ANNALISA
ROSSI |
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Abati
e cavalieri a Santo Stefano
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L'abbazia
monopolitana in un libro
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di
Antonio d'Itollo
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Storie di abati e cavalieri di Antonio d'Itollo (Palomar ed.) è una discesa nel cosmo della microstoria di un «piccolo lembo dell'Italia meridionale», l'abbazia di Santo Stefano protomartire, presso Monopoli, nota ai più come località balneare e non in quanto misterioso ricettacolo delle storie che vi si sono avvicendate per quasi mille anni. Santo Stefano esce da questa ricostruzione fortemente contrassegnata dalla luce, che le viene dalla consapevolezza metodologica e critica con cui sono stati compiuti il censimento, prima, la ricognizione, lo studio e l'esegesi delle fonti dopo.
A quando risalgono le storie narrate? Il riferimento, nel titolo, agli «abati» e ai «cavalieri» rimanda immediatamente al Medioevo, età di mezzo alla quale molti si avvicinano svogliatamente, perdendo spesso di vista che «nel Medioevo è apparsa per la prima volta l'Europa come realtà», come afferma Le Goff. Ecco le coordinate temporali di
Storie di abati e cavalieri: un Medioevo meridionale apparentemente tagliato fuori dalla storia dei grandi nomi e dei grandi eventi, al più destinato a divenire oggetto di storia locale; ma anche il Medioevo dei conquistatori (Roberto il Guiscardo, Boemondo di Taranto); dei sovrani (Normanni, Svevi, Angioini), dei papi (Giovanni XXII) e degli imperatori (Enrico VI e Federico II); della cintura di quelle fondazioni monastiche che sono state roccheforti del
cristianesimo e, nel contempo, della difesa dei contenuti «gentili e pagani» che solo pochi dovevano conoscere ma il cui valore intrinseco era tale da renderli degni di essere conservati.
Ancora, il Medioevo dei monaci «a tre voti» (gli Ospedalieri di San Giovanni, anche detti Giovanniti) che, sotto l'egida della croce, arrivavano dalle lande della Francia, della Spagna e della Mitteleuropa per combattere contro gli infedeli in Terrasanta, fondatori, prima, esponenti e gelosi custodi, in seguito, di poteri, privilegi e ricchezze degli ordini monastico-cavallereschi che tanta parte ebbero nella costruzione di quella
koinè ideale e culturale che, caratterizzata dal
cristianesimo «e progressivamente laicizzatasi, è venuta a costituire il substrato comune della coscienza europea di oggi» (ancora Le Goff).
Nel libro di d'Itollo i grandi nomi non sono soltanto sullo sfondo, opportunamente richiamato col tratto sapiente di chi sa leggere il generale nel particolare e utilizzare il particolare per definire meglio il generale, ma sono protagonisti attivi delle vicende narrate. Vi si trova pertanto la storia di Goffredo d'Altavilla, nipote del Guiscardo e primo Conte di Conversano, che fonda l'abbazia di Santo Stefano Protomartire intorno al 1083, nel contesto di una vera e propria serie di atti di fondazione di cenobi benedettini-riformati (vale a dire cluniacensi) in Italia meridionale. Nei pochi anni a cavallo tra il settimo e l'ottavo decennio del secolo undecimo, il Guiscardo procede infatti a fondare, costruire o ricostruire una vera e propria cintura di abbazie lungo l'itinerario delle sue conquiste territoriali (ad esempio la Santissima Trinità di Venosa o Sant'Eufemia di Lamezia), giungendo persino, in Calabria, a rifondare nel segno latino monasteri greci preesistenti.
L'abbazia di Santo Stefano viene a costituire, così, uno dei
signa coi quali i normanni, consapevoli di essere un esiguo manipolo di guerrieri nordici in un territorio ostile, intesero marcare tangibilmente la propria presenza in Italia meridionale. Vi si trovano Boemondo I d'Altavilla, principe di Antiochia e di Taranto, che dota il monastero di dipendenze e privilegi; Roberto II di Basunville, conte di Loretello, che, nel 1169, dota il monastero di nuove dipendenze, rafforzandone la consistenza territoriale e, quindi, il potere economico-produttivo; Enrico VI di Svevia (che proclama nel 1195 la sua protezione su Santo Stefano, sottraendola all'egemonia della vicina, e rivale, Conversano) e Costanza d'Altavilla; papa Giovanni XXII che, nel 1317, dal soglio avignonese sancisce la devoluzione dell'abbazia all'ordine di S. Giovanni di Gerusalemme, determinandone di fatto la trasformazione in una grangia.
Vi si trova, inoltre, una fitta messe di gerarchi dell'ordine gerosolimitano, quasi tutti francesi, e finanche un usurpatore, Gualtieri VI di Brienne, che occupa Putignano con un manipolo di uomini e vi fa costruire una torre (quella che ancora oggi porta il nome di «Torre maggiore»).
Storie di poteri legittimi e illegittimi, dunque, di ambizioni soddisfatte o frustrate, di grandezze e miserie, nei secoli (XI-XIV) che vedono compiersi la gestazione di quella che sarà, sul piano prima di tutto «umano», poi ideale e culturale, l'Europa moderna.
A connettere le maglie larghe del potere costituito e delle istituzioni organizzate accorrono tutti gli altri personaggi, talora senza nome, talaltra identificati in quanto sottoscrittori di testimonianze documentarie o protagonisti di transazioni di portata tale da essere ritenute degne di una registrazione scritta. Si legge il racconto dei negozi giuridici e dei personaggi, anche femminili, in essi coinvolti, in un affresco che dipinge a pennellate rapide quanto precise, piccoli quadri di vita quotidiana, pur sempre relazionati con la cornice della grande storia politica e religiosa.
Storie di abati e cavalieri è questo: un insieme di quadri di dimensioni diverse, già densi di significato se considerati nella loro individualità, tanto più se connessi in una rete. Veicolo di detti significati sono le fonti (di cui il volume è corredato in appendice), materiali, iconografiche, e, soprattutto, scritte, che l'autore, egregio diplomatista, ha utilizzato, riuscendo a dare voce anche a quelle, tra esse, che meno sembravano poter dire.
Annalisa
Rossi
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