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MEDIOEVO RUSSO |
a cura di Aldo C. Marturano, pag. 32 |
La realtà e la storia ci hanno insegnato che, a parte tutti i pregiudizi impostici dalla cosiddetta “buona educazione” o suggeritici dall’ossessionante pubblicità odierna, in caso di fame “impellente”… si mangia di tutto! Racconta Gavriil Saric’ev nei suoi viaggi in Siberia (XVIII secolo) che i Tungusi mangiavano qualsiasi parte dell’animale ucciso, persino le impurità degli intestini che mescolano con sangue e grasso ottenendone una specie di sanguinaccio! E chi non conosce la famosa “pagliata” romana? E si potrebbe continuare fino al cannibalismo come quei passeggeri di un aereo salvatisi sulle Ande che mangiarono i cadaveri dei propri compagni morti pur di restare in vita in attesa dei soccorsi!
La seguente ricetta che risale al tempo di Luigi XV, re di Francia nel
XVIII secolo, e che serviva a cuocere il cosiddetto “pane della carestia” era
destinata ai poveretti i quali si dovevano accontentare nei tempi
duri. «Si prenda un pugno o due di terra finissima,o, se si
preferisce, di quella sabbia bianca e sottile che rallegra molte
sponde marine del nostro continente; si raccolga a piacere lungo
pascoli e prati, dell’erba trifogliata o tremolino; s’impasti con
acqua e un po’ di farina, di quella nera, beninteso, di grano
saraceno, si metta il tutto a cuocere sotto la cenere calda e, se
possibile, dentro la bocca rovente di un forno». Che ne dite? Ne mangereste oggi? L’archeologia, logicamente!, ha trovato prove concrete di situazioni estreme come queste in tutto il mondo e in tutte le epoche. Ci accorgiamo così che l’uomo ha mangiato di tutto! Ha mangiato animali crudi come le cozze o mitili come si deduce dai mucchi enormi delle valve dei molluschi gettate via dopo il consumo trovati nel nord Europa, ha mangiato (e mangia) rane e rospi oltre a lumache e a larve di coleotteri, ragni e scorpioni. E non basta, poichè mangiare non è così semplice. La magia e la religione, le differenze di classe nella società in cui si vive ed altri motivi impongono il rifiuto o pongono ostacoli pesantissimi a nutrirsi di certi cibi, tanto da portare l’uomo alla morte per inedia pur di non contravvenire a quanto gli è stato insegnato ed inculcato sin da bimbo dai proprii genitori. Si pensi al divieto di mangiare carne di porco vigente in alcune società umane o il ribrezzo che si prova in altre a mangiar lumache o uova ammuffite o occhi di animali, se non proprio carne umana arrostita… Anzi! Troveremo momenti nella nostra storia in cui questi problemi hanno un riscontro evidentissimo! Dunque talvolta è necessario mangiare soltanto sopravvivere e l’uomo è disposto ad accontentarsi di quello che è possibile “mettere sotto i denti”, pronto a vedere sulla propria tavola prodotti molto diversi dai soliti purché si estingua quel “maledetto” stimolo… ovunque e comunque! Ma è proprio sempre così? In realtà in parte ciò è vero, ma soltanto in parte! Soprattutto, ed è quel che attira maggiormente la nostra curiosità,
l’uomo si ciba da sempre, e prevalentemente, di piante! Vuol
dire che le piante sono il cibo del più forte? E i simboli
tradizionali della potenza impersonati dall’aquila, dal leone, dal
falco, dal drago dove li mettiamo in questo confronto? Se la credenza
popolare afferma che mangiando le carni di un animale, ne acquisiamo
le proprietà fisiche e psichiche, dalle piante che cosa prendiamo?
Cercheremo di dare una risposta anche a questo, sebbene, malgrado
tutto, sicuramente le piante abbiano lasciato le loro tracce
nell’antichità come il cibo umano preferito in assoluto! Questo è
il nostro modo di vedere contro l’opinione di una grande storica del
cibo Maguelonne Toussaint-Samat o di un non meno noto Marvin Harris di
pari competenza storica! Appartenenti alle più diverse specie, a seconda del clima e della
reperibilità, addirittura alcune piante erano diventate talmente
indispensabili, da doverle offrire come corredo funebre sotto forma di
semi da ripiantare affinché il defunto potesse continuare a cibarsene
nell’Aldilà! Il portar fiori alle tombe infine, non sono forse un
residuo odierno di questo antico uso funerario? E lo scopo non è
ancora quello che i morti continuino “a goderne” come quando erano
in vita? è chiaro che l’uomo ha imparato a sperimentare (e a selezionare) la
coltivazione di sempre nuove specie affinché gli servissero da cibo
sempre più appetitoso. E gli animali erbivori lo hanno aiutato!
Osservati con molta attenzione quali nostri prossimi molto simili a
noi, proprio con il loro comportamento ci hanno indicato se una pianta
(o un altro animale, se è il caso) poteva essere ingerita senza
pericolo. Alcuni di questi nostri inconsci “consiglieri” li
abbiamo domati e selezionati affinché vivano vicino a noi come amici:
il gatto, il cane, gli uccelli di voliera… Altri invece sono
diventati nostri animali da macello, delle macchine viventi che
trasformano le piante che noi non sappiamo assimilare in cibo più
accettabile per il nostro palato nella loro carne. E guai se questi
animali si azzardano a toccare le piante che noi mangiamo! I grossi
erbivori li vediamo in tal caso come nostri concorrenti e talvolta non
ci resta che abbatterli e mangiarceli… e da questo nasce la
caccia forse più che dal bisogno di cibarsi di carne! Né in seguito l’uomo si è fatto scrupolo, nei momenti di strettezza,
di cibarsi della roba andata a male visto che altri animali riuscivano
a mangiarla. Anzi, da questo cibo avariato l’uomo si è trasformato
in cuoco sopraffino per renderlio appetibile. Ha inventato intrugli
inverosimili che ha chiamato salse, condimenti, spezierie, oggi come
ieri allo scopo di insaporire il solito pasto giornaliero e inventando
il culto del cibo cotto. E qui fantasia e necessità hanno trovato
spesso un giusto connubio e ne è nata la culinaria oltre
all’industria della trasformazione alimentare così importante
oggigiorno! E stiamo attenti! Le piante contengono pure molecole
dannose per l’organismo umano. Queste molecole vengono chiamate
comunemente veleni, ma in realtà nella stragrande maggioranza dei
casi è la quantità ingerita che trasforma la sostanza che finora
abbiamo consumato senza pericolo in veleno. Un esempio? Il prezzemolo!
Se sparso o cotto in piccole quantità esalta o aggiunge dei sapori
gradevolissimi al nostro cibo, ma provate a bere in una volta sola un
infuso di mezzo chilo di questa preziosissima erba. Potreste esserne
avvelenati quasi mortalmente! La ricerca e la
scelta di piante per farne cibo richiede una grandissima e
antichissima esperienza che, per fortuna, abbiamo ormai accumulato a
sufficienza nei millenni passati e sappiamo ormai distinguere la
pianta giusta per noi, sempre rispettando la nostra tradizione
culturale però! Guai poi a pensare che l’uomo mangi solo prodotti
solidi o semisolidi e quindi le piante direttamente come esse si
mostrano a noi, perché tutti noi sappiamo che i prodotti liquidi o le
masse pastose sono da noi preferiti per mangiarne. Sotto questa forma
le piante sono più facilmente ingeribili, specie quando si tratta di
bambini o di vecchi sdentati, ma soprattutto perché i prodotti
liquidi, spargendosi rapidamente sulle nostre papille gustative, ci
catturano immediatamente col loro sapore! Stiamo naturalmente parlando
di cibo e non di alimenti. Quest’ultima parola infatti significa
tutt’altro, a rigor di termini, benché gli alimenti si
identifichino spesso con la roba da mangiare! Al cibo perciò, non sempre raccolto come prodotto pronto per il consumo
immediato una volta estratto dalla natura circostante, possiamo
migliorarne aspetto e sapore con qualche manipolazione mirata e la
moderna archeologia ci offre la possibilità di conoscere i diversi
modi in cui ciò avvenne nel passato. Ed ecco che nei reperti
distinguiamo agevolmente i cibi crudi da quelli cotti, spezzettati o in poltiglie e mescolati con vari altri
ingredienti. Un altro passo avanti è stato compiuto quando l’uomo ha capito che
certi prodotti si trovavano in maggior quantità in certi luoghi e non
in altri, in certi periodi dell’anno e non sempre. Allora si è
ingegnato, con la fatica personale e con l’esperimento ripetuto, a
riprodurre circostanze e condizioni necessarie e sufficienti affinché
quella pianta si rendesse di nuovo disponibile per il consumo nello
stesso luogo e fosse così appropriabile (origine delle coltivazioni e
dell’allevamento) per trasformarla in cibo. Abbiamo detto l’uomo, ma in realtà dovremmo essere più
precisi poiché l’invenzione della produzione del cibo è
dovuta quasi totalmente alla donna, per la quale questa
ricerca, questa sperimentazione alla preparazione dei prodotti per
renderli più mangiabili o per conservarli erano tutte faccende
importantissime, quando era incinta o aveva dei bimbi da allevare o
dei vecchi da assistere. Benché oggi tutto questo ci sembra
lontanissimo nel tempo ed ormai superato dai servizi moderni da quando
compriamo da mangiare nel supermercato o manteniamo in vita un malato
con le fleboclisi, in realtà la ricerca del cibo non è assolutamente
cessata. Anzi! A livello planetario, è diventata più rozza e più
spietata per coloro che hanno fame, e sono milioni!, al di là dei
confini del nostro mondo dorato e sterilizzato. Di tanto in tanto
queste masse affamate ci saltano negli occhi inquadrati dalla cruda TV
che indugia in zone dove vivono popoli distrutti dalla guerra, dalla
carestia, dai terremoti, dal “sottosviluppo” e dai nostri
supermercati che… comprano il meglio per noi e lasciano il peggio
agli altri! In realtà poi ci accorgiamo che non è il cibo che
manca, ma che esso è concentrato nei luoghi sbagliati. Fatte queste doverose (e spaventose) considerazioni dobbiamo però
volgere il nostro interesse al Medioevo e, allora, la prima
domanda è: Che cosa sappiamo della produzione di cibo in quell’epoca?
Dobbiamo anche chiederci: Esiste un Medioevo Russo simile a
quello occidentale europeo nell’ambito del quale indagare sul cibo e
sui suoi diversi aspetti culturali e religiosi? Gli storiografi sovietici avevano già evitato questo termine, Medioevo,
e lo avevano inglobato nella più generale storia del modo di
produzione delle merci e delle derrate col termine di Feudalesimo.
Senza volere entrare in discussioni oziose su questioni
storiografiche, noi abbiamo preferito chiamare il periodo che ci
interessa Medioevo Russo e basta! Aggiungiamo soltanto che
questa parte della storia europea ha dei cicli propri che andrebbero
indagati meglio. Partiamo allora dalla data tramandataci dalle Cronache Russe detta la Chiamata
di Rjurik dalla Svezia, poco dopo la prima metà del IX secolo. Questa è l’inizio convenzionale della storia russa. Di qui ogni
ciclo storico parte e poi si chiude per suo conto, a seconda della
regione della Pianura Russa contemplata, fino all’ultimo ciclo che
finisce nel XV sec. nella Russia Moscovita. Più in generale inoltre
si può dire che la storia medievale russa si conclude definitivamente
con l’estinzione della famiglia discendente da quel Rjurik nominato
sopra e cioè con l’uccisione del figlio di Giovanni IV di Mosca
detto il Terribile. Per quanto ci riguarda poi, ci muoveremo fra i
sec. X e XIII e talvolta fin nel XIV. Abbiamo detto che gli smierdy sono produttori diretti di cibo e
li abbiamo visti nel loro villaggio organizzarsi per mettersi al
lavoro nei campi. Guardiamo ora il capo della grande famiglia, il ciur,
e osserviamo che costui impersona non solo la guida vera e reale della
colonizzazione intrapresa, ma è anche l’autorità massima della
società del mir e talvolta può disporre della vita dei membri. Per
queste ragioni da tempo non esegue più con le proprie mani il lavoro
materiale, ma ha acquisito il diritto di essere servito dai componenti
più giovani e di dedicarsi perciò alla conservazione e
all’insegnamento delle tradizioni ai membri giovani. Il ciur, come custode sacro del patrimonio terriero dal quale
dipende la vita di tutto il gruppo famigliare, ha anche il diritto
“economico” di non frammentare la proprietà del mir e lo
esercita attraverso l’imposizione di varie proibizioni e
concessioni. Ad esempio, non lascia che i ragazzi si sposino in età
troppo tarda impedendo loro in questo modo di costituire un nuovo
gruppo famigliare “concorrente”. Governa il numero di figli da
mantenere quando (sempre tenendo presente la mortalità perinatale
altissima) impedisce che questi aumentino di numero e portino troppe
“bocche da sfamare” nell’economia del gruppo e quindi cede i
bimbi appena puberi alla vendita in schiavitù (li manda lontano in
servitù) alleggerendo il carico del gruppo: pratiche comuni ancora
oggi in molte parti del mondo, benché condannate come illegali… Forse a questo stadio il ciur, è vero!, ci sembra un dispotico
padre-padrone, ma nel mir è il modello di giustizia e di equità
che ogni componente imita nella propria vita quotidiana. Il ciur
non è ancora visto come lo sfruttatore del lavoro altrui
(concettualmente infatti ancora non lo è), ma come l’unica persona super
partes di tutta la comunità. D’altra parte tutti quelli che lo
circondano sono carne della sua carne, compresi i figli adottivi e le
loro mogli e i loro figli e… persino gli eventuali famigli o schiavi
conviventi! è possibile che la poca mobilità e la necessità di buoni rapporti di
vicinato con le altre comunità separate a poco a poco fanno eccellere
un capo-villaggio più diplomatico su tutti gli altri e costui (e
quindi anche chi da questo sarà designato a succedergli o al quale
saranno trasmesse delle competenze) assume una nuova preminenza che già
prelude una posizione di dominanza. Perché è importante soffermarci su queste questioni? La risposta è
semplice. Prima di tutto stiamo parlando di cibo e il ciur deve
fare in modo che quanto si produce basti a nutrire il gruppo. In
secondo luogo, la stratificazione in classi della società primitiva
slava, quando sarà ormai evidente, porterà alla differenziazione
delle abitudini di vita e gradualmente anche a quella dei cibi da
consumare ogni giorno e il ciur con la sua autorità indiscussa
dovrà tenerne conto, sempre salvaguardando le tradizioni! Nel caso slavo orientale c’è un vantaggio in più per il ricercatore
ed è quello, a nostro avviso, che l’élite al potere, a
causa della superiorità della cultura portata dai migranti slavi
nella Pianura Russa, si sentì autorizzata a propagandare (e questo
fino ai tempi dell’URSS) questa cultura come l’unica vera da
imitare rispetto a quelle degli altri popoli che si andavano man mano
incontrando. Come? Soprattutto imponendo le abitudini alimentari, come
fecero gli Spagnoli nel XVI sec. nel Nuovo Mondo! Con l’introduzione
del Cristianesimo infine, per l’isolamento quasi voluto della Rus’
di Kiev, la cultura dell’élite etichettata come pura e
slavo-russa consacrerà sempre più caparbiamente la sua supposta
origine contadina nella cucina e nei costumi, al contrario
dell’ibrida nobiltà polacca che accoglierà con più entusiasmo
cibi e modi di cuocere dell’Occidente europeo senza troppi
impedimenti. Tuttavia nella nostra ricerca abbiamo riconosciuto due culture ben
distinte: una cittadina che tenterà di avvicinarsi quanto più
possibile a quelle occidentali dello stesso periodo, ed una
campagnola, chiusa in sé stessa per timore di essere inghiottita da
quella dominante e soffocante della città. Sarà questa parte della Rus’,
con le proprie tradizioni e i propri costumi, che si opporrà a
qualsiasi ingerenza esterna e che creerà i tanti movimenti
“eretici” nel seguito della storia russa… partendo proprio
dalla questione cibo! Se così è, qualcosa nei piani dell’élite al potere non andò come
si voleva, giacché si ebbero due tipi di consumo alimentare opposti,
uno per la classe dominante e uno per quella dominata… Un segno di distinzione subito riconoscibile, come lo fu per tutta
l’Europa del tempo (e dura fino ai nostri giorni nel mito della
bistecca quanto più grande e più grossa si può!), era il mangiar la
carne dei grossi erbivori da parte dell’élite al potere e
vantarla come pietanza di classe, migliore di qualsiasi altra perché
dava forza e prestanza. Fermiamoci un momento su questo punto. Come noi sappiamo, dal nord e da tutta la Pianura Russa un articolo di
esportazione molto comune erano (ed è ancora oggi) le pellicce
pregiate dei vari animali foresticoli di piccola e media taglia
accalappiati con le trappole i quali, una volta spellati, potevano
essere lasciati frollati e poi mangiati. E invece ciò non avvenne…
Per di più il contadino allevava il porco e quindi anche questo
animale poteva essere consumato come cibo. E chi avrebbe mai ucciso il
porco per mangiarlo senza il permesso degli dèi? C’era il
cavallino. E chi avrebbe preferito macellare il volenteroso aiutante
nel lavoro dei campi d’ogni giorno? Insomma nel linguaggio comune
dello smierd “mangiar carne” significava uccidere animali a
lui utili ed amici. Al contrario, siccome la guerra e la caccia erano
riservate al re, al signore o al padrone, appartenere alla classe
dominante significava cacciare
e mangiar carne, conquistando gli animali con le armi allo
stesso modo come si faceva contro gli uomini per assoggettarli! Lasciamo allora la carne ai nobili e volgiamoci alle granaglie. Ed ecco le prime informazioni raccolte da un viaggiatore musulmano (Ibn Rusté!) del X secolo su quali fossero prevalentemente i cereali consumati dagli Slavi Orientali: «Gran parte dei loro seminati sono di miglio. Al raccolto i semi raccolti con cucchiaioni di legno vengono sollevati verso il cielo ed essi dicono: O signore, che finora ci hai fornito il cibo, daccene ancora in abbondanza!». Il miglio, nella sua varietà Panicum proso, era un
cereale molto diffuso in zona slava e molto apprezzato se si chiedeva
alla divinità di darne sempre di più! Il miglio (proso/просо
in russo) in realtà poi è uno dei cereali più diffusi
dell’antichità e non ci fa neppure meraviglia che Ibn Rusté
lo abbia notato qui. A parte ciò, ha chicchi piccolissimi anche se
numerosi per ogni spiga, ha bisogno di terreno asciutto e di un clima
secco di tipo continentale, e questo rientra, benché con fatica!,
nelle condizioni standard che noi troviamo in molte zone della Pianura
Russa, se si mantengono le coltivazioni ad una certa distanza dai
fiumi e dalle paludi. Per nostra fortuna, per il fatto che Ibn Rusté
sembra accennare ad una città dei Croati dove si trova molto miglio,
c’è una probabilità che egli si riferisca proprio al bassopiano
della Podolia o della Volynia, sede originaria dei Croati, ma non è
sicuro. Il miglio solitamente era il primo cereale che si piantava dopo
il taglia-e-brucia descritto da noi quando abbiamo parlato
delle operazioni di preparazione del terreno di nuova colonizzazione.
Prima perché matura in breve tempo e poi perché resiste bene alle
notti fredde, proprie del periodo in cui abbiamo visto vagare la nutà
slava alla ricerca di terra nuova. Tuttavia, come nota bene M. Deńbinska,
i reperti archeologici hanno mostrato che il miglio era coltivato
dagli Slavi in molte varietà in relazione al suolo e al clima locale.
Il che vuol dire che la coltivazione di questo cereale era
irrinunciabile e tradizionale perché… il miglio era il grano
degli Slavi! Più o meno come sarebbero oggi per un italiano che
vivesse all’estero gli spaghetti ai quali non saprebbe rinunciare! Che cosa si poteva preparare col miglio? Certamente, come le altre
granaglie (krupà/крупа), si
consumava sotto forma di densa minestra (kascia/каша)
oppure, impastandolo e poi cuocendolo in modo blando, sotto forma di
pane (zhito), come si fa ancora oggi.
è proprio la polenta di miglio che troviamo immortalata nel famoso
proverbio russo Sc’ci i kascia piscia nascia (Щи
и кашa – пиша
наша) ossia, tradotto, lo sc’ci (una
zuppa di cui parleremo in seguito) e la minestra è quello che noi
mangiamo! Questa minestra-polenta aveva però un inconveniente,
non poteva essere portata agevolmente in giro a coloro che lavoravano
nei campi perché non era solida e doveva essere gustata solo in casa!
Naturalmente si poteva lasciarla a seccare o la si poteva fare più
densa aumentandone il contenuto in miglio e allora, si diceva, tanto
più densa è la kascia, tanto più ricca è la famiglia che la
mangia! Notiamo che la kascia è già di per sé un cibo
distintivo di classe: Non la si può dividere come un piatto di carne
arrosto nelle varie parti più o meno buone fra i commensali a seconda
dell’importanza! La kascia la si può solo distribuire in
modo uguale a tutti! Inconsciamente quindi anche lo smierd
difendeva la sua identità di classe! Se una minestra non era agevolmente trasportabile, il pane (zhito/жито
in antico-russo) invece lo era e perciò restava il cibo principe. Non
c’era una sola ricetta per farlo, ma, siccome il pane rappresentava
il cibo della “vita” (questa è la radice della parola zhito!),
lo smierd sapeva bene che il sapore sarebbe stato diverso a
seconda del villaggio o della casa da dove proveniva, a causa degli
ingredienti particolari. Anzi, si diceva che… parli la lingua del
posto dove hai mangiato il pane. Anche il famoso miglio poteva
essere o aggiunto alla ricetta del pane oppure usato come cereale di
base, dopo averlo triturato in farina grossolana, e in tal caso il pan
di miglio accoppiato con la cipolla o altre radici esculente era
messo in saccoccia per consumarlo al momento desiderato. Naturalmente,
siccome il pane era cotto una volta per tutta la settimana, in certi
giorni era ormai così duro che bisognava inzupparlo nell’acqua
prima di mangiarlo! Un ingrediente che non si aggiungeva al pane poiché non in tutte le
regioni era disponibile in abbondanza (e a buon mercato) era il sale!
Di questa sostanza di alto prezzo se ne dava un po’ in un
sacchettino che lo smierd portava con sé come parte del suo pojòk
(поек o porzione per il pranzo
giornaliero) nei campi!
Qualcuno dei nostri lettori si chiederà come mai non abbiamo ancora
nominato il frumento (pscenìza/пшеница).
Quello che comunemente chiamiamo grano, cereale che oggi più o
meno consumiamo in grandissime quantità nel mondo occidentale,
rappresenta il retaggio di un’agricoltura nata più o meno seimila
anni fa nella valle del Danubio, ma sicuramente di origine orientale e
ancor più antica e già selezionato nella Mesopotamia (ossia l’Iraq
di oggi), nell’Egitto dei Faraoni o nella Civiltà di Mohenjo-Daro
(Pakistan). Dai rilievi archeologici condotti nei kurgany e nei
sopki, se ne sono trovate tracce vicino al miglio (vedi D. A.
Avdusin), insieme con la segala e con l’orzo. Da
questo si può dedurre che il frumento era coltivato, sì!, presso gli
Slavi, ma con minor frequenza perché meno resistente alle condizioni
climatiche troppo fredde e alla natura del terreno a disposizione.
Oltre a ciò il frumento era considerato un cereale riservato
“all’élite al potere”, per la cura richiesta nella sua
coltivazione e per la maggiore dimensione dei suoi chicchi. Così era
in quasi tutta l’Europa del Medioevo e quindi anche qui nella
Pianura Russa! I bojari, ossia i proprietari terrieri della Rus’
di Kiev (sec. X-XIII), se lo facevano coltivare dai loro contadini
fornendo loro i costosissimi semi e naturalmente ne controllavano bene
la resa perché il raccolto rimaneva sempre e solo per il proprio
consumo esclusivo. Anzi! Raccomandavano di seminarlo solo quando era
pronta la cerjòmuha/черемуха
(ciliegia selvatica) sull’albero e cioè a primavera inoltrata
affinché i chicchi risultassero i migliori! Per quanto riguarda invece la segala (rozh’/рожь),
essa era ancora poco diffusa (i resti archeologici trovati sono
mediamente in quantità significativamente minore) in quello stesso
periodo (probabilmente a causa della pericolosità di essere infettata
dalla Claviceps purpurea, un fungo che contiene l’ergotina,
alcaloide inebriante a basse, ma velenoso ad alte, dosi), ma comunque
ben conosciuta e consumata. Soltanto al tempo e con le nuove tecniche
introdotte dai Cavalieri Teutonici durante le crociate di conquista
del Baltico nel XIII sec. la segala cominciò ad esser coltivata
intensivamente e più razionalmente anche nelle Terre Russe
dell’estremo nord tanto da diventare, con il sistema distributivo
messo in atto dall’Hansa germanica, il cereale più richiesto a
partire dalla regione settentrionale intorno a Novgorod che ne faceva
traffico intenso. Dice un vecchio proverbio russo distinguendo i due cereali, frumento e
segala: Màtusc’ka rozh’ kormit vseh splosc’, a pscenic’ka
– po vyboru! (Матушка
рожь
кормит
всех
сплошь , а
пшеничка
по выбору!) e cioè: Mamma-segala
nutre bene tutti, mentre è il frumento che sceglie chi nutrire! E
così per distinzione di classe mentre il sacro pane detto karavài
fu fatto quasi sempre con la segala, i kalacì, ossia i
panini dolci usati normalmente dalla classe alta, erano fatti col
frumento! Chiaro no? Più diffuso invece risulta l’orzo (jac’men’/ячмень),
detto anche il frumento dei poveri perché considerato più
ordinario (per la dimensione minore dei chicchi!) ed era chiamato in
gergo zhitar’ ossia buono anche per far pane! L’orzo
è il più nordico dei cereali e meno di tutti gli altri, si diceva, teme
Nonno Gelo e i suoi figli!
è
importante però che lo si semini
quando c’è il plenilunio perché soltanto la luna lo aiuta a
crescere bene… C’era persino l’avena (ovjòs/овес),
molto più appetibile per il suo sapore più dolce e, benché se
ne desse ai cavalli, era consumata volentieri dall’uomo come si fa
ancora oggi. Noi abbiamo però finora parlato dei cereali già ridotti ormai a
semplici chicchi, liberati del loro involucro duro e indigeribile
esterno (la crusca o otruby/oтрубы)
e pronti per il consumo. In realtà dobbiamo tener presente che questi
chicchi erano stati la parte più preziosa del carico portato dalla nutà
giunta nella Pianura Russa. Perciò quei chicchi “speciali”
dovevano essere protetti prima di altri dal marcire o dai parassiti
meglio e con più cura! Questi problemi di conservazione erano già
stati risolti secoli prima dal punto di vista tecnico poiché i
chicchi venivano rinchiusi in un olla di terracotta o di vimini e
terracotta, abbastanza robusta e sigillata accuratamente. In questo
modo il piccolo volume d’aria che ancora rimaneva nell’interno
lasciava che i chicchi più in alto cominciassero a germogliare e ciò
facendo consumassero tutto l’ossigeno a disposizione. Si generava
così anidride carbonica che impediva sia un’ulteriore germinazione
sia la vita ad eventuali altri insetti, a spore e muffe aerobiche. Il
chicco naturalmente conservava la sua umidità e non seccava, ma
sospendeva comunque le sue attività vitali tenendosi a lungo integro
e pronto per la prossima semina. Questi chicchi erano stati
selezionati dalle spighe più robuste e più grosse e quindi il loro
valore tecnologico era particolarmente importante. Questa olla
sigillata, quando la comunità si stabiliva in un certo posto, era
sostituita da una fossa scavata nel terreno all’interno del granaio
comune, ugualmente impermeabilizzata con dell’argilla, chiamata protiven’/противень.
Sia di queste olle che delle fosse sono stati ritrovati numerosi ed
indiscutibili reperti archeologici. Non sono state invece trovate
molte pentole di terracotta che potremmo con sicurezza attribuire al
corredo del vasellame da cucina di una massaia medievale! Tuttavia è
indubbio che i cereali, rispetto ad altri prodotti, devono essere
cotti, abbastanza a lungo o per breve tempo, giacché non si può
mangiarli crudi, almeno con la nostra dentatura e per il nostro
apparato digestivo! Vediamo allora di capire come le massaie, che ora possiamo immaginare
sistemate nella nuova izbà, si adoperavano per cucinare. Ad
esempio, se una kascia doveva essere preparata, questa era
cotta nella pec’ka! Addirittura abbiamo raccolto la
tradizione che nella pec’ka veniva introdotta al principio
dell’anno un pentolone di coccio dove la minestra cuoceva
continuamente e la massaia non faceva altro che aggiungere acqua e
nuovi ingredienti man mano che questi venivano raccolti col passar
delle stagioni! E qui già notiamo un’insolita particolarità: La
cucina slavo-orientale non prevedendo un riscaldamento dal fondo della
pentola, ma un calore costante e avvolgente da tutti i lati dava alla kascia
così preparata una consistenza diversa da quella che noi oggi
otterremmo con la nostra cucina a gas o a piastre riscaldate e sempre
a vista della preparatrice (o del preparatore) che deve rimescolare
con un mestolo. Per questi motivi le pietanze della tavola dello
smierd erano prevalentemente degli stufati! Ma a qual ora del giorno si incontravano i membri della famiglia per
mangiare tutti insieme? Sicuramente alla mattina veniva dato ad ognuno
il proprio pojok/поек da portare con sé
sui campi perché non c’era l’abitudine di una colazione mattutina
(zavtrak/завтрак)
come sappiamo dalle esortazioni della Chiesa ai parrocchiani: Non
preparate da bere e da mangiare di primo mattino! E’ possibile,
come pensa la N. L. Pusc’kareva, che solo le donne, alzandosi per
prime la mattina, mangiassero quel che era rimasto della sera prima.
Ad ogni buon conto soltanto alla tarda metà d’ogni giorno, quando
il sole guarda verso sud (questa è l’etimologia della parola uzhin/ужин
che oggi indica… la cena in russo!), si mangiava tutti
insieme, rammentando che in quei tempi si tornava a casa prima che la
luce si esaurisse. Il sopraggiungere della notte portava gli esseri
notturni pericolosi a vagare presso i crocicchi per far perdere la via di casa e quindi vagare dopo
il tramonto non era consigliabile! è difficile però immaginare una tavola al centro dell’izbà
intorno alla quale si sedevano tutti i commensali perché
l’arredamento antico (prima del Cristianesimo) non prevedeva un
mobile del genere. Tutt’al più c’era un tavolino-sgabello usato
per le occasioni speciali… Di solito il cibo veniva servito dalla
padrona di casa in scodelle di legno e non ci si metteva a mangiare
con posate e a bere in bicchieri di vetro come avviene oggi. La zuppa
veniva tirata fuori dalla pec’ka e la nostra massaia la
serviva al commensale che si accomodava sulla mensola che correva
intorno alla parete (lavka/лавка).
Si mangiava raccogliendo il cibo col cucchiaio di legno dalla scodella
poggiata sulle proprie ginocchia. Questo avveniva d’inverno o quando
era troppo freddo, altrimenti d’estate era più comodo mangiar fuori
sul retro dell’izbà, magari arrostendo sullo spiedo qualche
volatile. C’erano, tuttavia, le grandi occasioni dei matrimoni, dei funerali,
delle cene sacre in cui diverse famiglie da diverse regioni si
incontravano per star insieme per scambiarsi notizie e far nuove
conoscenze o prendere accordi per nuovi sposalizi e nuovi legami
personali. Periodicamente infatti si organizzavano degli incontri
chiamati guljanie/гульяние
(ossia bisboccia, convito, godimento collettivo nel mangiare e nel
bere), specialmente nella stagione buona, fra villaggi e case
delle proprie vicinanze allo scopo di rinsaldare l’appartenenza alla
stessa stirpe, ma anche per azzerare le eventuali differenze
economiche che si erano create durante l’anno con uno scambio di
doni! Ne descriveremo più in là. Qui però ci spieghiamo meglio
sull’ultimo punto. E’ quasi naturale che durante l’anno si
accumulassero derrate o prodotti in più rispetto a quelli
effettivamente consumati dalla famiglia (o dal gruppo), magari per
eccesso di precauzioni o chissà per qual altro motivo. Si sfruttava
allora l’occasione di questi incontri rituali per eliminare i
surplus, tutto in grande allegria in una specie di potlatch
degli Indiani americani del nordovest! Logicamente, salvo gli anni di
carestia! In questi simposi, come possiamo immaginare, veniva fuori
tutta l’inventiva delle cuoche, mogli degli smierdy, per
mettere a punto pietanze succulente con le derrate a disposizione.
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Dal
libro di Aldo C. Marturano: VITA DI SMIERD, Cibo e Magia nel Medioevo Russo (in collaborazione con William Lamberti, presidente dell'associazione dei Ristoratori italiani di Mosca, e con la MGU
- Università di Mosca - Progetto SOKOL),, in corso di stampa.
©2007 Aldo C. Marturano