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MEDIOEVO RUSSO |
a cura di Aldo C. Marturano, pag. 29 |
Vladimiro Monomaco
Quando
ci siamo accinti a scrivere del ruolo della donna nella società russa delle
origini abbiamo avuto grandissime difficoltà proprio per l’insufficienza
delle fonti e così abbiamo dovuti fare confronti su confronti per riuscire a
disegnare un quadro che fosse abbastanza convincente e rispondente alla verità
storica (!!). Infatti, se partiamo dai reperti archeologici, questi ci indicano molte
cose su come le donne del tempo si ornavano e si vestivano, ma perché… si
riferiscono a quelle dell’élite al potere! Così, per quanto la società
potesse essere ancora poco differenziata dal punto di vista delle classi
sociali, non riusciamo ad attribuire gli stessi oggetti della consorte di un
principe a quella dello smjerd. Ci sono fortunatamente le byline
però che in parte ci aiutano e così, aggiungendo i resti delle usanze ancora
in vigore nella civiltà e nel folclore russi di oggi, sebbene restiamo incerti
su alcuni punti e lo sottolineeremo di volta in volta, abbiamo recuperato il
quadro che segue. Cominciamo col dire che nei villaggi russi dominava il matrimonio
esogamico e cioè la scelta della sposa al di fuori della grande famiglia
locale. Inoltre il numero di spose per marito non era nemmeno prescritto o
limitato: Il maschio che poteva, ne aveva anche più di una! Tutto ciò
avveniva, non tanto per una questione biologica per lo più ignota alla scienza
del tempo, quanto perché con ogni matrimonio si potevano stabilire solide
“alleanze” fra clan e clan, fra villaggio e villaggio, allo scopo di
rinsaldare o rafforzare i legami tribali e l’appartenenza all’identica
stirpe che era un aspetto molto importante e che si rispecchiava persino nella
venerazione religioso-magica del nume Rod che impersonava la sacra tribù
originaria. La donna come riproduttrice della specie, mescolando il suo sangue
con quello di un’altra comunità, legava indissolubilmente la sua grande
famiglia con quella nuova, non appena avesse partorito un po’ di figli. Questo
allontanamento definitivo (benché fosse concesso in casi particolari che la
donna rivisitasse i “suoi”, otpravit’sja vosvojasi) della donna dal
proprio ambiente spiega anche perché nelle cerimonie prematrimoniali che si
sono conservate fino ad oggi la promessa sposa deve rimanere chiusa in casa per
qualche giorno in gramaglie perché il matrimonio per lei è pari alla morte in
questo clan e alla rinascita nell’altro del marito. Naturalmente prima del matrimonio si sono già verificati altri eventi
che hanno preparato la scelta di cedere questa giovane a colui che sarà il suo
futuro marito. In realtà possiamo immaginare che una figlia, una volta cresciuta e
giunta al menarca (che probabilmente si notava intorno ai 9-10 anni!), non
rappresenta una forza lavoro in più come nel caso di un figlio poiché, quale
sposa feconda, non farà altro che aumentare le bocche da sfamare…
Ricordiamolo! L’economia dello smjerd è basata sullo sfruttamento di
un certo appezzamento di terreno in comune col resto del villaggio e quindi un
aumento di domanda di cibo preannuncia una diminuzione proporzionale delle
razioni già stabilite fino a quel momento. Insomma, la ragazza, ora che è
sessualmente matura, deve essere “data via” al più presto! Naturalmente la
più grande della figlie si sposa per prima e chi la prenderà dovrà pagare un
prezzo che copra il costo di crescita che la grande famiglia ha sostenuto fino a
questo momento: il cosiddetto “veno” in russo (corrispondente
all’analogo venum degli antichi latini o al qalim dei nomadi del
Centro Asia!). Solo in caso di infertilità la donna tornerà a casa sua e il veno
sarà rimborsato o sarà data in cambio la sorella minore della ripudiata, se è
ancora disponibile! Quando si conoscono i due promessi o quando s’incontrano? Di regola
solo al momento dello sposalizio! Fino ad allora i loro futuri legami sono un
affare che viene trattato dai genitori delle rispettive famiglie attraverso
l’intermediazione di due pronubi (lo svat e la svaha) che sono
stati incaricati di trovare il “giusto” sposo per lei e di proporre la
“giusta” sposa a lui. Il sentimento, l’amore come l’intendiamo noi oggi,
trova poco posto in tutto questo discorso e non può stare a fondamento del
nuovo nucleo famigliare. L’amore e il sesso fantasioso e divertente è roba
che si può provare soltanto in occasioni diverse dal matrimonio! Tuttavia c’erano anche altri riti matrimoniali delle genti russe che
ci sono stati tramandati sebbene considerati più primitivi dalle Cronache: Il
matrimonio per ratto dei “selvaggi” Drevljani (gli antenati dei Polesciuki!)
delle Paludi del Pripjat, ad esempio… Una volta sposatasi la donna entra nella nuova grande famiglia e notiamo
subito che raramente si costituiscono famiglie nuove. Una ragione c’è: Se ciò
avvenisse, significherebbe ricostruire tutta una nuova piccola comunità che
forse non troverebbe terra e neppure riceverebbe alcun aiuto da quelle di
provenienza. Da sposa, ora la donna deve fare il suo dovere di mettere al mondo i
figli e di educarli in buona salute fino alla maggiore età. La donna ha vissuto nella vecchia e continuerà a vivere anche ora in
promiscuità nella nuova grande famiglia. Lo spazio esiguo a disposizione
nell’izbà e i costumi del tempo permettevano infatti molte relazioni
fra i sessi che oggi condanneremmo per semplici ragioni culturali o religiose.
Al suocero ad esempio competeva il diritto di dormire con la nuora, se il marito
era via per lungo tempo, oppure con la propria figlia se era necessario per
avere altra prole. Dunque poligamia, incesto etc. non erano concetti o problemi
psicologici e legali di quei tempi! Chiaramente la prostituzione era
praticamente assente… Addirittura durante l’anno c’erano sempre molte occasioni di feste
orgiastiche in cui i giovani provavano la loro potenza e la loro disposizione ad
amare e a far sesso con le ragazze. Non sempre queste pratiche sfociavano
nell’unione dei due partners e quando la donna risultava incinta, il figlio
veniva “adottato” da tutta la famiglia, senza discussioni. Era lo stesso
atteggiamento se uno dei genitori di un bimbo moriva… Qui è doveroso
sottolineare come questa protezione dell’infanzia e degli adulti fosse una
delle grandi garanzie di assistenza che la zadruga offriva senza
pregiudizio a tutti i suoi componenti… attraverso la donna! Una specie di infermeria dove il malato veniva curato meglio e lontano
dagli altri componenti della famiglia era la famosa banja russa. Questa
era una costruzione a parte fuori dell’izbà di solito costruita su un
trespolo sollevato dal terreno e al cui interno si accedeva con una scaletta.
Qui c’era un forno (gorniza) dove si arroventavano i sassi di fiume. Il
bagno era fatto nel sudore che si generava nell’aria ad alta temperatura nel
piccolo ambiente. Se l’aria era troppo secca, con un lungo mestolo si
spruzzava dell’acqua sui sassi e il gioco era fatto! Nella banja
semplicemente ci si rinvigoriva o ci si curava o si partoriva… Tuttavia non era permessa alcuna attività nella banja dopo
mezzanotte! In questo piccolo ambiente infatti abitava il cosiddetto bannik,
un essere magico immaginato come un orribile vecchietto proprio perché
sicuramente costui era uno degli spiriti maligni che, accumulati nel corpo era
venuto fuori col sudore, liberando il corpo dal male, dopo esser stato battuto
con un ramo e si era ora stabilito nella banja. C’era un tipo di gadanie curioso che le ragazze facevano di
notte presso la banja che sfruttava i poteri del piccolo mostro maligno.
Una per una le giovani aprivano la porta della banja, si alzavano le
vesti sul di dietro e ponevano il proprio deretano nudo rivolto verso
l’interno, mentre il resto del corpo rimaneva al di fuori. Ognuna di loro
aspettava poi di sentire il tocco della mano del bannik che annunciava
che tipo di fidanzato avrebbero incontrato! Alla stessa stregua, non appena la donna incinta sentiva le prime
doglie, bisognava subito preparare la banja per farla partorire. Lì
dentro il bimbo veniva pulito e fasciato, ma non bisognava perderlo mai di vista
poiché c’era il pericolo che il bannik gli facesse qualche brutto
scherzo, come probabilmente era accaduto al principe Vseslav di Polozk nell’XI
sec. che era nato con una grossa voglia sulla fronte ed era stato costretto ad
indossare un cappello per tutta la vita per nasconderla! Per inciso diciamo
che nell’izbà calda era previsto un posto speciale per il neonato.
Infatti un travone trasversale al centro del soffitto da una parete all’altra,
chiamato matiza (piccola madre!), serviva per appendere e
dondolare la culla di solito regalata dai vicini e tutta dipinta di verde.
Questo sistema impediva che il bimbo mentre dormiva potesse essere molestato da
animaletti o insetti pericolosi! Certamente
c’erano sempre delle nuove nascite ogni anno e, sebbene l’evento fosse
sempre una gioia per tutti, rimaneva il problema di dover allevare il nuovo nato
per portarlo alla maggiore età che qui, si raggiungeva in pratica verso gli
otto-nove anni. C’era un rito importante per il piccolo essere umano maschio
ed era quello molto solenne del primo taglio dei capelli (postrìg) che
dava l’accesso alla maggiore età. Il postrig gli permetteva di avere
la sua voce in capitolo e il suo posto nell’assemblea del villaggio e,
soprattutto, di ricevere la sua parte di campo da lavorare per sostentare sé
stesso e gli altri della famiglia! I capelli, accuratamente raccolti dalla madre
commossa, erano però immediatamente bruciati affinché nessuno spirito malefico
potesse usarli per fare qualche incantesimo contro il nuovo membro della comunità. Il primo taglio
dei capelli per la donna invece era all’epoca del matrimonio dove le
lunghissime trecce, finora raccolte sul capo, adesso venivano sciolte e recise
per essere regalate o vendute. Ripetiamo invece che il problema numero uno restava il numero di bocche
da sfamare. Per questo l’antica società medievale aveva previsto delle
soluzioni sia affidando (dietro pagamento!) il bimbo in più prima del postrig
a chi lo richiedesse in un’altra comunità sia addirittura vendendolo come
schiavo in terre lontane. Non era questo un costume prettamente slavo o
slavo-orientale, era semplicemente un comportamento diffuso abbastanza in tutta
l’Europa (e mai scomparso neppure ai giorni nostri, benché mascherato dietro
altre etichette, malgrado le leggi protettive dell’infanzia!). D’altronde
non era forse più giusto che il bimbo abbandonando la famiglia evitasse
maggiori stenti a lui stesso e a tutti i suoi? Perlomeno passando in un’altra
comunità avrebbe potuto star meglio e costruirsi una vita diversa. Insomma
dobbiamo immaginarci un amor filiale molto diverso da quello di oggi senza
inutili pregiudizi scandalizzati. Perché allora non limitare il numero delle nascite ricorrendo al
vecchio metodo di allungare il periodo di allattamento? Purtroppo il tasso di
morte perinatale era molto alto e quindi molte gravidanze erano necessarie
affinché almeno un certo numero di neonati sopravvivessero e sostituissero con
le loro vite quelle degli individui deceduti. Ma se poi questi figli rimanevano
in vita tutti? Insomma, una donna doveva essere fertile, ma non troppo! Ciò detto, possiamo immaginare questa madre occupata soprattutto a
curare e crescere figli. Questi frutti del suo seno d’altronde, a parte il suo
orgoglio di averli creati nel suo grembo, secondo il modo di vedere del tempo le
garantivano la posizione sociale all’interno della comunità e le assegnavano
in “modo naturale” la gestione e l’economia della casa. Quali erano i compiti femminili di casa? Certamente il primo e più
importante era la preparazione, la conservazione e la trasformazione delle
derrate alimentari! Qui lamentiamo la mancanza di reperti archeologici sufficienti che ci
diano un’idea più precisa degli arnesi e del vasellame da cucina usato nei
secoli X-XIII d.C., ma presumendo che questo armamentario (utvar’) non
sia cambiato molto nelle sue funzioni, e neppure nel suo aspetto e pochissimo
nel materiale usato per fabbricarlo, possiamo ricostruire la figura della nostra
massaia alle prese con un grosso pentolone di coccio (gorsciòk) avente
tre gambe proprie, sempre di coccio, oppure poggiato sul un treppiedi di ferro
nel quale prepara la kascia come avveniva ancora qualche decina di anni
fa in Ucraina o in Bielorussia. Un grosso mestolo certamente è a sua
disposizione più altri cucchiaioni e cucchiai più piccoli, rigorosamente tutti
di legno. C’è anche una padella (skovorodà) di coccio senza manico dove
sciogliere il grasso o lo strutto di porco e dove poi si può friggere. Non
manca certamente un arnese molto importante per lavorare attraverso la bocca
della pec’ka: una specie di forchettone-pala di legno (latòk)
che serve ad introdurre e a tirar fuori le pentole e le padelle o per mettere il
pane e le focacce a cuocere per poi estrarle fuori pronte, proprio come la pala
di un moderno pizzaiolo nostrano! C’è persino una bella madia per poterci lavorare la farina mescolata
con l’acqua salata per le varie paste che servivano di base, ad esempio, alle blyny
(frittelle caratteristiche russe) oltre che per dolci e dolcetti. Secchi e
tinozze se ne sono invece trovati molti, specialmente negli scavi di Novgorod
eseguiti nella seconda metà del XX sec., e molti di questi recipienti avevano
delle misure costanti che ci indicano non solo l’attenzione con la quale
questi oggetti erano fabbricati, ma anche l’esistenza di una standardizzazione
e, nel caso specifico, di una produzione in serie. Bicchieri scavati nel legno o
barattoli di scorza intrecciata, cestini e scodelle, anche questi facevano parte
della batteria da cucina della nostra cuoca. Un coltello o una piccola accetta
con relativa pietra da affilare non mancava… Abbiamo notizia dell’uso del pane in un modo particolare ossia… come
piatto! In realtà l’uso è di per sé antico, ma se è ben provato per la
tavola del re polacco Ladislao Jagellone nel XIV sec., non sappiamo con
sicurezza se ciò fosse un costume abituale nell’izbà russa o a tavola
del signore. D’altronde il vocabolo russo tarelka per piatto di
coccio è parola tedesca (da Teller) importata dall’ovest, per cui
sicuramente il piatto come lo immaginiamo oggi fu introdotto molto più tardi
(XVI sec.), ma ciò non ci conforta per confermare l’uso del pane quale piatto
per mangiarvi dentro. La nostra massaia
ad ogni modo non si limitava a preparare il cibo partendo dalla materia prima già
pronta o dalle derrate che suo marito produceva nei campi o cacciava nella
foresta, ma aveva anche il compito di cercare in giro le spezie, di coltivare
nell’orto gli aromi e le insalate, la frutta fresca e le radici succulente per
arricchire e variare la dieta giornaliera. Di una pianta ormai riconosciuta
commestibile niente veniva gettato via, come
invece avviene oggi dove molti rifiuti urbani sono parti di piante che invece
una volta erano tranquillamente consumate con gusto. A proposito della ricerca di erbe, ricordiamo che ne avevamo già
accennato. Qui vogliamo ribadire che questa attività rimase propria della
contadina russa e che costei poi con lodevole preveggenza aveva l’accortezza
di classificare e di conservare per quanto possibile tutta questa riserva di
piante “selvagge”, ma commestibili, che in caso di bisogno avrebbero potuto
sostituire quelle che tradizionalmente si coltivavano nei campi. La lista non è
lunghissima e tuttavia non la riprodurremo qui, ricordando invece che questi
“surrogati” quando c’era una carestia (e queste erano purtroppo frequenti)
diventavano il cibo più importante. Durante la buona stagione possiamo dunque vedere la nostra donna vagare
per la foresta a raccogliere le bacche e i frutti selvatici che poi si
preoccupava di pulire, tagliare in pezzi più piccoli e far seccare sulla pec’ka
per poterli gustare anche d’inverno. Raccoglieva naturalmente i funghi che,
seccati, venivano infilati come in una lunghissima collana e appesi
nell’angolo bello dell’izbà o alla matiza. Sappiamo che si
usava anche l’Amanita Muscaria, velenosa in grandi e psicotropa in
piccole dosi, ma questa era un’altra faccenda… Come conservava il cibo la nostra madre di famiglia, oltre a seccare i
prodotti vegetali? Già il freddo intenso durante il lungo inverno era un mezzo
conservante efficace se alcune derrate erano immagazzinate nell’izbà
fredda. Un altro metodo, diciamo così spontaneo, era quello di lasciare alcune
radici e piante succulente ipogee come carota, rapa (talvolta
anche cipolla e aglio) e simili nella terra fredda sotto la neve
dove si erano sviluppate per estrarle al momento del consumo. Il freddo però
era anche sfruttato con l’uso della cantina scavata sotto l’izbà! Un conservante principe restava tuttavia il sale e la salamoia era la
soluzione ideale per conservare moltissimi alimenti. Teniamo presente che l’acqua dei pozzi nel nord della Pianura Russa, a
causa di giacimenti sotterranei di salgemma, è quasi sempre salata.
L’estrazione del sale avveniva in vari modi, sia dalle fonti salate di cui
abbiamo notizia esistere sulle rive meridionali del lago Ilmen sia dagli
acquitrini bielorussi e delle paludi del Pripjat, ma anche in posti vicini alla
foce dei grandi fiumi che sboccavano nel Mar Nero: Il Dnepr, il Bug, il Dnestr e
persino nel Mar d’Azov. In tutti questi luoghi c’era un’antichissima
tradizione risalente ai greci del Ponto Eusino di estrazione del sal marino per
concentrazione in soluzione acquosa tramite bollitura o evaporazione ed
essiccazione nel sole. Alla fine il sale non appariva come il nostro sale da
cucina raffinato, quasi puro Cloruro di Sodio cristallino, ma era spesso una
mescolanza di Cloruro e Nitrato di Sodio, come quello estratto nelle paludi che
però era il migliore poiché agiva sia come conservante sia come
“arrossante” nel caso della carne. Probabilmente la donna sapeva estrarre piccole quantità di sale
attraverso le sue esperienze anche dall’acqua dei pozzi senza ricorrere a
specialisti e ne teneva gran conto, giacché il sale era un prodotto costoso! Il
rito del benvenuto all’ospite nella casa russa (hlebosolje) ne denuncia
l’importanza poiché viene offerto pane e sale… Col sale venivano fatte varie conserve in salamoia, specialmente dei
prodotti vegetali, e non solo delle verdure, ma anche dei frutti dolci che
acquistavano così un sapore tutto particolare! Un alimento che andava conservato col sale perché abbondante, ma
soggetto a rapido deterioramento, era il pesce. La pesca era un’occupazione
prettamente maschile tuttavia ed era offensivo e inimmaginabile che una donna
potesse andare a pesca… I fiumi e i laghi della Pianura Russa, lo ripetiamo, erano (e in parte
lo sono ancora) frequentati da pesci di grossa mole come il Salmone o lo Storione,
pesci di cui gli individui di grande età (5-6 anni) raggiungevano proporzioni
quasi gigantesche. Questi pesci catturati, venivano liberati delle interiora,
ben lavati e posti in tranci o a volta interi sotto sale per lungo tempo. Il
sale penetrava nelle carni dell’animale privandole dell’acqua e impediva che
queste marcissero. I pezzi così preparati poi potevano essere tenuti in riserva
nell’izbà fredda per l’inverno. Altri pesci più piccoli invece
venivano posti in una salamoia molto densa. Si potevano anche seccare al vento e
al sole, se erano stati catturati d’estate… Anche il Mar Baltico forniva pesce e specialmente quello più famoso:
l’Aringa. Le Aringhe sono distinte in quelle del Mare del Nord che sono
più grandi di quelle del Baltico, appunto più piccole e più sottili, ma, a
detta degli intenditori, queste ultime sono più saporite. La distinzione fra le
due specie è chiaramente espressa dai popoli rivieraschi nelle proprie lingue e
così i russi parlano di salaka se è l’Aringa baltica e di sel’dka
se invece è quella atlantica. Ad onor del vero aggiungiamo che l’atlantica in
particolare ebbe gran diffusione quando l’Hansa tedesca cominciò a
commerciarne in grande quantità nel
XIII sec. e quindi prima di quest’epoca era poco conosciuta nei villaggi
dell’entroterra russo. Con sale e con la salamoia si conservavano le carni dei piccoli animali
catturati per la loro pelliccia o dei porci di allevamento e questa operazione
di solito veniva eseguita alla fine dell’anno alla chiusura della raccolta
delle pelli. Del maiale, quando veniva macellato, le parti grasse con tutta la pelle venivano salate e conservate appese da qualche parte nella cantina e si sono addirittura conservate fino ad oggi, naturalmente mescolati con elementi concettuali cristiani, alcune formule che dovevano preservare queste derrate dai vermi o dagli insetti e, grazie alla ricerca fatta fra gli archivi più impensabili dalla signora A. V. Kapylòva, ne rileggiamo una.
La carne però poteva anche essere conservata sotto terra, nella cantina
sotto l’izbà (podval/pogreb/podklet) dopo averla pulita e
dissanguata e avvolta in stracci puliti, all’inizio dell’inverno,
naturalmente!
Queste dunque erano tutte incombenze femminili che non finivano però
qui. La donna aveva il compito di curare le ferite, i malati, assistere i
vecchi inabili e perfino di curare gli animali malati del bestiame di casa. Il
malato d’altronde era visto non come colui il cui corpo è stato colpito da un
agente patogeno preciso, ma come se uno spirito maligno fosse penetrato dentro
di lui. La cura quindi non era soltanto farmacologica o chirurgica, ma anche
magica perché bisognava scacciare la forza impura che abitava nel corpo e qui
la donna, avendo una lunga esperienza ereditata da sua madre che l’aveva
appresa prima di lei, faceva la parte della cosiddetta znaharka, ossia la
sapiente. Agiva sia usando pozioni, infusi e impiastri di erbe e sostanze
varie che lei soltanto conosceva sia con scongiuri e preghiere particolari
indirizzate agli dèi (in tempi cristiani, ai santi) che presumibilmente
potevano aiutare a scacciare lo spirito maligno. Queste pratiche gli davano però
talvolta una funzione alquanto ambigua poiché l’insuccesso della cura o la
morte del malato la portavano subito nel mondo delle streghe malefiche e
cominciava ad acquistare la fame di poter distruggere la vita delle persone
intorno a lei. Quindi ci voleva una grande accortezza ad evitare accuse di tal
fatta, stando attenta a non dare troppe speranze a chi a lei si affidava per una
cura estrema. Acquistare però la nomea di znaharka era un onore molto
difficile da conseguire e raramente accadeva per donne giovani. Le nonne invece
che avevano ormai passato i 40 anni sembravano agli occhi della gente quasi
delle persone immortali e il loro agire era accettato di buon grado e
considerato inappellabile. Si pensava che se una morte o una non guarigione
seguiva ad un trattamento al quale la znaharka aveva sottoposto qualcuno,
la responsabilità ricadeva su colui che non aver ottemperato puntigliosamente a
tutti gli obblighi che la znaharka aveva prescritto con precisione: Un
solo errore rituale e la cura risultava non più valida e giusta! Il fatto che la
donna avesse dei cicli mensili simili a quelli della luna portava questo astro
ad essere un nume femminile (Lunà) benché abbiamo notizia che la luna
fosse prevalentemente un dio maschile (Mesjac). Protettrice della donna
di casa era invece Mokoscià o Mokosc’ il cui nome suggerisce,
per la somiglianza con l’aggettivo mokryi, ossia bagnato,
la sua origine come protettrice delle acque. In realtà però il nome è
legato per etimo alla tessitura e perciò Mokoscià era importante per questa
sua facoltà e le donne di casa stavano attente a non provocare la sua ira e a
tenersela buona con offerte continue ogni giorno di fiori ed erbe particolari
pestate e cotte in suo onore. Addirittura si diceva che Mokoscià apparisse
nelle izbe e filasse di notte sul telaio mentre tutti dormivano, se era
stata appagata dalla venerazione della padrona di casa! Il ricercatore
paleografo V. A. Ciudinov ha ritrovato il nome di questa dea su moltissimi sassi
morenici (valuny) che si trovano sparsi nella Pianura Russa deducendone
una venerazione molto più diffusa di quello che si può pensare. Secondo
Ciudinov, Mokoscià è la Dea Maggiore del pantheon slavo e presiede alla
consacrazione dei bambini al dio Rod dopo il postrig. Secondo lo
stesso ricercatore, non solo a Perun, ma anche a Mokoscià era abbinata la
Quercia come albero sacro. Aggiungiamo che
Mokoscià è l’unica dea femminile del pantheon vladimiriano e la sua
venerazione era fatta in modo esclusivo e segreto dalle donne per cui, molto
probabilmente, era proprio questa dea che presiedeva ai gadanie
dell’inizio dell’anno e ai quali gli uomini non erano assolutamente ammessi.
A lei era dedicato il quinto giorno della settimana in cui la donna interrompeva
il suo lavoro casalingo più importante: la tessitura dei panni! Non fermarsi al
venerdì sarebbe stato un sacrilegio tanto grande che avrebbe offeso Mokoscià
la quale, durante notte, era capace di imbrogliare talmente la trama del telaio
da dover ricominciare la tessitura daccapo! In suo onore alla
sera del giovedì la padrona di casa preparava un grosso pane con una coppetta
piena di sale su un tavolino nell’angolo bello dell’izbà e attendeva
che la dea venisse a mangiarne. Con il Cristianesimo Mokoscià fu relegata fra
gli spiriti impuri e diabolici e la sua festa fu sostituita da quella della
santa Parasceva, celebrata logicamente anch’essa di venerdì con la
preparazione della Tavola di Parasceva, ma vi fu aggiunto al pane e al sale
anche del miele! Alla donna di casa
toccava anche tenere in ordine l’orto e la coltivazione del lino e della
canapa… Queste due piante
erano considerate femminili e in particolare intorno al lino – Linum
usitatissimum – (ed anche, ma meno documentata, la canapa
- Cannabis sativa) si sono raccolte moltissime leggende russe in quanto
questa pianta era vista quasi come un figlio (o una figlia) che andava trattata
con delicatezza e attenzione da sua madre, la moglie dello smjerd.
C’era un giorno particolare della primavera in cui il lino andava seminato, né
prima né dopo! Così come c’era un giorno in cui esso doveva poi essere
raccolto, prima che la prima pioggia dell’autunno cadesse. Il lino era usato
esclusivamente dalla donna per tessere la propria biancheria e quella dei suoi
per tutti i momenti della vita. Le bimbe già verso i 6-7 anni cominciavano a
curare le piante di lino insieme alla loro mamma!! Occorreva seminare con cura
in modo che ogni seme desse una piante vigorosa e sana ed i semi andavano
distanziati perché una pianta non soffocasse l’altra nella fila e tutte
fossero vigorose. Finalmente la pianta cominciava a crescere, ma, strano a
dirsi, veniva spesso infastidita dalle piante concorrenti e così, un giorno più
libero di altri un gruppo di donne e di bambini si recavano sulla “striscia
seminata a lino” per sradicare, senza disturbare le radici della carissima
pianta, tutte le “erbacce”. Non era così facile poiché le “erbacce”
erano molto simili al lino stesso ed occorreva esperienza… Un altro nemico del
lino erano le afidi o pulci (bloha) che appena comparivano occorreva
immediatamente distruggere. Come? Con la cenere della pec’ka! Verso la fine
della crescita, quando s’avvicinava l’estate, le donne tremavano se durante
la notte sentivano tuonare: La pioggia poteva far imputridire il lino! Al
contrario quando il sole era troppo intenso, il lino poteva diventare troppo
secco! Finalmente il lino
era pronto per essere estirpato e messo in mazzi! Si preparava una treggia
tirata da un cavallino dove i mazzi molto alti e pesanti erano adagiati con cura
e trasportati fino all’izbà fredda. Dopo qualche giorno gli steli
seccati erano battuti e lasciavano cadere così i loro semi. Questi erano
importanti perché si dovevano scegliere i migliori per la prossima semina. Gli
altri semi invece si usavano sia per ricavarne l’olio sia per farne tisane e
cataplasmi oppure, perché no?, da mettere sul pane per variarne il sapore. Gli steli immersi
nell’acqua restavano a macerare per isolare le fibre dal gambo legnoso.
Bisognava anche stare attenti che le fibre non marcissero e quindi tutto andava
fatto in acqua corrente, possibilmente in un angolo del fiume o del canale
vicino. Quando le fibre erano ormai visibilmente separate dal gambo interno, si
tiravano fuori dall’acqua e gli steli erano battuti con energia ancora una
volta uno per uno su assi di legno. Si scelgono le
fibre migliori e queste, dopo averle filate con fuso e conocchia, si tessono sul
telaio di casa. Da questi panni si confezioneranno le varie camicione e gonne
che poi la giovane donna metterà da parte in una cassapanca apposita per
portarle via con sé quando si sposerà… La stessa cosa si
faceva con la canapa che aveva più o meno lo stesso ciclo annuale del lino. In
più le larghe foglie di questa pianta potevano esser mangiate in insalata o
nelle zuppe, con un leggerissimo effetto narcotico! Abbiamo detto che
i semi di lino servono ad insaporire il pane, ma anche quelli di canapa. E sì!
Il pane è il cibo vitale, l’abbiamo già accennato, e dunque anche impastare
e cuocere questo alimento era un lavoro esclusivo e importantissimo assegnato
alle donne! Addirittura era normale che alcune donne si mettevano insieme a fare
il pane per tutta la settimana per le izbe vicine in una sola pec’ka…
Per fare il pane
occorreva saper anche preparare la pasta acida per lievitare. Siccome questa
pasta serve anche per fare la braga (la birra slava) e l’idromele
(mjod), questa preparazione deve essere eseguita con attenzione. Si parte
meglio da farina o di segale o di frumento, si fa un impasto molto morbido che
poi, messo dentro una scodella, si ricopre con una retina in modo da impedire
che gli insetti vi penetrino. Ecco! Occorre ora lasciarlo al sole per qualche
giorno e quando lo si vedrà diventare più liquido e fare delle bolle in
superficie vorrà dire che la pasta acida è pronta. Non è però sempre così
poiché a volte la pasta diventa talmente amara che bisogna gettarla via. Come
mai? Evidentemente la donna deve aver commesso qualcosa di brutto e offensivo e
uno spirito maligno glie l’ha guastata. C’era anche un
metodo più antico molto più primitivo per fare la pasta acida: Ai vecchi e ai
ragazzi erano consegnati dei chicchi di orzo o di miglio e questi dovevano
masticarli e farne un bolo che poi sputavano in una scodella. Questo bolo veniva
poi messo al caldo dove fermentava e così era pronta… Questo è il metodo
originario che ancor oggi usano molti altri popoli, se non hanno il lievito di
birra da comperare al supermercato! La braga e
il mjod erano le bevande molto popolari dell’antica Rus’ ed erano
perciò preparate quasi con affetto affinché non venisse fuori una poltiglia
imbevibile per il proprio uomo e quindi da gettar via. Di solito sia nell’una
che nell’altra bevanda la fermentazione poteva essere o interrotta prima o
portata avanti ulteriormente per avere una gradazione alcolica maggiore. Nei
conventi del resto d’Europa dove pure si preparavano queste bevande prevaleva
la birra più alcolica e il mjod più forte, per cui non abbiamo
esitazione a pensare che anche qui nel nordest della Pianura Russa si preferì
questo tipo “più forte” delle due bevande fermentate…
Naturalmente bisognerà preparare il mjod per berlo fresco anche
d’estate! Si poteva far la
birra anche dal pane raffermo, invece che dall’orzo, e questa birra
particolare era la più amata da gustare mescolata con foglie di menta
quando si usciva dalla banja. Era chiamata kvas e il suo
etimo probabilmente risale al norreno (la lingua dei variaghi) hvas
ossia acido. La donna aveva a
disposizione tutta una serie di arnesi che si sono riprodotti fino a
qualche decina di anni fa senza significativi cambiamenti nella forma
e nell’uso, come abbiamo detto sopra. Per la tessitura, ad esempio,
usava un telaio, fusi e conocchie, arcolai. Per far farina i mulini
“da tavola” di pietra. Per lavare i vestiti poi usava matterelli
speciali per battere la stoffa sui sassi lisci del fiume. Tutti questi
arnesi rimanevano sempre a disposizione distribuiti nei vari angoli
dell’izbà. Quando era
possibile, lo spazio dell’izbà veniva diviso in modo che si
ricavasse persino un angolo dove trovasse posto il letto dei padroni
di casa, vicino alla pec’ka. Un ospite della
donna permanente e molto riverito, perché temuto, era lo spirito
della casa: il Domovòi! Questo essere poco benevolo e molto
permaloso, abitava (talvolta insieme alla sua donna) sotto il fondo
della pec’ka, dove, oltre ai ceppi di legno, era ricavato una
spazio per lui e la sera era costume lasciare qualcosa da mangiare per
questo nume tutelare davanti alla pec’ka. Guai a non
salutarlo quando si partiva per un lungo viaggio! Vi càpita di non
trovare più un oggetto che avevate messo in un certo posto, di
scivolare, o di inciampare su un asse sconnesso e altri piccoli guai
di casa? Ebbene ciò è dovuto al Domovòi che voi avete offeso
magari senza saperlo! Un altro commensale dell’izbà è il gatto. Senza di lui come
fare a liberarsi dai topi frugivori? Per questo motivo nelle saghe
russe quando s’inaugura la nuova izbà si lascia che sia il
gatto il primo essere vivente ad entrare. Il suo posto preferito,
quando non vaga nell’izbà fredda o nel giardino, è sul
cosiddetto tetto della pec’ka… A parte le occupazioni “domestiche” però la donna conservava gli
stessi diritti dell’uomo quanto alle decisioni politiche poiché
sappiamo che partecipava alla vece con pieno diritto di voto. Siccome
la donna giungeva più frequentemente dell’uomo ad età venerande,
ciò la portava a diventare non solo una persona di riferimento per la
comunità quanto a conoscenza e saggezza (la già nominata znaharka),
e non era neppure escluso che riuscisse a diventare una capo-clan come
un ciur! La donna troppo sapiente però faceva paura perché con le sue arti di
scacciare via gli spiriti maligni per mezzo di formule scaramantiche e
pozioni poteva talvolta dare il sospetto che riuscisse ad avvelenare
le persone a lei invise e identificarsi così con una strega (ved’ma)
vera e propria o nel caso più deteriore persino con la strega cattiva
della foresta (babà jagà) capace di trasformarsi in esseri
diversi e demoniaci. Un triste obbligo della donna, specialmente per quelle dell’élite al
potere, rimase invece per molto tempo quello di morire ed essere
bruciata accanto a suo marito, poiché non aveva il diritto di
sopravvivergli! La prima di cui abbiamo notizia che interruppe questo
macabro rito, fu proprio Olga di Kiev che avendo un bimbo piccolino
ancora da accudire, riuscì a farsene dispensare, ma dovette prendere
su di sé il compito di vendicare la morte del marito Igor ucciso dai
Drevljani… Un’abitudine abbastanza razionale, sebbene crudele in un certo senso,
che coinvolgeva però entrambi i sessi, era quella del ritiro nella
foresta delle vedove sconsolate o degli anziani ormai economicamente
inutili alla comunità. Costoro sceglievano spontaneamente, ancor
prima di morire, di ritirarsi nella foresta “al di là del fiume”
e di loro non si sapeva più nulla. Si pensava che in quell’ambiente
magico essi non morissero, ma si trasformassero in animali o in alberi
e perciò una riverenza particolare era sempre dovuta agli esseri
silvicoli perché alla fine… erano dei parenti!
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Estratto ed adattato dal libro:
RASDRABLIENIE, STORIA DELLA RUS’ A PEZZI, di Aldo C. Marturano, 2005.
©2006 Aldo C. Marturano.