo stesso dicasi per l’intera provincia di Caserta e per il basso corso del Garigliano e del Volturno; palustri erano anche i bassi terreni del Nolano, dove erano presenti le industrie della canapa, e il territorio di confluenza fra il Volturno e il Calore, in provincia di Benevento [63]. Non lontano da Pompei, invece, Carlo d’Angiò fondò l’abbazia di Real Valle in un territorio che in seguito il fiume Sarno avrebbe reso malarico e deserto, e che all’epoca della fondazione era circondato da terre ben coltivate piuttosto che da acquitrini [64].
In Sicilia le paludi erano presenti lungo l’Alcantara, il Simeto e il Gorna, intorno al lago di Lentini, sulla costa delle province di Catania e Siracusa e fra Trapani e Mazara del Vallo [65]. Illuminato Peri ha affermato che «non c’è memoria di grosse paludi nelle piane» siciliane: il toponimo «paludi» compare verso la metà del XII secolo in Edrisi, e a suo dire rispecchia una condizione d’eccezione [66]. Altre fonti documentarie tuttavia segnalano la presenza di aree paludose, come lo stagnone di Marsala, la già citata pianura di Lentini, il pantano Ruffo nei pressi di Paternò, i tre «lacus iuxta Farum» a pochi chilometri da Messina; «spazi quasi completamente disabitati a cominciare almeno dal VI secolo ... aree di pascolo, nelle stagioni invernali, per quelle popolazioni dei vicini rilievi che, indifferenti alla natura del suolo, avevano contribuito, con l’allevamento dei loro ovini, all’impoverimento dei mantelli vegetali, alla degradazione delle pendici collinari, al disordine idrico» [67]. Dai documenti sappiamo inoltre che le fasce costiere del territorio di Lentini e dell’intero siracusano erano paludose e incolte e utilizzate soprattutto per la pesca. Il processo di impaludamento, infatti, aveva interessato «vaste plaghe in pianura e soprattutto rivierasche invase da focolai malarici che avevano già fatto la loro comparsa nel V secolo a. C.», e i cui sintomi febbrili furono narrati in una lettera del 1189 di Pietro di Blois al fratello Guglielmo [68]. Ancora nel XIII secolo a Messina l’allargamento della trama urbana verso il lato meridionale veniva ostacolato dalla presenza di torrenti con l’alveo poco stabile, in particolare lo Zaera, il quale «molto probabilmente non scorreva su un unico letto, ma diramava le sue acque lungo un largo conoide in più rami, creando ristagni malsani», costituendo una minaccia e rendendo poco sicuro e salubre il piano della Mosella [69].
La
malaria, nel Medioevo come agli albori del XX secolo, ha sfibrato buona parte
della popolazione meridionale, perché era diffusa in quasi tutte le zone
inferiori ai 200-300 metri sul mare (talvolta veniva registrata anche oltre i
1000 metri, perché importata dal basso). Ad essa sono stati imputati i
fallimenti dei tentativi di colonizzazione compiuti dagli Svevi e dagli Angioini:
delle numerose famiglie francesi che accompagnarono Carlo I nel Meridione e che
ottennero in cambio dei loro servigi e della loro lealtà terre e feudi, solo
poche sopravvissero alla seconda generazione.
La malaria è stata ritenuta un po' da tutti l’elemento perturbatore della vita economica meridionale, perché ha contribuito allo spopolamento di città e campagne, alla nascita del latifondo e al degrado di quelle terre che in diverse condizioni ambientali e climatiche sarebbero risultate fertili. Data la precarietà in cui il territorio versava, villaggi e campagne abbandonate dagli abitanti, povertà diffusa e così via, fu un’impresa ardua per il potere centrale attendere agli opportuni lavori di bonifica [70].
I sovrani normanni e svevi dal canto loro erano troppo presi dalla risoluzione di problemi di politica interna e militare, per potersi dedicare a tempo pieno alla correzione del regime idraulico, che tra l’altro non era così disordinato come di lì a qualche secolo. L’unico intervento degno di nota è la bonifica del lago Fucino, disposta da Federico II nell’aprile del 1240: l’imperatore infatti ordinò a B. Pissono, giustiziere d’Abruzzo, di «purgari et aperiri» il lago, in seguito ad una petizione degli abitanti di quelle contrade. L’operazione di bonifica serviva a consentire un più facile scorrimento delle acque superflue del lago «que ipsum occupat inde labantur sicut antiqitus fieri consuevit» [71].
Più
partecipi furono gli Angioini: Carlo I distrutta Lucera, la cui popolazione era
rimasta fedele agli Svevi, fece stabilire nei suoi pressi colonie di provenzali
allo scopo di colonizzare quelle ed altre zone della Capitanata, della
Basilicata e della Sicilia. Non è possibile tuttavia stabilire se i
provvedimenti presi dagli Angioini siano risultati efficaci per il risanamento
delle terre malariche. Carlo II, ad esempio, nel 1301 decretò la costruzione di
un canale che mettesse in comunicazione il porto interno di Brindisi col mare,
al fine di diminuire il paludismo nei dintorni della città. Nel secolo
successivo il canale fu chiuso con delle pietre, determinando, ovviamente, un
peggioramento delle condizioni igieniche del porto. L’incauto ordine fu
impartito dal principe Giannantonio Orsini, il quale non voleva cedere il porto
al re Alfonso d’Aragona. Sempre a Carlo II si deve la bonifica, a spese delle
Università limitrofe e del conte di Marsico, del corso del fiume nel Vallo
Diano. Qualche anno dopo furono intrapresi da Bartolomeo di Ariano, cittadino di
Pozzuoli, alcuni lavori per rendere navigabile il Volturno. Anche se
l’operazione non riuscì perfettamente, Bartolomeo nel 1393 ottenne da re
Ladislao il titolo di console. Successivamente, sia nei parlamenti pubblici del
1471 che in altre occasioni, si tornò a discutere di bonifiche dell’agro
campano e di opere da costruirsi lungo il Volturno per renderlo navigabile.
La
situazione territoriale sotto gli ultimi Angioini e gli Aragonesi subì un
peggioramento a causa dell’incuria dei sovrani, distratti dai continui scontri
dinastici, dalle congiure baronali e dalle ribellioni contadine. Il regno era
sempre più visto come terra da
sfruttare, per cui poco importava se i paesi venivano abbandonati, se la malaria
minava la vita delle popolazioni, se il regime delle acque diveniva sempre più
disordinato, invadendo le campagne [72].
A partire dalla prima metà del Trecento, infatti, si registrarono numerosi casi
di abbandono o inadempienza verso gli oneri fiscali a causa della malaria. Nel
settembre 1306 Lesina ricevette un sensibile sgravio di imposte perché ridotta
alla miseria, sia per la malaria che per l’esoso fiscalismo [73].
Il
convento di Montevergine invece obbligò alcune Università salernitane a
costosi lavori di bonifica di terre e strade «in
palude Sarni et Nicerie», ammorbate dalle inondazioni e da numerosi stagni [74].
Nel maggio 1320 gli abitanti di «Castri Sugi» in Terra di Lavoro avevano chiesto e ottenuto dal re
il permesso di trasferirsi dalla montagna alla pianura, perché attirati dal
corso del Garigliano. Nove anni dopo, nel gennaio del 1329, gli stessi chiesero
al sovrano con un’altra petizione il permesso di ritornare all’antica sede
perché, a causa della malaria, molti uomini erano deceduti e molti erano
infermi. Il sovrano acconsentì, concedendo anche alcune agevolazioni fiscali.
In Abruzzo l’Università di Celano, minacciata «dall’aria pestilenziale che
vi si respira», chiedeva al duca di Calabria il permesso di trasferirsi nei
pressi del colle S. Flaviano. A Penne, nei pressi del lago Fucino, che
sprigionava «miasmi pestilenziali», la vita era praticamente impossibile. Gli
abitanti, infatti, dopo una dura lotta contro la malaria furono costretti a
trasferirsi per potersi salvare, con grave danno per il fisco, che non poté
riscuotere le abituali imposte. Tra gli abitanti tal Egidio di Cirolara «mezzo
avventuriero e mezzo bonificatore audace, propone al re di riattivare le
correnti della vita nel castello disabitato, e ne domanda la necessaria
autorizzazione». Quest’ultima gli fu accordata anche se il prosciugamento
totale del lago Fucino avvenne solo parecchi secoli dopo. Nello stesso anno gli
abitanti dell’Università di «Castri
Tranaquarum», estenuati dall’infezione e non sapendo dove rifugiarsi,
chiesero di essere almeno sgravati di alcune imposte, perché impossibilitati a
lavorare e produrre. A Fondi in un piccolo lago che si trovava in pianura
confluivano le acque di alcuni corsi dal flusso irregolare, le quali avevano
contribuito alla creazione di un pantano pestilenziale, in seguito al quale
l’esistenza era divenuta insopportabile. Anche le campagne avevano perso la
loro fertilità perché abbandonate per mancanza di manodopera. L’unica
soluzione per il duca di Calabria fu quella di consentire agli abitanti di dare
maggiore libertà di scorrimento alle acque, badando a non ledere i diritti
feudali dei proprietari delle terre in questione e di quelle dei signori vicini.
Malaria, clima e siccità, tre «tradizionali e implacati nemici», come li ha definiti il Caggese, furono spesso responsabili della desolazione di alcune importanti città: nell’agosto 1324, infatti, un incaricato del giustiziere di Terra di Bari, che aveva ricevuto l’ordine di vendere una certa quantità di zucchero a Brindisi, comunicava l’impossibilità di portare l’impresa a compimento perché la città si presentava deserta e spopolata [75].
La situazione si presentava identica dappertutto, tanto che i sindaci delle Università implorarono «a gran voce, se non l’aria balsamica e la salute, almeno lo sgravio dalle imposte ed un più umano atteggiamento dei funzionari». In Capitanata, S. Lorenzo in Carmignano ammorbata dalla malaria e da altre epidemie, era ormai incapace di versare i contributi fiscali; Civitate, già tormentata dalla malaria, fu ulteriormente devastata dal terremoto del 1322, così come Ripalonga [76], distrutta da un incendio e dal clima iniquo. Pescara nel 1328 «propter malitiam aeris» non era in grado di fornire marinai per le armate regie e lavoratori per le saline; anche Aquino, spopolata dalla malattia, era incapace di far fronte alle imposte [77].
Per ironia della sorte quello stesso duca di Calabria che con concessioni e licenze aveva contribuito ad alleviare le sofferenze dei sudditi, il 9 novembre del 1328 morì a causa della febbre palustre [78]. Altri personaggi illustri precedentemente avevano contratto la malaria, rimettendoci in alcuni casi la vita. Enrico VI, da poco eletto imperatore, trovandosi accampato nei pressi di Napoli fu colto da febbri palustri, dalle quali a stento riuscì a salvarsi e a risalire le Alpi con pochi seguaci [79]. Il suo destino era però segnato: tornato in Italia contrasse nuovamente l’infezione durante una partita di caccia in una valle paludosa nei pressi di Messina, che lo portò alla morte a soli 32 anni [80]. Nel 1227, narra Riccardo di S. Germano, Federico II fu costretto a rinviare la partenza per la Terra Santa perché affetto da febbri malariche, scatenando l’ira del pontefice che lo scomunicò [81]. Nel 1254 invece toccò a suo nipote Corrado, il quale accampatosi all’inizio della primavera nei pressi di Lavello per organizzare la partenza dell’esercito, «infirmitate correptus» morì il 21 maggio dello stesso anno all’età di 26 anni [82]. Questo episodio è ricordato con maggiore dovizia di particolari anche da Saba Malaspina, nella cui narrazione però aleggia il sospetto di morte per avvelenamento [83].
Tra XV e XVI secolo l’unica attività che poté svilupparsi in quelle pianure insalubri fu la pastorizia transumante, la quale durante i mesi critici della malaria, estate e autunno, si trasferiva sugli altipiani appenninici. è probabile che lo sviluppo della Dogana della Mena delle pecore fosse dovuto anche a questa motivazione, oltre a quella di carattere demografico [84].
Il
binomio palude-malaria era ben noto sin dall’antichità: Varrone aveva avuto
un’intuizione per metà vera, e cioè che nei pressi delle paludi vivono dei
«piccolissimi animaletti», non visibili ad occhio nudo, i quali attraverso la
bocca e le narici entrano nel corpo umano provocando malattie difficili a
curarsi, «difficiles morbos».
Secondo alcuni responsabili della malaria erano le acque palustri utilizzate
come bevanda; altri invece pensavano alle zanzare come causa morbigena, ma non
nel senso moderno di insetti inoculatori di parassiti, bensì depositari di un
virus assorbito nelle paludi e ceduto alle acque con l’infusione dei loro
corpi morti. Anche il fatto che la malaria fosse una malattia estiva era stato
sottolineato in età antica. Nei
secoli successivi si credette che, essendo gli abitanti dei luoghi paludosi e
bassi i più colpiti, la malaria fosse determinata dall’aria grave, carica di
miasmi e vapori esalati dalle materie in putrefazione nelle acque. Essa era
quindi considerata il prototipo delle malattie miasmatiche.
Il
fatto era che il suolo, il clima e le acque dell’Italia meridionale favorivano
la diffusione dell’infezione: perché l’anofelismo prosperasse non era
necessaria la grande palude, bastava anche il piccolo acquitrino o il rivolo mal
drenato. La malaria era quindi intimamente legata a condizioni geologiche e
idrauliche quali l’abbassamento delle coste, la formazione di dune che
contrastavano lo sbocco in mare ai corsi d’acqua, i movimenti sismici che
modificavano il clivaggio delle rocce, precludendo il corso dei fiumi [85].
I sovrani angioini si dimostrarono particolarmente sensibili alla risoluzione
dei problemi idraulici che affliggevano il regno, forse perché convinti
anch’essi che la malaria fosse una delle tante malattie miasmatiche, provocate
cioè dalle esalazioni di materiali decomposti e dall’insalubrità
dell’aria. Ecco quindi una chiave di lettura per i numerosi provvedimenti
contenuti negli atti cancellereschi relativi ad operazioni di spurgo di canali,
pozzi, riparazione o costruzione di acquedotti, fontane e simili.
A Napoli, dove Carlo I promosse una intensa attività edilizia per rinnovare la struttura urbana, furono intrapresi lavori per il prosciugamento della palude nella regione nord-orientale, grazie ai quali l’intera campagna beneficiò di canali di irrigazione, di costruzione di strade, di collegamenti tra città e contado, di un ponte [86].
Sempre nel territorio napoletano nel 1301 Carlo II fece realizzare con criteri d’avanguardia opere idrauliche e fognarie, le quali consentirono l’incanalamento in serbatoi, grazie ad una rete di tubazioni sotterranee, delle acque piovane e di scolo; vietò, inoltre che «nullus habitans in vicis ipsis sordes, aut spurcitias aliquas in eis per fenestras, januas vel aliter proicere audiat quibus aer inficitur postquam fuerint sic gravati». Nei secoli successivi fu creato addirittura un tribunale addetto alla vigilanza delle strade dal nome di «acque e mattonate», che unitamente a quello addetto alle porte e alle mura della città, costituiva una sorta di assessorato alle opere pubbliche ( i due istituti furono poi accorpati nel 1636) [87].
Nel 1302 Carlo II fece eseguire importanti lavori nella zona del porto, il quale era reso insicuro dai depositi di sabbia, limo e detriti accumulatisi in età federiciana a causa del ristagno dei traffici marittimi, per cui furono drenati i fondali ed eseguite opere di contenimento delle acque aperte. Le spese furono talmente esose che il sovrano, non potendo affrontarle con le sole risorse dell’erario pubblico, impose una gabella ai mercanti che si servivano delle attrezzature portuali. I lavori idraulici, iniziati il 22 gennaio 1305, furono portati a termine due anni dopo [88].
Il
disegno di riorganizzazione del territorio intrapreso da Carlo II fu portato
avanti dai suoi successori: le iniziative di Roberto e di Giovanna I possono
essere considerate una continuazione del programma precedente. Unica eccezione
è rappresentata dalla collina di S. Eramo, la quale, sotto Carlo II non era
ancora stata interessata dal fenomeno di espansione extraurbana. Tuttavia,
questa lenta espansione della città sulla collina deve essere interpretata come
uno sviluppo del piano di Carlo II, perché, una volta urbanizzata la zona
circostante Castel Nuovo, fu necessario risalire le pendici dell’altura. In
quegli anni, infatti, furono costruiti palazzi, ville e il chiostro di San
Martino dei Cistercensi; fu quindi necessario aprire vie facilmente praticabili.
Lo sviluppo di iniziative edili determinò una trasformazione del paesaggio
agrario. La presenza di poggi e terrazze collegati da stradine fu il risultato
di un lungo lavoro di dissodamento e disboscamento, che permise l’impianto di
colture arboree e arbustive. Questa operazione di sistemazione del territorio
fece acquistare omogeneità al paesaggio, grazie soprattutto alla presenza di
filari di cipressi e pini, disposti regolarmente sui versanti delle colline. La
vegetazione, così come fu disposta, sembrava non solo assecondare l’andamento
del suolo, ma anche assolvere una precisa ed importante funzione, quella di
contenimento della collina, regolandone il regime idrogeologico. Era
indispensabile, infatti, evitare il rovesciamento a valle di torrenti di melma,
che si producevano facilmente durante la stagione delle piogge: tra le zone
maggiormente interessate dal fenomeno ricordiamo la collina di Capo di Monte e
le valli sottostanti, periodicamente sommerse dalla «lava delle Vergini». La
sistemazione del suolo comunque serviva non solo a cautelarsi dal pericolo di
frane e smottamenti, ma anche a favorire una produzione agricola più varia ed
intensa. In pianura invece una rete di fossi collettori permise la sistemazione
dei fondi paludosi convertiti in terreni destinati al lino o ai cereali. Queste
operazioni interessarono il vasto acquitrino presente all’esterno di Castel
Capuano [89].
Per quel che concerne invece gli acquedotti sappiamo che il 28 maggio 1275 Carlo I scrisse al giustiziere di Terra di Lavoro perché imponesse ai cittadini di Napoli e dei casali circostanti una sovvenzione di cento once d’oro da affidare a Sergio Pinto di Napoli e Giovanni Siginulfo, uomini fedeli al re, con il compito di pulire e riparare l’acquedotto che portava l’acqua dal fiume Sarno alla sorgente Formelli di Napoli, e poi a tutte le fontane e pozzi sparsi sul territorio. Tali condutture erano colme di melma e fango: un «periculo manifesto» per gli abitanti. Gli stessi pozzi e fontane «propter salutem tam hominum omnium, tam avium quam scolarium et aliorum, etiam exterorum» dovevano essere spurgati e ripuliti. I due incaricati dovevano inoltre badare che nelle condutture «nullum immunditie lutum limositas vel sorder remaneant», e se danneggiate «bene reparari et copriri faciant, ut nulla ... sordes vel immunditia possit in ea descendere». L’acqua che era «quasi fetida inutilis et corruptibiles ad bibendum», dopo gli opportuni interventi doveva risultare purificata da ogni sporcizia, buona e utilizzabile senza che generasse pericolo. Qualora fosse stata commessa qualche negligenza durante i lavori, il re avrebbe comminato una pena severa [90].
A
Capua gli abitanti furono tassati dalla Corona per raccogliere la somma
necessaria alla riparazione dell’acquedotto che conduceva l’acqua dal Monte
di S. Angelo in Formis a Capua. Carlo I nell’ordine specificava che la somma
doveva essere destinata alla «reparatione tantum et non constructione de novo facienda ...
convertendam». Qualora si fosse proceduto alla sua ricostruzione essa
sarebbe stata totalmente a carico dell’Università [91].
Qualche tempo dopo Carlo Martello, principe di Salerno, ingiunse a Guglielmo di
Dragone, Gileto Franco e Giovanni Zito, abitanti di Capua di far «mundari
et reparari» l’acquedotto perché rotto e colmo di rifiuti, che rendevano
sporche le fontane. I lavori dovevano aver luogo nel corso del mese di giugno,
non andando oltre l’8 luglio. Da ciascun rotolo di carne o pesce venduto in
città doveva essere prelevato «quarte
partis unius grani auri» destinata all’espletamento dei lavori. Nessuno
inoltre doveva osare rompere l’acquedotto «pro
irrigandis terris» [92].
L’8 giugno 1319, sotto il regno di Roberto, veniva rinnovata all’Università
di Capua la concessione di costruire un nuovo acquedotto ritenuto indispensabile
[93].
Il 19 aprile 1279 Carlo I ordinò al giustiziere di Basilicata di far eseguire i lavori di riparazione del palazzo fortificato di Lagopesole e specialmente all’«aqueductus per quas aqua derivatur ad fontem existentem», entro la fine di maggio, di modo che l’edificio potesse essere abitato comodamente. L’acquedotto, infatti, necessitava di una ripulitura dalla sabbia e dalle altre immondizie che ivi si trovavano, in maniera tale che l’acqua potesse liberamente scorrervi [94]. Nel dicembre del 1285 invece Carlo Martello ordinava di spurgare gli acquedotti di Venosa perché guasti e pieni di lordure e cadaveri [95].
In occasione della costruzione della rete idrica del castello di Lucera (recentemente rinvenuta durante uno scavo), re Carlo I scrisse al giustiziere di Terra di Bari perché reperisse per il sabato della vigilia delle Palme, a Trani e a Barletta, almeno dieci maestranze capaci di scavare pozzi, e le inviasse a Goffredo di Bosco Guglielmo, responsabile della costruzione castrense [96].
Nel marzo del 1279 si ordinava invece al giustiziere di Capitanata di far riparare l’acquedotto di Lucera, affinché l’acqua pluviale potesse scorrere senza impedimento ed essere convogliata nella cisterna della domus regia [97]. Cure particolari erano riservate pure al vivarium di S. Lorenzo in Pantano, il quale doveva essere custodito e conservato diligentemente, ripulendolo dagli eventuali rifiuti e provvedendo alla riparazione delle sue condutture in caso di rottura. Nel 1278, per far fronte all’imminente siccità estiva, Carlo I ordinava che si provvedesse con particolare urgenza ai lavori di depurazione e riparazione dell’impianto ( un acquedotto a volta, secondo Haseloff) [98]. Altri ordini simili furono ripetuti nella primavera del 1280: il re infatti incaricava il giustiziere di Capitanata di raccogliere i soldi necessari alla riparazione dell’acquedotto, affinché l’acqua potesse tornare liberamente a scorrervi, senza mettere a repentaglio l’esistenza stessa del vivaio [99].
Anche nella città dell’Aquila furono realizzate opere pubbliche essenziali, come l’acquedotto costruito con la partecipazione di tutta la popolazione nel 1304-1305, «captando le acque di Santanza e convogliandole in un condotto di 8 palmi per 3 fino alla quota di due torrioni», e la grande cloaca, che scendeva «fino sotto la Rivera», i cui lavori furono intrapresi in seguito ad un decreto regio del 1312 in cui si ordinava di «togliere dall’interno della città calcinaria et spurcitias», a testimonianza di una precaria condizione igienica, ma anche di una grande vitalità [100]. Ancora, il 10 giugno 1334 la principessa Caterina concedeva agli abitanti di Taranto di prelevare per la costruzione di un acquedotto ben 40 once d’oro dalle somme dovute alla curia principesca, purché alcune persone facoltose garantissero il completamento dei lavori entro Natale [101]. Tra le opere di pubblica utilità erano contemplate non solo le bonifiche di terreni, ma anche le costruzioni di vie, ponti e altre infrastrutture [102]; lavori che molto spesso rientravano tra le prestazioni feudali che i sudditi dovevano ai loro signori [103].
Il 24 gennaio 1277 Carlo I scrisse al giustiziere di Basilicata perché divulgasse «per singulas partes iurisdictiones tue et sub certa pena» l’ordine di riparare ponti e strade [104]; mentre agli abitanti di Gaeta qualche anno dopo fu concesso di ricostruire «pons cuiusdam fluminis prope terram ipsam Gayeti per quem ad terram eandem habetur aditus» [105].
Tornando alle paludi, c’è da aggiungere un’ultima cosa: per quanto potessero essere nocive alla salute, esse erano ampiamente utilizzate per la caccia ai volatili, la pesca, la raccolta delle canne. Il barone Giovanni d’Acaja, ad esempio, concesse nel 1450 all’università di Otranto la facoltà di tagliare e bruciare canne dalla palude la Cucuza di Segine, da quella di Vanze presso S. Pietro delle Paludi e da quella di Campo Vetrano, facendo scorrere a suo piacimento l’acqua dalla palude di Segine al mare, ricevendone in cambio l’esenzione dei dazi sul vino mosto per 200 barili e sul pane, per sé e la sua famiglia [106].
Le aree palustri, acquitrinose e torbose, o gli specchi d’acqua naturali o artificiali, permanenti o temporanei, con acqua ferma o corrente, dolce, salmastra o salata, compresi i tratti di mare la cui profondità non ecceda i sei metri con la bassa marea, sono considerate zone umide, secondo la definizione data dalla Convenzione Internazionale di Ramsar del 1971. Nella sola Italia in passato esistevano circa tre milioni di ettari di zone umide, pari al 10 % dell’intero territorio peninsulare, che secoli e secoli di prosciugamenti, sfruttamenti e vari inquinamenti hanno ridotto a soli duecentomila ettari, dei quali cinquantamila sono stati dichiarati di importanza internazionale. Il fatto è che nelle regioni mediterranee paludi, laghi, lagune svolgono una funzione importante non solo per la fauna selvatica ma anche per la riduzione dei rischi di inondazione, per la protezione costiera e per l’alimentazione della falda freatica, che fornisce grandi quantità di acqua potabile alle città. Purtroppo in passato tali aspetti non sono stati presi in considerazione perché ignorati, per cui i paesi europei hanno distrutto più del 60 % delle loro zone umide, perché considerate ambienti infestati dalla malaria, pieni di zanzare, terreni da drenare, riempire o comunque convertire in area coltivabile. Con la scomparsa di queste aree, o meglio di questi «ecosistemi», molte specie di animali hanno subito un forte calo, perché quasi la metà di esse dipendono dagli ambienti umidi. Solo oggi è possibile misurare i danni causati dalla scomparsa di queste zone di svernamento e di sosta lungo le rotte migratorie degli uccelli. Esse inoltre, trattenendo l’acqua per gran parte dell’estate, risultano molto produttive: la vegetazione acquatica si riproduce velocemente raggiungendo anche le 40 tonnellate di biomassa vegetale per ettaro all’anno. Altra ricchezza è la pesca: si pensi alle lagune italiane nord-adriatiche. Tali zone umide tuttavia sono ecosistemi complessi che richiedono da parte dell’uomo un’attenta gestione. Il fatto è che sono davvero pochi i fiumi che seguono il loro corso naturale, perché nella maggior parte dei casi essi sono stati sbarrati, cementati o prosciugati. Il futuro delle zone umide del Mediterraneo europeo dovrebbe essere stabile perché ne è ben riconosciuto il grande valore ambientale [107].
Con quanto detto non si vogliono affatto mettere in discussione gli interventi di bonifica compiuti in passato, senza i quali le popolazioni meridionali sarebbero state decimate dalla malaria. Quelli medievali furono comunque dei piccoli, limitati ed empirici tentativi, visto che le zone e le località interessate dal paludismo e dalla malaria erano tante. Nella sola Puglia, ad esempio, la bonifica su larga scala del territorio significava debellamento di acquitrini, acqua stagnanti e paludi, frequenti soprattutto nel Barlettano dove, non di rado, l’Ofanto straripava, sui litorali salentini e in tutte le zone lacustri e prossime agli sbocchi in mare dei corsi d’acqua. Queste zone erano interessate più che da interventi di bonifica da uno sfruttamento per la caccia e la pesca che vi si praticava ampiamente [108].
In
conclusione, è opportuno porre l’accento su alcuni
degli ostacoli incontrati nel corso della ricerca. Il presente lavoro non
ha affatto la pretesa di aver affrontato in maniera esaustiva problematiche
complesse, inusuali (dato il periodo storico cui si riferiscono) e soprattutto
poco studiate. La maggiore difficoltà, di ordine bibliografico, è consistita
nel reperimento non tanto delle fonti, la maggior parte delle quali abbondano di
informazioni utili, quanto della letteratura storiografica, datata se non,
talvolta, inesistente.