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TUTTE LE FORTIFICAZIONI DELLA PROVINCIA DI TORINO
in sintesi, pagina 2
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«Citato per la prima volta nel 1152, in un diploma di Federico Barbarossa che ne concedeva l’investitura, assieme alla contea di Porcile, a Guidone di Biandrate, potente feudatario che a quel tempo dominava su queste terre. Fu poi per alcuni secoli di proprietà dei Malabaila di Asti, nobile famiglia arricchitasi con le casane, banchi di prestito su pegno operanti dalla Savoia alle Fiandre. Nel Settecento il castello apparteneva ai Canera di Salasco. Venne in seguito acquistato dai Falletti di Barolo, la cui ultima erede, la celebre e munifica marchesa Giulia, fondatrice dell’Opera Pia Barolo, lo alienò nel 1839 ai marchesi Ferrero d’Ormea, che ne mantennero il possesso fino ad oltre la metà del Novecento. Già definito veter, vecchio, in un documento del 1429, risale presumibilmente al secolo XII. Era circondato da un fossato e munito di una torre sulla quale, in caso di pericolo, vigilava una sentinella. La posizione del ponte di accesso lascia intendere la presenza, in passato, di un fabbricato sul lato di ponente, di cui si notano ancora i segni impressi sui muri del corpo di mezzanotte, cioè sull’unica ala ancora in piedi, anche se in avanzato stato di decadenza. L’austera architettura medioevale dovrebbe essere conservata come una reliquia: il castello di Palazzo Valgorrera è il più antico edificio esistente sul territorio poirinese».
http://poirinonews.blogspot.it/p/castelli-e-monumenti.html
«La versione più popolare narra
che i conti San Martino di Parella discendano da Arduino, primo re d’Italia.
Infatti dopo Arduino comparvero sulla scena i conti del Canavese, titolo che
deriva probabilmente da una “curtis Canava” di origine romana
esistente nel territorio che oggi comprende Valperga, Salassa e Cuorgnè;
questo titolo poi sparì dinnanzi alle denominazioni più specifiche di conti
di Castellamonte, di Masino, di San Martino e di Valperga. Esistono diversi
alberi genealogici dei conti San Martino, e tutti passano per Dadone (per
alcuni conte di Pombia e per altri conte di Torino), che ebbe due figli:
Arduino e Guiberto, per cui qualche storico considera Guiberto capostipite
dei conti del Canavese anziché il più famoso Arduino. Quasi tutte le
genealogie partono, velleitariamente, da Carlo Magno; ma esiste anche una
versione, minoritaria, che pone come capostipite dei San Martino Desiderio,
ultimo re dei Longobardi, sconfitto e detronizzato proprio da Carlo Magno.
Il capostipite dei San Martino o dei conti del Canavese, diede origine al
motto comune "Sans Despartir" accompagnato da un fascio di cinque frecce,
forse rappresentanti le cinque famiglie originarie: tra questi i San Martino
di Parella e di Loranzè. I San Martino di Parella, a seguito della
distruzione del castello vecchio sul finire del 1300, si stabilirono
nell’attuale castello, allora molto diverso da quello che possiamo ammirare
oggi. Molti elementi infatti fanno pensare che inizialmente si trattasse
solo di una casa-forte di sbarramento ai piedi della ripida salita dove la
strada, l’unica che collegava direttamente Ivrea con Castellamonte e l’Alto
Canavese, si impenna bruscamente per superare la ripida fiancata morenica.
Probabilmente era solo la casa di una piccola scorta armata e del
pedagerius incaricato di riscuotere il pedaggio che dovevano sborsare le
merci e le persone in transito; attorno a questa casa vi erano gli stallaggi
che fornivano i buoi e i cavalli da attaccare di punta ai carri onde
aiutarli a superare la salita.
I San Martino di Parella originari si estinsero nella prima metà del 1500 e
il castello divenne proprietà di Alessio I San Martino, marchese di Loranzè.
Da documenti recentemente rinvenuti da Gino Vernetto risulta che nel 1545
Alessio chiese al duca Carlo II di Savoia il permesso di ricostruire il
ponte levatoio così com’era in tempi passati, in modo da poter vivere sicuro
in questo “fortalizio”, ora in stato di abbandono e di decadimento. Dunque
nel 1545 Alessio si installò nella casa forte di Parella e, a cominciare dal
ponte levatoio che per lui era forse più un simbolo di prestigio che una
vera necessità di difesa, compì un’ampia opera di ricostruzione e di
ampliamento. Nel 1626 il castello venne seriamente danneggiato da un
incendio che distrusse quasi completamente l’archivio e causò il crollo di
alcune mura (Venesia). Il Castello, così come lo si può ammirare oggi, è
un’ampia costruzione a quattro ali, disposte attorno a tre cortili: corte
d’onore, cortile delle carrozze, cortile rustico ed è dotato di un ampio
parco all’italiana. Il castello, concepito in pieno clima rinascimentale,
perde le sue funzioni belliche per impreziosirsi ed abbellirsi. Uscendo
dalla sala attraverso l’androne si accede alla Corte d’onore dalla quale si
può apprezzare l’imponenza dei quattro corpi di fabbrica: l’ala nord è
alleggerita da tre ordini di loggiati di altezza decrescente, con loggette
gemine nell’ultimo piano; le facciate delle altre tre ali erano affrescate a
motivi geometrici e floreali, inframmezzati da colonne corinzie e false
finestre, di cui sono rimaste evidenti tracce: nell’angolo è raffigurata una
fanciulla che si affaccia da una porta. Tra il XVII e il XVIII secolo
vennero realizzati gli affreschi delle varie sale. Con la morte di Alessio
III, nel 1801, il castello passò in usufrutto agli eredi e via via in
seguito, a numerosi proprietari, nobili e borghesi, alle suore francesi di
clausura "della Visitazione", ai Padri Bianchi Missionari d’Africa, che vi
stabilirono il loro seminario. Nel 1962 la proprietà passò a Gian Luigi
Dotto e negli anni a cavallo del 2000 il castello fu venduto ad una società
che a seguito del suo fallimento lo ha lasciato in stato di totale abbandono
fino ad oggi».
http://www.castellodiparella.it/#storia
a c. di Glenda Bollone e Federica Sesia
PEROSA CANAVESE (torre ricetto)
«Il Comune di Perosa Canavese nasce come piccolo centro attiguo al borgo di Moyrano in seguito andato perduto a causa delle pestilenze e delle scorrerie degli eserciti in transito. La storia di Perosa è strettamente collegata, dal XI al XVI secolo, alle vicende dei conti di San Martino e del loro castello e centro fortificato. Per comprendere meglio le vicende del nostro Centro e la sua importanza strategica ed economica è importante sottolineare che, fin da epoca romana, transitava da Perosa (via petrosa) un'importante via di comunicazione tra Eporedia ed Augusta Taurinorum; tale strada passava dagli odierni Comuni di San Martino e Vialfrè. Nel secolo XII Perosa è feudo dei Conti di San Martino. Nel 1263 ben 54 Uomini di Perosa e Moyrano prestano giuramento alla convenzione per la lotta dei Berrovieri; un numero tale di partecipanti lascia supporre che questi due insediamenti fossero abbastanza popolati. Tra il 1200 e il 1700 alcuni uomini di Perosa e Moyrano ricevono, per investitura, numerosi beni dalla Chiesa d'Ivrea. Nel secolo XVI, durante la guerra tra Francesi e Spagnoli, Perosa subisce notevoli danneggiamenti, soprattutto in occasione dei numerosi assedi al castello del borgo di San Martino. ... Non potendo contare sulla presenza difensiva di un castello, anticamente Perosa era protetta dall'imponente Torre che, ancora oggi, sovrasta le mura dell'Ajrale (un tempo deposito di animali, cereali e paglia) e dell'antica chiesa, situata a cavallo della vecchia Via del Castello. Il portale all'ingresso della torre è largo 2.75 metri e alto 2.90 metri dalla chiave. La torre, che si sviluppa su due piani ed ha pianta quadrilatera, era munita, un tempo, di ponte levatoio; il secondo piano è coronato di merli (tre per ciascun lato). Successivamente la torre è stata sopraelevata e trasformata in torre campanaria».
http://www.comune.perosa-canavese.to.it/index.php/cenni-storici.html - ...la-torre-porta.html
PIANEZZA (borgo, torre del ricetto)
«Accanto al Castello, su un rialzo di 8 metri, in epoca medioevale gli uomini di Pianezza costruirono un luogo fortificato circondato da un muro, ove rifugiarsi in caso di pericolo proveniente da briganti, da predatori, da soldati sbandati. Intorno alla metà del '200 gli abitanti dei piccoli insediamenti attorno a Pianezza avevano già abbandonato le loro case per riunirsi tutti nel paese, per potersi meglio difendere. La difesa collettiva, secondo i modelli dell'epoca, richiese la costruzione di un nucleo difensivo più ristretto e meglio fortificato. Nacque così il Borgo, chiamato altrove Ricetto, ove ogni famiglia possedeva una piccolissima unità abitativa che permetteva di mettere al sicuro la vita, le cose più preziose e le provviste. Nei due secoli successivi si perfezionarono le difese, si fecero prescrizioni per la manutenzione del muro, e nelle occasioni di maggior rischio si assoldarono guardie professionali. Delle torri, che ad intervalli rinforzavano il muro, ne rimane una sola. Quando i pericoli cessarono e la difesa passiva divenne inutile, il Borgo diventò luogo di abitazione stabile, si costruì la seconda Parrocchia di San Paolo e la torre diventò campanile, ospitando la campana del Comune e quella della vicina chiesa. Delle mura oggi non rimane che qualche piccola traccia. Il disegno delle unità abitative è a tratti ancora visibile; l'evoluzione dell'edilizia ha cancellato le altre memorie del Ricetto ma non la forma di un'importante opera collettiva. L'attuale via Al Borgo è quanto rimane dell'antico luogo fortificato, ed ancora oggi come un tempo è sovrastata dalla Torre Civica, di probabile origine medievale e sorta a difesa dell'antico ricetto. La torre era merlata con merli guelfi, senza la copertura del tetto e completamente aperta sul lato verso l'interno del Borgo per facilitare, mediante carrucola, l'accumulo di proiettili alla sommità. La sporgenza a poligono, con lati brevi verso l'esterno, ne denuncia chiaramente la funzione difensiva necessaria per la sicurezza contro il continuo passaggio di militari sbandati e di compagnie di ventura che si spostavano da un territorio all'altro, foraggiandosi con le rapine. Col passare degli anni e l'introduzione delle armi da fuoco, la funzione difensiva del Borgo venne a mancare, e da luogo di rifugio nei momenti di pericolo il Borgo divenne zona di residenza abituale per un numero consistente di pianezzesi».
http://www.comune.pianezza.to.it/ComSchedaTem.asp?Id=4917
PIANEZZA (resti del castello, villa Lascaris)
«Il Castello di Pianezza sorgeva a sud dell’odierno Parco di Villa Lascaris, quasi a picco sull’incrocio tra Via Maria Bricca e la Discesa al Filatoio. Costruito attorno all’anno 1000 dai Vescovi di Torino, servì, con quello di Rivoli, a controllare la strada proveniente dalla Francia e a regolare le attività del vasto territorio a lui soggetto. Nel 1159, l’imperatore Federico I Barbarossa, che svernava in Piemonte ad Occimiano, confermò al vescovo Guido di Torino tutti i diritti pubblici imperiali che già esercitava su una cerchia di 10 miglia attorno a Torino; in particolare per Pianezza cita la concessione della corte, del castello, della giurisdizione militare e giudiziaria e della Pieve. Sul castello di Pianezza vantarono diritti i Savoia, che nel 1228 lo assegnarono in dote a Margherita, sposa di Bonifacio di Monferrato. Nel 1290 i Savoia lo tolsero con la forza al Monferrato, infeudandolo poi ai Provana nel 1360. Quando, nel 1365, i Provana si ribellarono agli Acaja, il Castello fu assediato ed espugnato dopo tre giorni di combattimento. Ebbe il suo massimo splendore quando Emanuele Filiberto lo comperò per donarlo a Beatrice Langosco, sua favorita, erigendo per lei il Marchesato di Pianezza. Il sistema difensivo del Castello contava sul dislivello naturale verso la Dora e su bastioni fortificati verso Lusinera e il paese; l’ingresso al Castello doveva trovarsi probabilmente a Lusinera dove, fino a pochi decenni fa, esisteva “l’arco del Castello”, cioè la porta ove era sistemato il pesante portone. Non si è sicuri se il ponte levatoio, di cui si hanno testimonianze certe, fosse davanti a questo portone oppure appartenesse ad una difesa più interna del castello. La difesa esterna era completata dal “fossato” che correva nell’attuale Via Pellegrino e terminava nella “Crosa”, un ampio stagno che occupava la parte centrale di Piazza Cavour. Nel corso del 1600 e del 1700 i discendenti di Beatrice lo trasformarono da opera militare in residenza nobiliare: si ricordano le cento camere del Castello, l’immenso salone centrale retto da dodici colonne e gli splendidi giardini. Nel 1706 i Francesi che assediavano Torino lo occuparono: servì da ospedale e da cantiere per la preparazione di graticci da usare nelle trincee. Nella notte del 5 settembre 1706 gli uomini di Vittorio Amedeo II e di Eugenio di Savoia lo presero d’assalto, con l’aiuto dell’eroina di Pianezza, Maria Bricca, che fece entrare nel castello, attraverso una galleria, i granatieri del reggimento Brandeburghese del principe d’Anhalt. Nel 1808 il governo francese che occupava il Piemonte lo dichiarò “bene nazionale” e lo vendette ad una società di demolizione che ne recuperò i materiali. Il conte Agostino Lascaris in seguito acquistò il sito e vi costruì l’edificio oggi detto villa Lascaris, che donò poi all’arcivescovo di Torino. ...Dell’antico castello non è rimasto nulla».
http://archeocarta.org/pianezza-to-ricetto-torre/
PINEROLO (palazzo dei principi d'Acaja o Castel Nuovo)
«L'edificio potrebbe risalire al Trecento - l'ipotesi si ricava dall'esame degli elementi architettonici - ma non si conoscono documenti appartenenti a quell'epoca, o eventualmente precedente, che ne attestino la nascita o l'esistenza. Le prime informazioni certe circa la sua presenza si evincono dal liber consignamentorum (catasto) di Pinerolo del 1428. Il cosiddetto "palazzo dei Principi d'Acaia" è il più grande e articolato edificio civile d'epoca medievale della città sopravvissuto alle dominazioni francesi; da anni versa in pessime condizioni per incuria e abbandono. La pianta del palazzo ha la forma di una tozza "U" aperta verso sud-ovest la cui superficie interna è un cortile dal quale si accede al palazzo. L'edificio si sviluppa su cinque livelli che, a causa della pendenza del terreno su cui è costruito, si traducono in cinque piani effettivamente sovrapposti soltanto in una parte della sezione posteriore del palazzo, quella rivolta a nord-est. ... Non si esclude che in origine il palazzo potesse appartenere a una sola famiglia, ma nel catasto del 1428 appare frazionato in appartamenti di proprietà di alcune famiglie abbienti. Una di queste possedeva il forno e i locali sopra di esso, per intenderci, l'appartamento che ha le finestre ad ogiva che si aprono su via al Castello e il locale sottostante. Non conosciamo documenti cinquecenteschi che ci permettano di risalire ai proprietari o all'uso del palazzo in quel secolo, ma una fonte del 1664 ci fa sapere che l'edificio, di cui era stato proprietario il conte Mede di Campiglione (quando?), apparteneva all'Ospedale grande di Pinerolo (da quanto tempo?), che lo affittava a un certo Ludovico Solaro. Sempre nel XVII secolo, e precisamente nel settembre del 1693, il palazzo subì danni a causa del bombardamento della città da parte dell'esercito piemontese. ... Da molti anni il palazzo è disabitato e ciò rappresenta al contempo la sua fortuna e la sua sfortuna. La fortuna è che, se rimane vuoto, si evitano ulteriori danni ai muri o ai pavimenti con interventi non adeguati alla dignità storica dell'edificio; d'altra parte, e questa è la sfortuna, non viene effettuata neppure la manutenzione ordinaria e già l'umidità, le infiltrazioni d'acqua e il naturale invecchiamento dei materiali da costruzione hanno cominciato la loro personale opera di restauro, che non è certamente quella auspicabile. ...».
http://www.cielinespansione.it/206020402020.shtml
PINEROLO (palazzo del Senato, casa del Vicario)
«Il Palazzo del Senato, risalente alla metà del XV secolo, domina il primo tratto di Via Principi d’Acaja. Le due facciate meglio conservate (rivolte verso la via e verso la sovrastante piazzetta), presentano diversi ordini di finestre (bifore a sesto acuto e rettangolari) ornate di cotti originali dell’epoca. Venne edificato su volere di Ludovico Duca di Savoia come sede della Congregazione degli Stati sottoposti al dominio sabaudo nel Piemonte, divenne con Vittorio Amedeo II, nel 1713, la sede del Senato del Pinerolese, con giurisdizione su tutto il Piemonte. ... La Casa del Vicario fu l’antica residenza del Vicario Abbaziale di Santa Maria. Questa costruzione esternamente mostra notevoli fregi in cotto sulle facciate. Alla base dell'edificio troviamo l’angolo smussato che reca "la pietra della berlina" (pejra dla rajson) alla quale si narra venissero incatenati i debitori per "farli rinsavire". Questa è quasi una leggenda, che peraltro non trova conferma in documentazioni dell'epoca che ne confermino l'utilizzo. Costruito sull'incrocio delle vie che costituivano l'asse stradale principale della Pinerolo medievale, l'edificio è stato oggetto di recenti restauri che l'hanno riporatato all'antico splendore. Nel corso dei restauri, è tornato alla luce anche un affresco posto sulla facciate esterna all'altezza del secondo piano».
http://www.scopripinerolo.it/cultura-tradizioni/centro-storico
PINO TORINESE (castello di Montosolo, Castelvecchio)
«Il capoluogo sorge tra il colle detto “della torre rotonda” sede dell’Osservatorio Astronomico di Pino Torinese, e il colle di Montosolo, su cui si ergeva un castello medievale, del quale rimangono soltanto i resti di una torre. ... Verso la metà del XII secolo, fu eretta a Montosolo una casaforte e pochi anni dopo, il 24 agosto 1168, fu stipulata tra il vescovo di Torino e i chieresi (da poco costituiti in comunità indipendente) un accordo che stabiliva il dominio del vescovo sulla casaforte di Montosolo e sui beni a lei legati (Pinariano e Moncairasso) e fissava la possibilità per i chieresi di avere ivi un edificio a un piano, per uso dei propri consoli. L’accordo stabiliva inoltre che i territori non potevano essere alienati senza dare la prelazione nell’acquisto a Chieri. Tra il 1170 e il 1183 fu edificata un’altra struttura fortificata, la Torre Rotonda, le cui vestigia si trovano ancora oggi nei pressi dell’Osservatorio. Il 21 luglio 1139, il vescovo concesse ai torinesi il possesso del castello di Montosolo e questo episodio provocò uno scontro armato con i chieresi. La guerra durò fino al 10 febbraio 1200, quando la mediazione degli astigiani e dei vercellesi, venne firmato un trattato di pace con il quale il Castello ritornava nelle mani del vescovo, mentre i territori circostanti, andarono ai chieresi. Nel 1247, il Castello passò nelle mani di Tommaso II di Savoia, che, avendo colto l’importanza strategica del luogo, tra il 1249 e il 1250 fece ampliare la casaforte. Essa, due anni dopo, venne nuovamente ceduta al vescovo che, in accordo con i chieresi vi inviò come castellano Pietro Visconti, Signore di Baldissero. Da questo momento, l’importanza del castello di Montosolo diminuì notevolmente, ma attorno ad esso si ampliava il paese, denominato Pinariano prima, poi Pinallo. ... Sulla strada che scende dal centro del borgo e che, attraversando ricchi vigneti, va verso Cambiano si può scorgere un edificio risalente alla fine del XVII secolo, il Castelvecchio. è una costruzione quadrata e solida, la cui facciata, semplicemente decorata da un cornicione sostenuto da mensole, non presenta merlatura e gli angoli sono muniti di belfredi o guardiole, più per ornamento che per difesa. L’origine del nome è incerta: alcuni autori ritengono che l’edificio abbia avuto la denominazione di “vecchio” perché costruito sui ruderi di un castello più antico, alti sostengono che il nome derivi dalla famiglia chierese dei Veglio (in dialetto piemontese “Vej”). L’interno presenta al pianterreno una sala in stile neo-medioevale ideata attorno al 1885, dall’architetto Eugenio Olivero (probabilmente influenzato dalla cultura che aveva in quegli stessi anni dato vita al Borgo medioevale del Valentino a Torino)».
http://www.comune.pinotorinese.to.it/modules/wfsection/viewarticles.php?category=113
«Nella seconda metà del X secolo si costituisce la curtis altomedievale di Publice, che entra nell’area degli interessi patrimoniali della diocesi torinese. Il castello fu fondato dal vescovo Landolfo tra il 1010 e il 1037, e nel 1347 fu distrutto dall’esercito dei Visconti. Dell’antico castello si conserva una delle quattro torri (risalente però già al XIV secolo). Nell’Ottocento fu trasformato in abitazione civile e per alcuni anni fu residenza del conte Brassier di Saint-Simon, ambasciatore di Prussia presso il Regno di Sardegna. Nel 1863 vi soggiornò George Perkins Marsh primo ambasciatore USA presso la Corte Sabauda e la consorte Caroline Crane. Personaggi di grande cultura lasciarono tracce profonde ancora oggi evidenti. Il libro Man and Nature di G. P. Marsh la cui prima stesura fu completata proprio durante il soggiorno a Piobesi, si può considerare uno dei primi studi scientificamente organizzati sulle modificazioni dell'ambiente da parte dell'uomo. Questo testo è ancora oggi oggetto di considerazione da parte di studiosi ed esperti del settore. Della moglie è stato recentemente pubblicato il diario (editore Allemandi Torino), che costituisce un interessante e acuto affresco della società del tempo visto con gli occhi di una donna americana di profonda intelligenza e fortemente emancipata. Numerosi sono i passi che descrivono il soggiorno a Piobesi. Dal 1998 è di proprietà comunale. Se ne possono visitare la torre medievale, le sale al piano terreno, ex cappella (sede della biblioteca) e il giardino all’italiana».
http://www.comune.piobesi.to.it/index.php?option=com_content&view=article&id=17&Itemid=201
PIOSSASCO (Castellaccio o Gran Merlone)
«Imponenti resti del CastellaccioCuriose entrambe queste denominazioni popolari. La seconda riprende probabilmente l'appellativo "Merlo", frequente nella famiglia signorile dei Piossasco fin dalle origini. La prima è forse dovuta ad antico disprezzo verso il simbolo del potere dei signori, oppure attribuita al castello per sottolinearne lo stato rovinoso dopo la distruzione delle armate francesi. È il castello situato più in alto, quello più antico. Sulla forma e dimensioni dell'edificio, distrutto dalle armate del Catinat nel 1693, ci rimangono solo rilevamenti catastali, annotazioni e uno schizzo del secolo scorso frutto della ricognizione dell'architetto portoghese D'Andrade che ci permette di cogliere alcuni particolari ormai cancellati dal degrado che va accentuandosi con il passare del tempo. Pur usando un tono dubitativo, l'architetto rilevava in questi ruderi la presenza di costruzioni di almeno tre epoche distinte. Nella parte più elevata individuava i resti di una torre e di un fabbricato quadrangolare con in cima delle finestrelle a feritoia strettissime che indurrebbero a pensare proprio ad una costruzione longobarda. Rilevava inoltre la presenza di una porta alta, a cui in un secondo tempo era stata appoggiata una scala a due rampe. La porta sopraelevata, secondo l'architetto, doveva condurre all'interno del castello. La parte dell'edificio più vetusta, egli annotava ancora, si presentava cinta da mura giustapposte a modo di camicia, tutto attorno. All'interno, a sud-est, i resti di una torre-abitazione, mentre a nord, verso il colle della Croce, un campo quadrangolare recintato e poco più sotto in direzione di S. Vito, un accesso pedonale, la cui esatta individuazione era impossibile già lo scorso secolo, perché l'antico muro era stato sostituito in epoca più recente da uno a secco. All'interno dell'angusto spazio recintato viene ricordata la presenza di una cisterna per l'acqua di forma rettangolare con volta a sesto acuto di dimensioni non eccezionali. L'architetto la trova simile ad un'altra, presente nel castello di Avigliana, e osserva che, con una così piccola riserva d'acqua, i dimoranti non dovessero essere molti, oppure fossero talmente sicuri di poter far fronte ad ogni evenienza.
Se il castello fosse un tempo inespugnabile è oggi difficile dirlo: è certo che le caratteristiche della collina ci fanno pensare ad una reale difficoltà ad attaccarlo in forze. Il ripido degradare del lato ovest e sud-ovest, le fortificazioni sul versante opposto, l'aspetto impervio e selvatico con presenza di folta vegetazione, la mancanza di strade dalla parte di S. Vito erano una buona garanzia contro improvvise aggressioni. A questo aspetto severo era affidata la dissuasione e la difesa, mancando fossati e ponti levatoi impossibili da attivare per la scarsa presenza di corsi d'acqua nelle vicinanza. L'unico rivo che scorre dalla vicina Montagnassa prende, attraverso una stretta gola, la via della pianura molto più in basso, verso la frazione Cappella e con il suo letto profondo e incavato contribuiva a rendere difficoltosa la salita verso il castello. Appena fuori le mura, vicino al passaggio pedonale, c'era una fonte detta "della Brinda", da cui ancora in epoca recente, con un sistema di tubazioni, si faceva defluire l'acqua all'interno delle mura del ricetto. Più in basso sul versante sud ovest vi erano due pozzi, detti comunemente "della contessa". Anche il piccolo corso d'acqua ricordato che, a monte, passa in prossimità delle mura, nonostante il suo regime torrentizio poteva essere fonte di approvvigionamento idrico. La capacità abitativa, visto lo sviluppo della costruzione, sembra via via essersi adeguata alle mutate esigenze e condizioni storiche. La struttura più elevata, che ci fa pensare ad una torre-abitazione, non doveva essere molto capiente, mentre l'altra costruzione racchiusa nelle mura doveva avere una discreta ampiezza tale da ospitare, come risulta da documenti, alcuni dei signori di Piossasco con largo seguito di familiari e servi, fino al XVI secolo».
http://www.comune.piossasco.to.it/storia-arte/beni05.htm
PIOSSASCO (castello dei Nove Merli)
«Il castello risale probabilmente del XIV-XV secolo, e fu posseduto indiviso dal consortile dei Piossasco. Una quota consistente fu detenuta dai De Feys e una dai De Rossi; nel 1775 uno dei proprietari è il conte di Bardassano, mentre dal 1834 l'edificio è di proprietà del conte Luigi Piossasco-None, padre dell'ultima discendente della casata. è l'unico edificio superstite nella sua interezza, assieme alla chiesa di S. Pietro all'interno del ricetto. Evidenti sono i rimaneggiamenti, gli aggiustamenti tardivi, neomedievali, romantici come nel caso del camino interno e della torre merlata, sopraelevazione della seconda metà del XX secolo di un antico vano scala. La ristrutturazione in chiave moderna può esse fatta risalire verso il 1847 quando il proprietario il conte Luigi Piossasco-None attiva sostanziali lavori di rifacimento in quella che oggi è la facciata della galleria con i suoi archi a sesto acuto. L'edificio può in qualche modo presentare elementi tardomedievali riconducibili al periodo della costruzione, oggi difficilmente individuabili. Alcuni elementi rinascimentali sono evidenti negli aspetti decorativi e altri neogotici sono il frutto dei rifacimenti ottocenteschi. Anche nel nostro secolo dopo la morte dell'ultima discendente, il castello subisce delle trasformazioni: fu adibito a ristorante e successivamente a discoteca, piano bar e ancora ristorante. Nella struttura si individuano diversi piani: seminterrato, terra, primo, secondo e terzo. Il primo presenta il soffitto a botte, forse dell'originaria costruzione medievale, il piano terra 14 vani di diversa dimensione, il primo piano 9 vani tra cui il vestibolo ,il salone del camino e la galleria della vetrata, la sala dei cartigli, delle mensole, verde e azzurra. Sono su questo piano i decori di epoca rinascimentale. Al secondo piano troviamo la cosiddetta stanza dei frati, adibita all'accoglienza dei religiosi che venivano al castello. L'arredo è andato disperso nel tempo a causa dei saccheggi di guerra dell'età moderna ma anche gli oggetti ottocenteschi sono passati per via ereditaria di mano in mano e in parte vendute ad antiquari».
http://www.comune.piossasco.to.it/storia-arte/beni08.htm
PIOSSASCO (castello Piossasco-De Rossi)
«In posizione intermedia tra il castello dei Nove Merli e il Castellaccio, sull'antico camminamento che portava a quest'ultimo, sorge un edificio del XVII-XVIII secolo incompiuto e molto segnato dal tempo. Lo stile dell'edificio segna il passaggio dagli edifici militari e politico-patrimoniali al tentativo di costruire delle dimore di piacere nell'ambito del ricetto di Piossasco. Il committente di quest'opera è GianMichele Piossasco De Rossi (1654-1732) personaggio eminente del periodo di Vittorio Amedeo II di cui imita nel piccolo il fervore edificatorio. Pur essendo fondatore e comandante del reggimento Savoia, generale e cavaliere dell'Ordine SS. Annunziata non può permettersi questi lussi da mecenate anche perché la famiglia è numerosa. Tuttavia egli pose mano nei suoi feudi a varie opere come la ristrutturazione del castello di Virle e la costruzione di quello di None oltre a quello piossaschese. Il Manno dice che in questo modo rovinò il suo patrimonio per la smania e boria di fabbricare. L'edificio presenta a chi lo osserva dal basso sulla destra un corpo più elevato di forma quadrangolare dove oltre le aperture si notano i movimenti del cornicione mattonato con due finte finestre. Sulla parte sinistra la struttura presenta una porta arcata a pianterreno e due file di tre finestre corrispondenti ai due piani probabilmente con il tempo collassati. Internamente rimane la grande cappa fumaria sul muro perimetrale e i piedi di appoggio delle solette. L'asimmetria della struttura è dovuta all'incompiutezza dell'opera che quasi certamente prevedeva lo sviluppo di un'altra ala sulla destra in modo da rendere centrale la parte sopraelevata. Il progettista di tale opera è tutt'oggi ignoto ma da ricercarsi nella cerchia di architetti della prima metà del settecento come il Castellamonte, Juvarra o minori come Benedetto Alfieri e Ignazio Birago che lavorarono ad alcuni palazzi dei Piossasco».
http://www.comune.piossasco.to.it/storia-arte/beni09.htm
«Dal Castellaccio scendono fino al livello di via del Campetto i resti delle mura di fortificazione, ben conservati soprattutto lungo questa via. Partendo dal Castellaccio, le mura seguono sul versante sud-ovest il degradare della collina, poi volgono quasi ad angolo verso sud-est disegnando una sacca ovoidale. In passato avevano forse il loro punto di svolta a un livello molto superiore rispetto all'attuale, che invece costeggia la strada panoramica: probabilmente le mura piegavano a est tra l'attuale castello dei Nove Merli e il palazzo detto della contessa Palma, dove si apriva una porta. A rafforzare questa ipotesi, si segnalano le pretese dei rustici che rivendicavano come proprietà comune i terreni su questo pendio, nonché la presenza di nuove aperture, abbattimenti, ricostruzioni e ridotte a sud. Sembra dunque avvalorata l'ipotesi che l'angolo di sud-ovest della cinta muraria abbia subito nel tempo un graduale slittamento verso il basso, quando non era più prevalente l'interesse a consolidare le difese del castello, piuttosto quello di racchiudere e circoscrivere in un unico ambito le vecchie e nuove edificazioni signorili, sorte a scapito di terreni della comunità. Sul versante che guarda San Vito le mura risalivano verso il Castello dei Nove Merli, con un tracciato visibile solo in minima parte. Non è quindi agevole ricostruirne il tracciato, ma si può supporre che non abbiano mai inglobato il villaggio e che solo con alcune ridotte raggiungessero le case del borgo antico».
http://www.comune.piossasco.to.it/storia-arte/beni04.htm
«Porta Nuova o Porta d'Oriente. All'osservatore medievale la collina incastellata doveva apparire molto più impervia e inaccessibile rispetto ad oggi: bosco e foresta si incuneavano tra case e prati, dando alla collina un aspetto impervio e selvaggio. Ancor oggi comunque lo sperone su cui sorgono i castelli non ha perso del tutto la sua imponenza; verso est lo scosceso pendio boscoso domina e ripara la conca di San Vito mentre a sud ovest il dirupato versante difende naturalmente lo sperone dei castelli. Il castello che domina il luogo da questo rilievo sembra dunque volgersi più verso ovest e sud ovest piuttosto che verso San Vito. Questa considerazione è suggerita anche dal fatto che la più antica porta d'accesso attraverso il ricetto si apriva sul lato ovest: tale porta ora perduta, si chiamava di "Testafer". Invece la porta siutata ad est, attraverso la quale ancor oggi si passa provenendo da S. Vito è detta Porta Nuova o d'Oriente. D'Andrade, pur avendo intuito che da qualche parte ci dovesse essere un secondo ingresso più importante e antico, nei suoi appunti annotava di non essere stato in grado di individuare la porta ovest e rilevava solo la Porta d'Oriente e una piccola porta pedonale sul sentiero della fontana della Brinda.
Porta del Borgo Piazza. Dell'accesso all'abitato di S. Vito attraverso una grande porta antica abbiamo notizia per la prima volta in un documento del 1387, in una deposizione inquisitoriale raccolta da Antonio da Settimo. Dal testo di deduce che la porta era incorporata tra gli edifici e abitata anche sopra l'arco di volta com'è tutt'oggi. La porta identificabile nell'arco di via S. Domenico Savio, era uno dei tre accessi al borgo antico attraverso quella che era la via Tupinaria, oggi ridotta a viottolo dismesso detto "Strà dei Babi" (rospi). Lungo la via Tupinaria, che dal Marchile si inerpicava tra muri a secco costeggiando la peschiera fino ad incontrare il Borgo Piazza si trovavano stalle, un'osteria, botteghe di ciotole e vasellame (tupin), di conciatori di pelle e tessitori. Per chi nel Medio Evo arrivasse attraverso questa via alla porta, si trovava di fronte l'abside e il campanile dell'originaria chiesa romanica, a destra di questa il monastero, a sinistra un piccolo cimitero e una maggiore spazialità rispetto ad oggi. Non c'era il terrapieno che conduce alla piccola porta sul lato di levante. Della struttura originaria la porta conserva ancor oggi il mattonato a lisca di pesce della volta. Doveva probabilmente avere elementi di chiusura o difensivi di cui non ci rimane traccia documentabile. Con l'apertura e lo sviluppo del borgo di S.Vito verso sud-est e sud-ovest la sua importanza venne meno. Questo disuso si accentua con la costruzione del convento francescano di S. Antonio da Padova nei prati sotto il castello nel XVII secolo. Nella prima metà del XX secolo la porta rimane l'accesso rapido a S. Vito, fin quando la "Strà dei Babi" non diventa impraticabile. Oggi sotto il suo arco vi transitano solo i proprietari delle case che vi si addossano».
http://www.comune.piossasco.to.it/storia-arte/beni06.htm - ...beni14.htm
PIVERONE (torri, palazzo della Credenza)
«A seguito di un atto pubblico datato 12 marzo 1210, Pruino podestà di Vercelli "fece la donazione e l’investitura in feudo" di alcuni terreni, tra cui quelli ceduti da Jacopo de Alda e da sua moglie Otta e da Benedetto "tabernarius" oste di Piverone, ed è su questi terreni che sorgono 3 delle 4 torri d’angolo che erano parte integrante delle mura di difesa del Borgo e che ci danno l’esatta estensione dimensionale dell’antico abitato di Piverone, circa 22.000 mq. e sempre da questo atto sappiamo che all’epoca, erano consoli a Piverone, Brulino a Livione, Raimondo da Livione ad Anzasco, Giovanni de Platola ed a Palazzo, Albertino del Monte. Di queste tre torri quella adibita a campanile municipale è in buono stato di conservazione e contiene la porta di accesso al Borgo, un tempo difesa da ponte levatoio, ed è a sezione quadrangolare, mentre quella posta a Nord-Est ha pianta circolare ed abbisogna di un restauro conservativo, che il Comune di Piverone intende effettuare a partire dal 2003. La terza torre è quella meno conservata ed è situata allo spigolo Nord-Ovest e si trova su di un terreno privato ed anch’essa ha pianta circolare. ...
La torre d’angolo di nord ovest, detta di S. Giacomo, è ubicata in un giardino privato ed ha pianta circolare. Anche questa torre un tempo era aperta verso l’interno e non aveva copertura, presenta decorazioni ad “archetti pensili” e merlatura ghibellina a “coda di rondine”. Un muro merlato, fiancheggiato all’interno dalla “curseria”, collegava le due torri d’angolo e costituiva il lato longitudinale verso la Serra. I due lati minori del rettangolo irregolare era cinti da mura uguali, che passando attraverso le due porte congiungevano i due muri longitudinali difesi da altre due torri di cortina a base quadrata. La torre di cortina verso la Serra è ormai scomparsa, mentre l’altra è ancora oggi visibile e forma l’abside della cappella della confraternita. Per maggiore sicurezza, esisteva un ampio fossato, le cui sponde erano formate da una prima cerchia muraria, detta “bastioni”, esso si riempiva con acque derivanti dalle sorgenti della Serra. Le mura erano merlate, delle stesse, rimangono alcuni tratti visibili nei pressi della Cappella della Confraternita in via Flecchia, l’antica via Maestra. Nella medesima via si trova il palazzo della Credenza, antica sede comunale del XIII secolo. ...
Porta orientale è una massiccia porta turrita, che oggi ha la funzione di torre campanaria e orologio, un tempo era completamente aperta verso l’interno e priva di copertura con la tipica torretta di vedetta “la bertesca”, presenta un arco a tutto sesto, feritoie per azionare i tre “bolzoni” dei due antichi ponti levatoi (carraio e pedonale), decorazioni ad “archetti pensili” e merlature ghibelline “a coda di rondine”. Esisteva un’altra torre porta simile a quella esistente, fronteggiava Palazzo ed era chiamata il “Torrione”. L’attuale “via del Torrione” conserva il nome che aveva preso da quell’antica porta, abbattuta nel 1750. ... Torre d'angolo orientale. Si trova in piazza Lucca, a destra della porta turrita, un tempo utilizzata come carcere era stata poi inglobata, come vano scale, nell’antico palazzo sede delle scuole ed ora è isolata nei pressi dell’edificio scolastico».
http://www.comune.piverone.to.it/Testimonianze-Storiche.php - http://www.comune.piverone.to.it/Monumenti.php ss.
Poirino (centro storico, torre campanaria)
«Poirino si è sviluppata attorno ad un centro storico definitosi in epoca medioevale. La pianta presenta uno schema lineare; l’agglomerato urbano sorge intorno a una strada che l’attraversa nel senso della lunghezza. Questo sviluppo, non pianificato, è tipico di molte città medioevali, nate lungo le vie di comunicazione, spesso come punti di sosta per viaggiatori e pellegrini. La via che nel Medioevo attraversava Poirino era una importante arteria di comunicazione tra Torino ed Asti e si identifica oggi in Via Cesare Rossi. Osservando la piantina del concentrico di Poirino si riconosce il centro più antico del paese, cioè il centro storico. Questa zona, tanto tempo fa era circondata da alte mura e torri, interrotte da due porte da cui si poteva accedere al centro. C'era anche un castello, ma ormai ne rimane solo più il nome. Le mura e le torri furono poi abbattute: ora ne rimangono solo piccole tracce. Il centro storico ora è delimitato da Piazza Italia, da via Tavolazzo, da Piazza Morioni e da Passeggiata Marconi. Nel centro si trovano le vie più antiche, le piazze più grandi e molti degli edifici più importanti del paese (chiese, banca, municipio, biblioteca, salone Italia, campanile…) Il centro storico è attraversato da una delle strade più antiche, dedicata a Cesare Rossi di Montelera. Al fondo di questa via c'è la chiesetta del castello, costruita su una torre del castello. Sulla via Cesare Rossi si affacciano i palazzi più antichi e signorili di Poirino. Vi è anche un vecchio pozzo, da cui la gente attingeva l'acqua da bere. Sempre su questa via si affaccia l'ex Istituto Geriatrico, un tempo piccolo ospedale e poi casa di riposo per anziani, e il Palazzo del Comune (Municipio). Altra via importante e antica è via Tavolazzo, così chiamata perché in questa strada si giocava al Tavolazzo (tiro a segno). ... Percorrendo questa via si possono ancora vedere le fondamenta delle antiche mura».
«Torre Campanaria. Più importante monumento di Poirino in stile Barocco. Costruita nel 1777 su progetto dell’arch. Giovanni Battista Feroggio in sostituzione di una precedente torre medioevale. è alta circa 60 metri e si sviluppa su quattro ordini sovrapposti, più la cupola. Dotato di orologio sulle quattro facciate e campane a diverse dimensioni. Rappresenta il simbolo del paese ed è un raro esempio di campanile civico eretto per volontà della popolazione».
http://digilander.libero.it/scuolepoirino/alice/centrostorico.htm - http://www.comune.poirino.to.it...
«Nei primi secoli dopo il Mille le consorterie familiari più potenti economicamente e politicamente (astigiane, chieresi e carmagnolesi) collocarono parecchie aziende agricole in punti idonei o resi idonei con opere tecniche di bonifica (l’agro poirinese e villanovese era in parte coperto da acquitrini, le cosiddette “paludi astesi”). Si trattò di una disseminazione abbastanza regolare e continua di ricetti con aspetto esteriore di rocche o castelli, il volto militaresco non corrispondendo che raramente alla vera funzione: ché non si trattava d’appoggiarvi azioni guerresche, bensì di svolgervi una modesta vigilanza armata, semplice poliziesca funzione di difesa delle scorte alimentari che vi si producevano localmente per consumarle poi in città. Dati i tempi e i modi di vita, e soprattutto data la frequenza delle scorrerie e ruberie, non si intendeva correre rischi al di sotto di uno stabilito margine di sicurezza ai colpi di mano armata. Le esili torrette che ancora si ergono su alcuni castelli non avevano certo l’aspetto da intimidire un esercito organizzato; servivano tuttavia da posto di vedetta per chiamare al sicuro i contadini e difendere alla meno peggio i sudati prodotti della terra. Dei più antichi manieri esistenti un tempo nel nostro contado, e cioè Stuerda, Tegerone, Castiglione, Porcile e Masio, non è rimasta alcuna traccia; la loro distruzione, opera delle milizie astigiane attorno al 1250, spinse gli abitanti di quelle terre devastate a riunirsi e a fondare il primo nucleo di Poirino. Altri fortilizi sono invece giunti sino ai giorni nostri, alcuni in pregevole stato di conservazione e tuttora abitati, altri abbandonati e destinati ad un degrado inesorabile, se non saranno tempestivamente sottoposti ad interventi di consolidamento e restauro. Tutti in ogni caso meritevoli di maggiore attenzione anche al di fuori dei confini comunali, per l’importanza storica ed architettonica e per l’appartenenza nei secoli a famiglie nobili che tanta parte hanno avuto nelle vicende del Piemonte e dell’Italia. E, se non assursero mai ai fasti dei più grandi e famosi castelli piemontesi, restano comunque le più antiche testimonianze visibili che l'opera dell’uomo ha lasciato sul territorio.
Il “castello” esiste solo più nella parlata dei poirinesi, che con questo termine indicano la zona in cui sorgeva anticamente. Proprio perché per loro è il “Castello” per antonomasia, è forse utile spendere qualche parola su quello realmente esistito, che dalla rocca sovrastante la piazza dei Morioni qualche secolo fa dominava un vasto territorio di pianura. Nel 1372 il nobile astigiano Aimonetto Roero, acquistato il feudo di Poirino dai Savoia per 19.000 fiorini d’oro, diede inizio ai lavori di fortificazione del paese. Vi scavò un largo fossato, vi elevò un castello con quattro torri e recinse il tutto con formidabili mura. La guerra tra Francia e Spagna, che si contendevano l’egemonia in Europa, portò il duca di Savoia, alleato degli spagnoli, ad ordinare nel 1543 la distruzione di quelle fortificazioni che non si sarebbero potute difendere, onde evitare che cadessero intatte nelle mani del nemico. Il castello di Poirino non fu più ricostruito. Si salvò soltanto una torre, ancor oggi visibile all’imbocco della via Tavolazzo, poiché contro di essa esisteva un antichissimo tabernacolo, trasformato nel 1697 nell’attuale chiesetta del Castello, portata all’aspetto odierno da un restauro del 1893. Altri resti dei baluardi difensivi si osservano (e più evidenti risultano in alcune fotografie di fine Ottocento) dalla sottostante piazza dei Morioni, che deve il suo nome proprio alla presenza dei muraglioni, in dialetto “muriùn”».
http://poirinonews.blogspot.it/p/castelli-e-monumenti.html
PONT CANAVESE (torre Ferranda)
«Torre Ferranda (sec. X-XI), sede del Museo del Territorio. La torre Ferranda poggia su un affioramento roccioso ed ha un'altezza propria di 32 metri. La porta d'ingresso è posta a 8 metri di altezza e le finestre si aprono sul fronte principale verso la pianura. Al piano terra, a diretto contatto con la roccia, si trova una cisterna intonacata per contenere l'acqua piovana, che veniva incanalata dalla sommità. La struttura interna di accesso ai piani superiori era realizzata in legno secondo una sequenza di scale e soppalchi, delle cui travi rimangono le sedi nelle pareti. Alla camera sommitale, voltata a botte, e all'ultimo livello esterno si arriva tramite scale ricavate entro la muratura. Gli originari merli di coronamento sono stati successivamente collegati da una serie di voltini ad arco per consentire l'appoggio di una copertura non più esistente. A fianco della torre stanno i resti di un edificio fortificato, ricostruito in più riprese, la cui tessitura muraria reca tracce di una merlatura. Il bastione che circonda il complesso è costituito da mura anch'esse rimaneggiate nel tempo. L'ingresso era situato ad est, collegato al ricetto dei Valperga posto ai piedi del rilievo verso la pianura; l'accesso attuale, sul fianco opposto, è contestuale alla realizzazione, a fine Ottocento, della chiesa di San Costanzo e della canonica.
A Pont ci sarebbero stati tre castelli: uno dei Valperga, due dei San Martino. Il terzo castello sarebbe identificabile con Io stesso borgo fortificato, costituendo in tal caso un ricetto: i San Martino avrebbero posseduto i Castra Pontis e Tellarium, i Valperga il Ferrandae. Il Pontis, di cui resta soltanto un angolo di torre, sarebbe stato invece situato sopra la chiesa di San Costanzo ad un tiro di pietra dal Ferrandae, di cui è rimasta una torre. La lotta tra i Valperga e i San Martino si svolse soprattutto dalle torri dei castra Pontis e Ferrandae. Essendo i due castelli divisi soltanto da una via molto stretta, le due famiglie si fronteggiavano quotidianamente a colpi di frecce e massi scagliati con una macchina da guerra. La guerra cessò soltanto con la distruzione, ad eccezione del resto di torre ancora visibile, del Pontis ad opera dei Valperga. Il Tellario, rivolto verso la Valle Orco, era munito di una ballista per lanciare pietre. Il colpo finale ai castelli di Pont venne sferrato nel 1552 nel corso del conflitto franco-spagnolo: le truppe del Maresciallo De Brissac distrussero la Ferranda, mentre il Tellario fu ridotto in macerie da Cesare di Napoli. Dubbi sorgono anche sull'attribuzione di paternità dei tre castelli: ritenuta storicamente inaccettabile la tesi che l'attribuisce a Re Arduino, qualcuno afferma invece che a costruirli fosse stato il Conte Guido IV di Valperga. L'assenza in essi di tracce dello stile romanico, già parecchio diffuso in Canavese all'epoca di Re Arduino, indurrebbe pertanto a ritenere che tali costruzioni siano state erette precedentemente alla sua comparsa in Canavese».
http://www.comune.pontcanavese.to.it/ComSchedaTem.asp?Id=4987
PONT CANAVESE (torre Tellaria)
«Torre Tellaria (sec. X-XI). La presenza di una torre evoca immediatamente un vissuto storico medioevale popolato da nobili e popolani, soldati e cavalieri, mercanti ed artigiani, feste e cortei, ma anche guerre e distruzioni. Pont, che conobbe il suo primo grande sviluppo proprio nel medioevo, di torre ne ebbe più di una: il campanile della chiesa di Santa Maria, torre di guardia dei De Doblatio, la Ferranda e la Tellaria, che ancora dominano il paesaggio, con le loro possenti strutture, dall'alto dei poggi su cui vennero costruite; la torre del Castrum Pontis, di cui resta una scheggia di fronte alla Ferranda ne sono la testimonianza. La Tellaria, come le altre torri, faceva parte di un "castrum", cioè di una costruzione destinata ad ospitare i soldati ed i loro armamenti, le vettovaglie e quant'altro potesse essere utile alla sopravvivenza in caso di assedio e fungeva da torre di guardia e di difesa essendo fortificata. Il "Castrum Thelarii", sorgendo sul poggio all'ingresso della valle Orco, era deputato al controllo e alla difesa della stessa e del ricetto sottostante costituito da casupole abitate da contadini e artigiani al servizio del "castrum". La tradizione attribuisce la costruzione delle torri ad Arduino di Ivrea e le fa risalire all'epoca della guerra con l'imperatore Enrico II e all'assedio di Sparone (1004-1005); in realtà gli storici ritengono che siano state erette, fra il X e l'XI sec. dai conti De Canavise, poi divisisi in Valperga e San Martino. ... La Tellaria apparteneva ai San Martino come il castrum Pontis, i Valperga erano invece i proprietari della Ferranda; le due famiglie erano in costante discordia per il possesso del feudo di Pont che era indiviso e numerose furono fra loro le azioni di guerra Pietro Azario, storico, nel De Bello Canapiciano del 1362 racconta della guerra del Canavese che vide contrapposte le due famiglie dal 1339 al 1343 e ci fornisce la prima descrizione dei castelli di Pont; i contrasti fra le due famiglie continuarono nei secoli ed i castelli vennero più volte saccheggiati. Il Tellurio subì pesanti danni nel 1383 e fu oggetto di saccheggio durante il Tuchinaggio; nel 1552, all'epoca della guerra franco-spagnola, che vide ancora una volta i Valperga e i San Martino in campi avversi, subì la distruzione ad opera delle truppe di Cesare Maggi, al soldo degli Spagnoli, nonostante fosse fortificato e dotato di un ballista per il lancio delle pietre. Legate alla presenza delle torri sono sorte nel tempo numerose leggende; la più nota è certamente Madama Rua, la misteriosa signora che abitava la Tellaria e mangiava i bambini, trasformatasi in corvo per non lasciarsi catturare dagli abitanti di Pont inferociti. ... ».
http://www.comune.pontcanavese.to.it/ComSchedaTem.asp?Id=21094
PONTICELLI (resti del castello)
«Tra Chieri e Santena, lungo strada Fontaneto, in un paesaggio agricolo stravolto da svincoli autostradali e nastri di asfalto postmoderni della tangenziale, la "località Ponticelli" corrisponde come ubicazione alla cascina Guetto. Nel medioevo il visitatore di questi luoghi avrebbe però incontrato altri panorami e la presenza del castello di Ponticelli non sarebbe passata inosservata. Storicamente se ne hanno notizie a partire dal 1345 quando il marchese Giovanni II di Monferrato, in aiuto ai fuori usciti di Chieri, comunica la sua vittoria al castello di Gamenario ( presso Santena, ma oggi scomparso ) contro le truppe Provenziali da lui costrette a ripiegare sul castello di Ponticelli.... Nel 1351 è documentata la presenza in chieri del Conte Verde, come "arbitro" per la riappacificazione dei chieresi e dove ricevette omaggio dai più influenti cittadini tra i quali Manfredo Bertone Balbo (signore del castello di Pessione) e Guglielmone Vignola possessore del castello di Ponticelli ... Oggi del Castello di Ponticelli esiste soltanto una robusta torre cilindrica, forse opera quattrocentesca che ha sostituito la precedente torre quadrata del castello "Guelfo" posto a tutela dei casali della pianura meridionale sul confine chierese col territorio di Asti e Saluzzo. Questa torre rotonda, parzialmente conglobata nella struttura di una cascina, resta quindi l'unica testimonianza di lontani e notturni incontri eretici».
http://quarini.scuole.piemonte.it/catari/ponti.htm
Pralormo (castello dei Beraudo)
«La prima costruzione risale alla fine del XIII secolo e faceva parte del sistema di fortificazioni di quest’area del Piemonte contesa tra i Biandrate e la città di Asti. La riunificazione del feudo ad opera di Carlo Beraudo (1830), fu decisiva per un intervento di radicale restauro ad opera dell’architetto di corte Ernesto Melano, che seppe trasformare in elegante residenza signorile quello che era in origine un complesso fortificato costituito da due diversi edifici, uno superiore ed uno inferiore. Del primitivo castello non restò che la parte posteriore, di cui venne sopraelevato un torrione per armonizzare l’edificio. L’intervento di Melano riguardò principalmente le facciate che furono intonacate per mascherare l’eterogeneità delle finestre via via aggiuntesi nei secoli. Il cortile centrale venne coperto grazie ad un lucernario e trasformato in ampio salone; all’esterno vennero eliminati il ponte levatoio e il fossato perimetrale. Sempre in quegli anni il piccolo giardino di rose (già citato nelle cronache del 1500) venne trasformato dall’architetto Xavier Curten in un elegantissimo parco all’inglese. Verso la fine del secolo il nipote del ministro, anch’egli di nome Carlo, fece edificare l’Orangerie, la serra di vetro, e l’imponente cascina (1875). Il castello è tuttora dimora della famiglia Beraudo e non è visitabile, mentre vengono periodicamente aperte al pubblico le pertinenze in occasione di eventi culturali».
http://www.monferrato.net/scheda/3/6/0000000279/Castelli/Castello_dei_Beraudo_di_Pralormo.html
Pralormo (torre di segnalazione)
«Nel mezzo del panoramico percorso che lega la parrocchiale ed il castello sorge una torre di segnalazione del XIII secolo, successivamente trasformata in torre campanaria. e in tempi moderni in torre dell’orologio. è curioso sapere che il primo orologio montato sull’edificio risale al dicembre 1749 quando il sindaco e la comunità decisero di acquistarne uno. Nella compravendita intervenne il Conte Beraudo il quale riuscì a trovare un orologio “di seconda mano”, peraltro in ottimo stato e “a poco prezzo”. L’orologio proveniva dai Padri della Certosa di Collegno, che avevano deciso di disfarsene perché troppo rumoroso per le esigenze del convento».
http://www.comune.pralormo.to.it/ComSchedaTem.asp?Id=28620
«In origine insediamento fortificato utilizzato come base di appoggio per cercatori di cave di marmo, il paese conosce successivamente, a partire circa dall’anno mille, l’alternanza di numerosi feudatari, fino a quando nel 1581 Carlo Emanuele I, dirimendo una contesa sulla proprietà del feudo, lo concesse ai Dal Pozzo, a cui rimase fino al 1876. Agli inizi dell’Ottocento il paese conosce il suo periodo di massimo splendore con il passaggio al principe Carlo Emanuele della Cisterna, uomo ricchissimo e di idee politiche liberali. Condannato a morte in seguito alla partecipazione ai moti del ’21, riparò in esilio in Francia e Svizzera, sposando una ricca aristocratica belga. Dopo l’amnistia concessa da Carlo Alberto, il principe rientrò in Italia, patrocinando tra l’altro la ricostruzione della parrocchia di San Giorgio (che sorse nel 1852 sulle rovina di una chiesa medievale). Alla sua morte il feudo passò alla figlia Maria Vittoria che, sposa del duca Amedeo di Savoia-Aosta, fu per pochi mesi regina di Spagna e si contraddistinse per le sue innovazioni nel campo dell’assistenza sociale: nel 1867 fondò tra l’altro l’asilo d’infanzia, situato presso la Cappella della Pietà , divenuto poi col tempo scuola elementare. Alla morte di questa i beni dei Dal Pozzo passarono ai duchi di Savoia-Aosta, a cui rimasero sino all’inizio del XX secolo. Certamente la principale attrazione del paese è il suo castello, uno dei più belli del Piemonte. L’aspetto esteriore e la posizione strategica rimandano senza dubbio ad un’originaria vocazione difensiva. Fra il XVII e il XVIII secolo fu trasformato in una residenza dagli interni barocchi, purtroppo in gran parte andati all’asta durante le numerose vicende giudiziarie degli ultimi decenni, al termine delle quali fu acquistato da un ricco petroliere egiziano, sposatosi con una giovane reanese. Essendo quindi sostanzialmente una residenza privata, il castello è ammirabile in tutto il suo splendore, ma solamente da fuori».
RIBORDONE (casaforte di Pertia)
«Di grande interesse le rovine della casa forte o "castello" di Pertia (o Pertica), situata a 1225 m e raggiungibile con un paio d'ore di cammino attraverso un bel bosco di conifere da Ribordone, con qualche ora in più da Sparone e da Locana. Si dice che questa fortezza sia appartenuta a re Arduino e che fosse collegata alla Rocca di Sparone. Durante la guerra del Canavese che contrappose Valperga e San Martino vi fu la conquista, nel 1339, della casaforte di Pertia ad opera di Giovanni Valperga il Maggiore, grazie alla complicità degli abitanti del luogo, evento che cambiò i rapporti di forza tra le famiglie rivali a tutto vantaggio dei Valperga. Il castello di Pertia è fantasiosamente disegnato e descritto come fortissimo castello dal cronista Azario nel suo De Bello Canepiciano del 1362. Oggi sono ancora visibili gli antichi portali trilitici medioevali e la caratteristica imponente muratura in pietra a spina di pesce».
http://www.cm-altocanavese.to.it/index.php?option=com_content&view=article&id=37:ribordone...
Rivalta di Torino (castello degli Orsini)
«Il castello di Rivalta, di origine medievale, fu fondato sopra un rialzo di terreno che sovrastava la campagna circostante. Ancora oggi l'edificio conserva l'originario aspetto di fortezza, circondata da mura di pietra e da un fossato, anticamente pieno d'acqua. Al castello si accedeva un tempo tramite un ponte levatoio in legno, oggi sostituito da un ponte fisso in muratura. Il robusto portone d'ingresso sorge alla base di una torre merlata. Attorno al castello c'è un ampio parco, interamente racchiuso nelle mura del fortilizio. Il più antico documento in cui si fa cenno a Rivalta risale al 1016 e riguarda la donazione di un feudo da parte di Oddone, figlio del marchese Manfredo, al monastero femminile di San Pietro di Torino. Il primo accenno ad edifici risale invece al 1029, sempre in una donazione, ad opera del marchese Olderico, che, insieme alla moglie Berta, donò "beni situati in Ripalta" al monastero di San Giusto di Susa, da loro stessi fondato. Notizie certe sulla presenza di un castello risalgono invece ad un documento del 1062, il quale riferisce che, nel luogo denominato "Ripalta", sorgeva un "castrum", costituito inizialmente da una sola torre (alla quale in seguito se ne aggiunsero altre) e dotato di un sistema di difesa fortificato, con mura, fossato e corso d'acqua. Nel 1176 Federico Barbarossa fece saccheggiare Rivalta, per punire il signore del luogo, Risbaldo, il cui figlio Olrico parteggiava per i conti di Savoia e per il papa. Con la pace del 1185 tra il papa ed il Barbarossa, il possesso di Rivalta fu nuovamente affidato ad Olrico. Il 28 ottobre del 1186 il vescovo di Torino prese possesso del feudo rivaltese, che presidiò con soldati e cavalieri. Nel 1195 Olrico subì una nuova distruzione di Rivalta, a causa della guerra tra il vescovo Arduino di Valperga e il comune di Torino con vari signorotti rivaltesi. In seguito a questa guerra il castello non poté essere riedificato fino al 1229.
Le vicende dei signori di Rivalta si collegarono presto con quelle dei Savoia, da poco scesi in Italia attraverso la valle di Susa. Il primo luglio 1149 Rinsaldo, signore di Rivalta, strinse un patto con i cittadini di Torino, in base al quale si impegnava a combattere in loro favore contro chiunque, eccetto che contro i consignori di Trana, suoi cugini. Nel corso dell'XII e XIII secolo i signori di Rivalta riuscirono non soltanto a mantenere e a consolidare i propri beni, ma riuscirono ad espandere l'egomonia politica anche sull'area del percorso stradale che da Avigliana portava a Torino, attraverso la Val Sangone, mediante l'acquisizione dei diritti sul castello di Reano nel 1233 e sul castello di Trana nel 1295. Attorno al castello di Rivalta sorsero nel frattempo altre abitazioni, venendo a formare una sorta di ricetto. Quando la popolazione aumentò, nella metà del '300, il ricetto fu ampliato e fu dotato di tre torri-porta di ingresso, aperte verso l'interno, utili sia per la difesa, sia per il controllo del passaggio dei forestieri. Nei secoli successivi il castello subì alcuni rimaneggiamenti, sia nel Settecento, sia nell'Ottocento, in stile neogotico. Il castello di Rivalta appartenne per secoli alla famiglia nobile degli Orsini. Per questo ancora oggi il castello è detto "Castello degli Orsini". Nel Novecento il castello è stato per più di 40 anni in proprietà alla famiglia Pogliano, poi nel 2006 è stato ceduto al Comune. Il 15 marzo 2008 il castello di Rivalta, dopo i necessari restauri, ha aperto per la prima volta le proprie stanze al pubblico, trasformate in sede espositiva per mostre».
http://www.parcopotorinese.it/pun_dettaglio.php?id_pun=1012
Rivalta di Torino (torre Civica)
«La Torre Civica, detta dai rivaltesi cioché mot (campanile mozzo), costituiva uno dei tre accessi al ricetto medievale. Posta nel punto più alto del perimetro fortificato controllava da occidente l’asse viario est-ovest del nucleo urbano. Gli altri punti di ingresso erano costituiti dalla Porta del Rivellino a sud-est, ancora visibile all’inizio della via Bianca della Valle, e dalla Porta di S. Giovanni ad est, localizzata presso la chiesa parrocchiale e oggi scomparsa. Provvista originariamente di porta ad ante, aveva probabilmente un coronamento merlato ed era aperta sul lato interno al ricetto. La diversa tessitura muraria, a “spina pesce” con listature in cotto sui tre lati esterni e a sacco sull’interno e sulla parte terminale, ne sottolinea le diverse fasi costruttive. Il fronte occidentale è stato rafforzato, in età moderna, da scarpe in muratura. Ha pianta quadrangolare, con volta a botte sull’asse di passaggio, ingresso laterale e piani di orizzontamento lignei, comunicanti con scala interna. La Torre non possiede elementi architettonici di rilievo. Gli accenni di decorazione sono dati dalle fasce decorative in cotto che corrono a due terzi di altezza e sotto il coronamento. Ai lati del fronte occidentale si notano gli attacchi delle mura del ricetto. La copertura attuale, realizzata nell’800, è a padiglione, con coppi su struttura lignea. La cella campanaria ospitava, dal 1874, l’orologio e le due campane, poi trasferite, nel 1934 nel campanile della Parrocchia. La loro preziosa funzione di scansione del tempo, del lavoro e della festa del borgo, continua, grazie all’unica campana dorata, dono dell’ing. Vittorio Giovanni Sclaverani, che ancora oggi rintocca le ore».
http://www.comune.rivalta.to.it/dettaglio_cerca.asp?idC=2073
Rivara (castello Vecchio, castello Nuovo)
«Il complesso di Rivara è costituito da due edifici: un maniero medievale ed un palazzo neobarocco, meglio conosciuti come il castello superiore (o castello vecchio) ed il castello inferiore (o castello nuovo), da un corpo di scuderie e dal parco che si estende su tutta la collina. Il castello superiore, che ha conservato maggiori tracce della sua origine medievale, fu edificato nel XII secolo dai Conti di Valperga ed è situato in modo da dominare la strada verso la montagna; il castello inferiore, rivolto invece verso la pianura, venne costruito dai Conti Discalzi nel secolo XIII in modo da opporsi, anche visivamente, al potere che i Valperga esercitavano sul feudo. Dall'inizio del secolo XIV, con l’estinzione della famiglia dei Discalzi, entrambi i castelli divennero di proprieta dei Valperga, ai quali rimasero fino alla fine del 700 seguendo le alterne vicende dei loro proprietari. Nel XV secolo il castello superiore divenne sede dell'Inquisizione e vi si tennero i processi alle streghe di Forno e di Levone le quali venivano imprigionate nelle carceri del castello. All'estinzione della famiglia dei Valperga i castelli passarono al Patrimonio Regio ed alla fine del secolo scorso furono acquistati dal banchiere torinese Carlo Ogliani che ne affidò i restauri all'arch. Alfredo D'Andrade. Egli decise di attuare sul castello superiore un lavoro di ripristino dell'originaria struttura medievale e trasformare invece il castello inferiore in una lussuosa residenza di campagna dove l'ala ovest fu organizzata secondo lo stile neogotico e la manica lunga in stile neobarocco. La famiglia Ogliani, che acquistando il complesso aveva voluto salvarlo dal degrado, lo fece rivivere anche grazie alla presenza degli artisti della "Scuola di Rivara". Erano questi pittori che, sin dal 1860, si ritrovavano a Rivara per dipingere en plein air anticipando per alcuni versi il movimento degli impressionisti francesi. Del cenacolo di artisti che si riuniva al castello, facevano parte personaggi della levatura di Pittara, Avondo, Pastoris, D'Andrade, Rayper, Teja ed altri ancora. Dalla fine degli anni '60 il Castello è stato di fatto abbandonato con notevole degrado degli edifici e del parco fino all'estate 1985, quando Franz Paludetto ha nuovamente destinato questi spazi all'arte.
CRONOLOGIA, 1163 -La fortificazione della rocca da parte di Giulio del Canavese, insignito della dignità di conte di Valperga da Federico Barbarossa, diventa la residenza stabile dei conti che esercitavano il loro potere su Forno, Busano e Rivara. 1236 - Il nipote di Guido del Canavese, Corrado, dà il vero e proprio avvio alla fiorente casata dei Valperga-Rivara fortificando il castello ed inizia i contrasti con la famiglia Discalzi, la cui nobiltà pare precedente a quella dei Conti. XIV sec. - Estinzione della famiglia Discalzi. II castello passa a Corrado Valperga. 1339 - Discordie fra i conti di Valperga e San Martino; il castello superiorc viene incendiato e ricostruito. Viene anche costruito il muro di cinta intorno al paese che costituisce cosi un unico complesso fortificato. XVI sec. - Frequenti conflitti franco-spagnoli. I castelli sono più volte assaltati e danneggiati gravemente. 1793 - Estinzione della Casata dei Valperga, il complesso passa al patrimonio regio. I castelli vengono spogliati di tutti gli arredi e gli ornamenti. 1802 - Napoleone dona il castello al generale Jourdan, che lo restituirà al demanio nel 1814. 1832-1859 - Il complesso ospita la Reale Accademia Militare. I1 castello inferiore viene ampliato. 1871 - I1 complesso viene acquistato dal cav. Carlo Ogliani che affida i restauri ad Alfredo D'Andrade. 1900-1950 - La proprietà passa alla famiglia Passerin d'Entreves Arborio di Gattinara. 1985 - I castelli sono utilizzati come centro d'arte contemporanea sotto la direzione di Franz Paludetto».
http://www.castellodirivara.it/storia.php?sez=1&lang=1
RIVAROLO CANAVESE (Castellazzo)
«Castellazzo (secoli XIII-XIX), corso R. Meaglia. La costruzione dei due Castelli presenti a Rivarolo è legata alla rivalità tra il conte di Valperga e i suoi cugini, i conti di San Martino, che interessò la città verso la metà del XII secolo. Infatti il feudo di Rivarolo rimase ai San Martino, che già possedevano i tre quarti dell’abitato e che costruirono il castello di Malgrà; mentre i Valperga, arroccati nel “Castellazzo”, mantennero il possesso di un piccolo territorio. La torre del Castellazzo costituisce il residuo dell’antico “castrum Riparolii” citato in documenti risalenti al 1142: in alcune fonti viene menzionata una carta, peraltro irreperibile, che testimonierebbe la sua esistenza già nel 1070. Fu possesso comunale, nell’ambito del consortile di Rivarolo, dei conti di San Martino e dei conti di Valperga fino ai primi del XIV secolo, poi venne abbandonato. Caduto in rovina, venne trasformato in villa signorile dall’architetto Luigi Formento a metà Ottocento ed è attualmente abitazione privata. Dell’originaria costruzione è rimasta la torre merlata».
http://www.prolocorivarolocanavese.it/doc/Castellazzo.pdf
Rivarolo Canavese (castello di Malgrà)
a c. di Glenda Bollone e Federica Sesia
Rivera di Almese (torre e ricetto di San Mauro)
«Il primo documento riguardante il ricetto di San Mauro risale al 1029, anno in cui il marchese di Torino Olderico Manfredi dona un terzo dei suoi possedimenti valsusini all’abbazia di S. Giusto in Susa, inclusa la “curtis” di San Mauro. In quel periodo esiste già, molto probabilmente, una chiesa con campanile, costruita su di un affioramento roccioso. Tra il 1281 e il 1285 la curtis viene trasformata in borgo fortificato, cioè in “castrum”, mentre il campanile diventa la torre che ancor oggi vediamo. è la parte meglio conservata del borgo. La chiesa assume le funzioni di magazzino di derrate alimentari, sede di tribunale e archivio dei monaci. Dalla seconda metà del secolo XIII viene a adibita a semplice residenza agricola. Di fatto si tratta del luogo dove il castellano raccoglie i raccolti delle campagne dovute all’abate come beni in natura o diritti di decimazione, dove si immagazzinano le produzioni dei campi che circondano il “castrum” coltivati sotto gli ordini del prevosto. Diventa inoltre il centro principale della difesa del territorio in cui rifugiarsi in caso di pericolo e difendere anche le derrate alimentari dalle razzie dei nemici. Dell’antico campanile, oggi la torre alta 26 metri, resta la suddivisione in sette piani, collegati da una scala sino all’ardita sommità panoramica, segnati da archetti pensili in cotto e da marcapiani a dente di sega, mentre la guglia piramidale in laterizio fu sostituita da una parte sopraelevata e merlata (dotata di caditoie),le aperture (monofore in basso e trifore in alto) furono chiuse e ridotte a feritoie. La chiesa, che sorge alla sinistra del campanile, divenne il magazzino per la raccolta dei prodotti agricoli.
L’attuale ponte in muratura sostituisce quello antico del XVII secolo, costruito dove prima esisteva il ponte levatoio, risalente al periodo delle fortificazioni del XIII secolo. Del fossato che circondava tutto il borgo, tranne il lato Ovest, dove era stato costruita una base realizzata con riporto di terra trattenuto da un muro di scarpa, resta visibile solo la parte Nord Ovest. Della prima cinta muraria che racchiudeva la chiesa e il campanile, si possono ancora ammirare alcuni merli guelfi; la seconda cinta muraria esterna, alla quale sono ora addossate le abitazioni, difendeva anche la parte rustica che fungeva da ricetto. Col crescere del borgo di Almese lungo il corso del torrente Messa e con la soppressione dell’abbazia di San Giusto in Susa, nel 1772, l’antico ricetto perderà progressivamente di importanza, degradato a residenza agricola via via frazionata fra più proprietari. La parte merlata venne acquistata nel 1889 da Battista Truccato, scalpellino. Durante i lavori di restauro rivenne una pergamena nella quale si accennava ad un tesoro nascosto in una galleria proveniente da ponente e che arrivava fin sotto la torre. Convinto della veridicità dello scritto, Truccato scavò nella viva roccia un cunicolo per intercettare questa ipotetica galleria. Scavò per circa 16 metri senza esito dal 1913 al 1918, anno della sua morte. La galleria divenne luogo di rifugio durante le incursioni aeree della seconda guerra mondiale. La torre e il ricetto sono stati oggetto di un intervento di restauro e ristrutturazione completato alla fine del 2006 e sono diventati uno spazio espositivo e sede di eventi culturali. La torre e il ricetto sono visitabili una volta al mese».
http://www.comune.almese.to.it/cultura-e-storia/edifici-storici/torre-e-ricetto-di-san-mauro
«Il Castello di Rivoli, è situato all’imbocco della Valle di Susa sulla sommità della Collina Morenica, ultima propaggine dell’anfiteatro morenico di Rivoli-Avigliana. Sin dall’ XI secolo si registra la presenza di una struttura fortificata, importante presenza lungo il tracciato valsusino della via Francigena. L’edificio, edificato dai vescovi di Torino, ben presto passa ai Savoia, facendolo divenire, con il passare dei secoli, uno dei primi gioielli della Corona di Delizie, il complesso di dimore costruito dalla fine del ‘500 a Torino e nei suoi dintorni, riconosciute Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco nel 1997. Rivoli fu, nel Medioevo, una delle capitali della corte itinerante sabauda, usato come importante scenario per incontri politici, matrimoni, come quello di Bianca di Savoia e Galeazzo Visconti e sontuose feste. Nel 1560, Emanuele Filiberto di Savoia scelse Rivoli come residenza temporanea, in attesa di stabilirsi definitivamente a Torino. Per trasformare l’edificio e renderlo all’altezza della corte ducale, venne chiamato l’ urbinate Francesco Paciotto, importante ingegnere militare, artefice dei progetti, negli stessi anni delle Cittadelle di Anversa e Torino. Oltre ai lavori alla struttura, egli realizza anche un giardino terrazzato e un ninfeo ipogeo, recentemente restaurato. Le decorazioni delle sale, volte ad esaltare i membri della dinastia, vengono realizzate da pittori del calibro del Morazzone e di Isidoro Bianchi. Sarà il suo successore, Carlo Emanuele I, nato a Rivoli nel 1562, si dice, alla presenza di Nostradamus, a far trasformare, dall’architetto Castellamonte, l’edificio in residenza e a far costruire la Manica Lunga, singolare struttura lunga 140 metri e larga 6, per ospitare la sua importante collezione di quadri. Il ruolo di Rivoli viene ribadito nel Theatrum Sabaudiae voluto da Carlo Emanuele II, ideale manifesto, per far conoscere alle corti europee le meraviglie del suo piccolo stato, con ben due tavole, fra i pochi edifici di committenza ducale ad avere quest’onore.
IL ‘700 :IL GRANDE PROGETTO DI FILIPPO JUVARRA. Il complesso viene fortemente danneggiato nel 1693 dall’esercito francese, comandato dal Maresciallo Nicolas de Catinat, seguendo il destino di altri importanti edifici : quali, tra gli altri, il Castello di Avigliana, l’Abbazia di San Michele della Chiusa e la Reggia della Venaria. La rinascita di Rivoli diventa un espresso desiderio di Vittorio Amedeo II, che chiamerà dapprima Michelangelo Garove e poi, nel 1718 Filippo Juvarra. Il periodo storico è molto importante per i Savoia, siamo al termine della Guerra di Successione Spagnola, che vedrà il Duca Vittorio Amedeo II assurgere alla corona del Regno di Sicilia, che nel 1720 diverrà Regno di Sardegna. Rivoli è parte integrante dei disegni del monarca, secondo la quale, il Castello doveva diventare una grande residenza in grado di rivaleggiare con quelle appartenenti alle grandi dinastie europee, divenendo testimonianza indiscussa del nuovo status e della posizione assunta dai Savoia nel panorama politico europeo. Collegato fisicamente, visivamente e simbolicamente grazie allo “stradone”, oggi corso Francia, progettato da Michelangelo Garove, con il cuore della città, a Palazzo Reale e poi alla collina e alla Basilica di Superga, simbolo della vittoria sui francesi del 1706 e della nuova dignità regia della dinastia. Vittorio Amedeo II fece di Rivoli il teatro di importanti eventi riguardanti la sua vita pubblica e privata : la sua salita al trono, nel 1684, la sua abdicazione del 1730 e nolente la sua dolorosa prigionia l’anno seguente. Questo avvenimento, le alterne fortune economiche e politiche dei Savoia e del Regno, ma anche i diversi interessi dei suoi successori, fecero sì che dell’imponente progetto juvarriano ne fosse realizzato soltanto un terzo. La possibilità di ammirarlo nella sua completezza ci è ancora oggi data dal pregevole modello ligneo, fortunatamente conservatosi, opera dell’ebanista di corte Carlo Maria Ugliengo, e che presenta l’edificio, ormai privo della Manica Lunga, che doveva essere abbattuta, due edifici del tutto identici che attorniano una parte centralecom l’atrio e la grande sala centrale, mai realizzata. Un’altra importante testimonianza proviene da sei grandi tele, realizzate dai migliori vedutisti dell’epoca, tra cui Giovanni Paolo Pannini, che presentano il Castello come ideale quinta scenica per la vita di corte, con giochi tra dame e cavalieri, l’arrivo della carrozza del re e gli stessi Juvarra e Pannini intenti a discorrere lungo le scalinate che avrebbero dovuto digradare verso l’abitato di Rivoli lungo la collina. A differenza di altri progetti portati a termine dalla sua équipe sia a Torino che nei dintorni, a quello di Rivoli non viene più eseguito.
LA NUOVA STAGIONE DI RIVOLI : I DUCHI D’AOSTA. Sarà necessario attendere il 1793, per far si che un nuovo architetto, Carlo Randoni, riprenda in mano le sorti del Castello. Il committente è Vittorio Emanuele duca d’Aosta, che riceve in appannaggio l’intero complesso nello stesso anno. Il contesto storico non è certamente dei migliori, scosso dalla Rivoluzione Francese, a tre anni dall’armistizio di Cherasco che porterà i Savoia a trattare con il generale Bonaparte e la loro conseguente partenza verso l’esilio sardo. Nonostante la situazione non certamente rosea, viene intrapresa a Rivoli una nuova campagna decorativa, che, senza riprendere il progetto juvarriano, si concentra al secondo piano dell’edificio, permettendo al duca di risiedere nel Castello. Gli ambienti, a cui attesero i più importanti ebanisti e frescanti del tempo, sono accoglienti e di bellezza composta, con uno stile che si avvicina al Luigi XVI, ma che si rivolge alle nuove tendenze più vicine a quello di Robert Adam e di Leopold Pollack, architetto attivo a Milano. Durante la parentesi napoleonica il Castello e il territorio di Rivoli vengono assegnati al titolo del principato della Moschowa e donati dall’Imperatore al cugino, Maresciallo Ney, come attesta una lettera datata 8 febbraio 1813. In questo periodo vengono trasferiti a Torino arredi, opere scultoree e pittoriche. La Restaurazione vede del 1814 il ritorno dei Savoia con sul trono, Vittorio Emanuele, e Rivoli diventa residenza reale, il cantiere riprende, senza però nessun intervento sostanziale. I soggiorni della corte si fanno sempre più rari e alla morte del re nel 1824, la vedova Maria Teresa fa trasferire gli arredi principali nella Residenza Reale, oggi Villa Cristina, ad Altessano.
DAI SAVOIA ALLA CITTà DI RIVOLI. L’edificio e i terreni di pertinenza, passano alle quattro figlie, perdendo di interesse e rappresentando una voce di spesa alquanto onerosa, nonostante il frazionamento e l’affitto da cui si ricava una rendita di 2.000 lire annue. Per adattare gli spazi, e soprattutto la Manica Lunga che diviene sede del 50° Reggimento di Fanteria il Comune di Rivoli contrae un mutuo, che comprende anche le vecchie scuderie situate nel Borgo Nuovo. Finalmente nel 1882 viene emanato il Regio Decreto che autorizza l’acquisto da parte dell’Amministrazione Comunale del Castello, il prezzo pattuito è di 100.000 lire, per le quali viene aperta una “Pubblica Sottoscrizione” e l’atto di vendita verrà stipulato nel 1883. Il Comune, divenendo proprietario, fa spostare nella zona sud-est del secondo piano del Castello la biblioteca civica oltre che arredi e il modello dell’Ugliengo, il resto viene messo a disposizione dell’Esercito. Gli eredi lasceranno i quadri, le sculture e le suppellettili rimaste “con obbligo in perpetuo di non allontanarli dal suddetto Reale Castello”. La residenza, gioiello di Casa Savoia per 5 secoli, diviene definitivamente caserma, iniziando così un lento declino, interrotto dall’organizzazione di mostre a fine ‘800 visitate che riportarono, sebbene per un breve tempo, la Corte al Castello, immagini di altri tempi, con signore dal cappello piumato, le prime grandi automobili, la Birreria Bosio accanto al grande glicine che ancora oggi fa bella mostra di se lungo la facciata della Torre Sud, come un ulteriore legame con il passato dell’edificio. Dopo questo momento di ritorno agli antichi splendori la residenza ad essere lasciata a se stessa, ulteriormente danneggiate e stravolta dagli usi impropri fatti nel frattempo, dall’occupazione durante la Seconda Guerra dell’esercito tedesco, dai bombardamenti alleati sino ad arrivare agli anni ’60 utilizzato come alloggio di fortuna per sfollati e senza tetto. Murature intrise di umidità, mancanza di infissi che permettevano alla pioggia e al vento di penetrare liberamente all’interno danneggiando affreschi, pavimenti e arredi lignei, la decomposizione dei materiali che permetteva alla vegetazione di annidarsi in profondità facendo sgretolare le strutture che diedero il via a una serie di crolli.
UNA NUOVA TAPPA : I RESTAURI DI ANDREA BRUNO. Per i festeggiamenti dell’Unità d’Italia si accende una timida speranza di portare a nuova vita l’edificio ormai abbandonato a se stesso, purtroppo, però i fondi destinati dal Ministero si rivela troppo esigui per poter procedere con i lavori. Sarà necessario attendere il 1979, dopo gli ennesimi crolli, quando il governo regionale, la Soprintendenza e l’architetto Andrea Bruno danno il via ai lavori di restauro del Castello conclusisi nel 1984 con la riapertura al pubblico».
http://www.castellodirivoli.org/storia
ROMANO CANAVESE (torre-porta, torre Comunale)
«La Torre-porta a nord si trova parzialmente sotterrata, a causa dell'innalzamento successivo della sede stradale; essa ha subito, nel corso del tempo, vari rimaneggiamenti. In origine non raggiungeva l'altezza attuale (11 metri) e aveva un ponte levatoio, con due bolzoni e una feritoia centrale. Al piano terra si possono notare una porta murata e una feritoia sulla destra; anche al primo piano vi sono due feritoie sul lato destro. Quando fu sopraelevata la costruzione, vennero aggiunti sette merli a coda di rondine, di cui tre in facciata. Alla base dei merli vi è una fascia decorativa, con due file di mattoni disposti a dente. Il numero di archetti è di sei in facciata e sul lato destro, di sette sul lato sinistro. Successivamente fu costruito il tetto. Sulla facciata rimane traccia di stemmi di antichi casati. La torre-porta a nord è di proprietà del conte Marchetti. ... La Torre Comunale. La Torre, che si trova isolata su una collina morenica, è il simbolo di Romano Canavese. Risale al XIII secolo; è menzionata negli statuti di Romano del 1315: dalla torre venivano chiamati "con grida" gli uomini del borgo, in caso di pericolo. Misura 5,50 x 5,40 metri alla base;l'altezza è di 27 metri circa. In origine la torre era dotata di merli ed era alta circa 25 metri. In un dipinto databile attorno al 1800, si può vedere la struttura originaria, prima che venisse costruita la cella campanaria; il bastimento non ha subito rimaneggiamenti. La torre è costruita in mattoni e non presenta decorazioni. I muri hanno lo spessore di 1,60 metri alla base e sono composti da un paramento esterno e da uno interno, spessi 20-25 cm ciascuno; la cavità interna è riempita con sassi e pezzi di mattone, misti a malta. La porta antica d'accesso è attualmente a sei metri dal piano di campagna; per accedervi doveva essere usata una scala di legno o di corda, rimovibile in caso di pericolo. Nella parete verso ovest la torre presenta una profonda fenditura, provocata da un fulmine il 5 maggio 1890».
http://www.comune.romanocanavese.to.it/torri_ponti.php - http://www.comune.romanocanavese.to.it/torre.php
RONCO CANAVESE (casaforte Gran Betun di Servino)
«La località Tor ove è localizzata la casa-forte si trova in una valletta laterale della Valsoana, sul versante orografico sinistro dei rio Servino che affluisce da levante nel torrente Soana; posta su un declivio prativo alla quota di circa m 1460, fronteggia, al di là di un piccolo rio secondario, i nuclei di Servino e Fontana, frazioni di Ronco Canavese. Vi si accede deviando dalla strada che percorre la valle dei Soana per le frazioni Scandosio e Cernisio, pochi chilometri a monte del capoluogo comunale, e proseguendo poi per una comoda mulattiera. Il piccolo nucleo di Tor è costituito dalla casaforte (come evidenzia il toponimo) e da alcuni edifici per le attività agropastorali, che nel tempo le si sono aggregati; quasi tutte le costruzioni sono in condizioni fatiscenti, anche se qualcuna - un rascard e una casa in pietra - non è totalmente in disuso.L'edificio, uno dei più interessanti tra quelli di cui ci occupiamo, per merito della qualità delle tecniche costruttive impiegatevi, è fondato su di un enorme masso roccioso, che forma un dislivello naturale di oltre m 2,50, consentendo l'accesso diretto dall’esterno - sul medesimo fronte nord - a due diversi piani della torre. Le condizioni di conservazione del manufatto non sono buone. Il tetto è crollato quasi completamente, mantenendo in situ pochi brani coperti da lastre in pietra, in precario equilibrio, utili però per definire l'assetto terminale della costruzione; anche la struttura muraria presenta un vistoso crollo, con relativo cumulo di macerie, sul lato est. Nonostante questa situazione che, in mancanza di interventi, potrebbe portare alla totale scomparsa dei "bene", la torre di Servino è tuttora ricca di testimonianze significative, poiché non risulta manomessa da interventi di riplasmazione successivi all'impianto. La casaforte, di dimensioni planimetriche medie, è organizzata a vani unici sovrapposti e non comunicanti tra loro ma sempre accessibili dall'esterno, che formano tre piani e un ulteriore piano nel sottotetto. I due locali inferiori erano coperti da solai lignei: il più alto presenta un interpiano, eccezio nalmente alto, di m 2,90, l'altro misura m 1,90 rispetto alla soglia dell'accesso, ma è scavato per una profondità di circa m 1,60, raggiungendo un'altezza di m 3,50, mai riscontrata altrove. lì terzo piano, che aveva una copertura analoga agli inferiori, presentava un'altezza di m 2,25 da solaio a solaio; il sottotetto variava dai m 1,50 alle imposte delle falde sino a circa m 3 al colmo. ...».
http://www.vallesoana.it/la-valle-2/i-comuni/ronco-canavese
SALASSA (torre-porta, ricetto)
«Torre-porta: monumento simbolo del paese posto all’ingresso del Ricetto medievale e di fronte alla chiesa parrocchiale; la costruzione, realizzata in ciottoli, risale probabilmente al XIII secolo, ma l'atipica forma cilindrica su base quadrata e l'anomala posizione in un angolo del ricetto fanno supporre l'adattamento di una torre precedente. Alla prima merlatura se ne aggiunse poi una seconda, mentre la cella campanaria in muratura del XVIII sec. trasformò la torre in un campanile alto 25 metri; alla base sono ancora visibili le mensole dei cardini dell’antica porta di accesso e la feritoia in cui passava la corda che azionava la saracinesca esterna. Ricetto: a ridosso della torre sorge l’antico nucleo difensivo medievale di forma quadrata; era caratterizzato da alcuni aspetti peculiari per i ricetti canavesani: cinta muraria piuttosto alta, posizione in un angolo a sud e forma della torre d'ingresso, mancanza della lizza, cioè di un percorso interno adiacente le mura, datazione della costruzione addirittura al XIII sec. Percorrendone le vie è ancora possibile identificare alcuni muri in ciottoli sistemati a spina di pesce caratterizzanti le cellule edilizie originali e osservare la profondità delle cantine».
http://web.tiscalinet.it/jovishome/schedine/paesexcanavese.htm
SAN BENIGNO CANAVESE (torre-porta del ricetto)
«Del ricetto medioevale (1400) rimangono, oltre all'assetto delle vie, una delle tre porte ed una delle torri d'angolo oltre a tracce di altre torri. Su alcune facciate si possono ancora vedere parti di finestre bifore e di decorazioni in cotto. Il battifredo è una torre d'avvistamento in legno, in uso nel Medioevo presso i villaggi fortificati o i ricetti dell'Italia. Permetteva di dominare il terreno circostante l'agglomerato al fine di avvistare il nemico ed a tale scopo era provvisto di una campana per dare l'allarme. Nel corso del XIV secolo, nel più generale contesto della "stabilizzazione" delle strutture difensive tramite rivestimento in pietra delle precedenti impalcature lignee, il battifredo venne spesso riconfigurato in porta-torre di accesso al ricetto caratterizzata però da una spaziosa piattaforma superiore garantente comunque le funzioni di guardia ed ospitante la consueta campana» - «Le difese tramite mura vennero innalzate nel XV secolo tramite mura, cancelli, fossati a ridosso dell’abazia, sopratutto a causa dell’instabilità politica del periodo, portando la gente nello spostarsi al suo interno fino al 1600, secolo in cui le persone tornarono lentamente ad abitare le aree esterne alle mura. Il “La Drint” (come viene chiamato dagli abitanti del luogo) di San Benigno, uno dei resti delle antiche mura che circondavano il paese (1400). Ancora oggi sono visibili i resti delle mura, come ad esempio il ricetto (chiamato dai paesani il “La Drint“) risalente al 1400 (vedi foto sopra) un altra torre vicino al comune ed altri resti meno evidenti. Il Ricetto un tempo era adibito a prigione, oggi è regolarmente adibito ad uso civile. è stata anche la casa del Pittore Fasani, un vero e proprio “simbolo” dell’arte di San Benigno Canavese, che ha lasciato prima della sua morte tantissime opere e quadri di ottima qualità».
http://www.comune.sanbenignocanavese.to.it... - http://www.albyphoto.it/articoli/san-benigno-canavese (a cura di Alberto Bracco)
«Come altre terre della media valle di Susa, San Didero fu signoria dei Bertrandi, poi dei Roero e quindi dei Grosso. Al centro del borgo si eleva la casaforte che fu dei signori del luogo. Benché, secondo alcuni, si tratterebbe di un castrum tale termine mai compare nei documenti pervenutici, oltretutto assai tardi (sec. XIV e XV), come l’atto rogato nel 1425 “in Sancto Diderio ante domum fortem nobilis Francesquini Rotarii“. Imponente è il massiccio torrione quadrato i cui merli ancora oggi dominano i sottostanti tetti di cotto. La torre quadrata termina con una merlatura ed internamente era suddivisa in più piani da impalcature di legno. Una serie di scalette interne mette in comunicazione i vari piani: generalmente il primo fungeva da cucina, il secondo da abitazione del signore ed al terzo alloggiavano i pochi soldati della guardia. Prospiciente la ripida strada principale, che si snoda fra le case dell’abitato, corre ancora l’alto muro merlato nel quale si apre l’ampio portone carraio. Dal portone si entra in quello che fu il cortile d’onore sul quale si affaccia la lobia (ballatoio in legno), da cui si entra nella torre. Dal cortile si possono osservare alcune strutture superstiti delle opere di difesa: i tratti di cammini di ronda verso il ciglio interno del muro di cinta e alcune strombate arcere aperte nei merli. Dal cortile, attraverso un andito, si giunge nella parte rustica che si apre a sud, ormai alterata nelle strutture originali. Nell’anno 2013 sono stati collaudati i lavori di restauro / riuso funzionale commissionati dal Comune, finalizzati al consolidamento delle strutture ed all’adeguamento dei locali agli standard ricettivi, preservando le peculiarità storiche e le caratteristiche architettoniche del fabbricato».
http://www.comune.sandidero.to.it/cultura-e-storia/casaforte
San Giorgio Canavese (castello dei conti di Biandrate)
«Il Castello dei Biandrate è un imponente edificio che rappresenta un vero simbolo per il paese. è stato rilevato come sulla collina di San Giorgio fossero sorte in tempi diversi parecchie costruzioni, al punto di dover parlare più di un complesso di castelli che di un unico maniero. Si distingue normalmente una costruzione più antica, presumibilmente risalente ai sec. XII-XIV, di cui restano poche tracce, ed una più recente attribuibile, nel suo nucleo iniziale, ai sec. XV-XVI. Il castello dovette subire importanti modifiche nel secolo XVII a cura di Guido Aldobrandino, al quale si deve verosimilmente la struttura unitaria della parte "nuova". Negli ultimi anni del secolo viene decisa un'ulteriore trasformazione del maniero con soppressione parziale o totale delle torri. Tale lavoro, coincidendo con la guerra di Vittorio Amedeo II contro la Francia, subì con ogni probabilità lunghi periodo di sosta. All'inizio del Settecento, in coincidenza con l'acquisto di parte della proprietà di San Giorgio dal ramo di Foglizzo, Guido Aldobrandino riprende con energia i lavori di modifica del castello che hanno termine nell'anno 1726. Essi non si limitarono all'eliminazione della torre centrale ma interessarono un po' tutta la struttura architettonica del fabbricato principale che, sul lato di ponente, venne ad assumere un unico e rettilineo corpo di fabbrica e, su quello di levante, acquisì una grandiosa facciata del tutto nuova: tre avancorpi coronati al culmine da frontoni e balconate con due cortili interni. Il castello "vecchio", a sua volta, subisce in questo periodo un rimaneggiamento ad opera di Baldassarre Ferdinando del ramo di Lusigliè. Dalle carte di un processo intestato dai conti di Foglizzo agli eredi dell'ultimo conte di Lusigliè, Vittorio Amedeo (deceduto nel 1745), risulta che fin verso la fine del secolo XVII l'edificio appariva ancora in buone condizioni. Era diviso a sua volta in due corpi di fabbricato, uno a ponente e uno a levante, entrambi con due piani fuori terra, uniti fra loro da una galleria che divideva un cortile signorile da uno rustico.
Il fabbricato di ponente, le cui muraglie erano descritte di colore rosso " - che parevano le torri che sono a Porta Palazzo", era formato da un appartamento al piano terreno composto da un salone con pareti ricoperte di cuoio e solaio dipinto, una camera da pranzo, cucina e servizi; al piano superiore erano un granaio e una prigione. Le camere da letto erano sistemate nel fabbricato di levante. Secondo la testimonianza di persone che vi avevano abitato, vi furono ospitati frequentemente "dame e cavalieri i quali si trattenevano ed alloggiavano". Tra la fine del secolo XVII e l'inizio del XVIII anche questo castello acquisisce una struttura unitaria. L'edificio di ponente viene demolito e sostituito da una nuova costruzione ottenuta ampliando e modificando il fabbricato di levante e utilizzando l'area del cortiletto rustico posto sul lato di mezzanotte. Venne anche mozzata l'ultima torre per tenere il fabbricato in linea con quello nuovo di Guido Aldobrandino. In conseguenza i due castelli (vecchio e nuovo) vennero a presentarsi come due fabbricati contigui ma nettamente separati e tali appaiono in due notevoli serie di acquarelli dipinte nel 1727 e nel 1795, rispettivamente dai pittori Giacinto Cocelli e Luigi Brambilla. Tale situazione durò fino all'inizio dell'Ottocento allorché, probabilmente in concomitanza con la demolizione del vicino convento e per decisione poco comprensibile dei proprietari, questi decisero di eliminare il castello "vecchio" ricostruito da Baldassarre Ferdinando dove, a quanto pare, erano apparsi alcuni difetti di costruzione. L'edificio fu quindi quasi interamente demolito e l'area relativa sistemata a giardino all'inglese. Fu questo l'ultimo intervento al castello che rimase da allora quale lo vediamo oggi: un grande fabbricato residenziale con due facciate assai diverse nelle prospettive di levante e di ponente. Nella parte alta del giardino rimase pure un piccolo elegante padiglione (la "Gloriette"), presumibilmente fatto costruire in occasione dei grandi lavori effettuati all'inizio del '700. ... Oggi il Castello è di proprietà di una società privata che ha provveduto nel corso degli anni recenti ad effettuare vari interventi conservativi. Dopo un periodo di abbandono l'antico maniero ha ritrovato il suo antico fascino, avendo conservato intatte molte parti dei secoli passati».
http://www.comune.sangiorgiocanavese.to.it/ComSchedaTem.asp?Id=4851
San Giorio di Susa (casaforte)
«La casaforte di San Giorio (valle di Susa) sorge sullo stesso sperone roccioso dove si trovano il castello e parte del paese di San Giorio di Susa. La casaforte è visibile alle spalle della chiesa parrocchiale e fa parte del complesso della casa parrocchiale del paese. Ospita la sede di alcune associazioni. Come il castello di origine imprecisata, venne edificata probabilmente intorno alla metà del XIII secolo, dalla famiglia Bertrandi e faceva parte delle strutture militari deputate al controllo del passaggio lungo l'antica via Francigena del Moncenisio. La casaforte presenta diversi caratteri medioevali, come la finestra romanica sormontata da una croce, una monofora e altre pietre da taglio. Probabilmente le porte in facciata sono di epoca posteriore. Considerata una delle meglio conservate della valle, sostanzialmente risparmiata dalle distruzioni seicentesche, al pari delle strutture di Chianocco. Di dimensioni minori rispetto alle analoghe strutture fortificate di Chianocco e di San Didero, è costituita da tre piani fuori terra e uno interrato. Sormontata da merli a coda di rondine, si sono ben conservati il camino angolare interno e le mensole reggi trave dei vari piani, simili a alcuni esempi visibili nella vicina Chianocco. Probabilmente l’edificio della parrocchia costruito in aderenza alla torre sul lato ovest, ha inglobato parti del recinto murario medioevale. La casaforte si trova sul Mollare, alle spalle della chiesa parrocchiale e poco distante dalla cappella del Conte, fatta affrescare dagli stessi Bertrandi nei primi decenni del Trecento».
http://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=4877915
«Il castello di San Giorio è quello che ha conservato l'aspetto più medievale dell'intera valle. La sua origine è ancora avvolta nell'incertezza; di certo si sa che, fin dal luglio 1029, il fortilizio venne infeudato dal marchese di Torino Olderico Manfredi e da sua moglie Berta al monastero di S. Giusto di Susa, il quale lo possedeva ancora nei primi decenni del XIV secolo. Tra i molti vassalli che ebbero in tutto o in parte il castello, vi furono gli esponenti delle più importanti famiglie medievali della valle, i Bertrand di Montmélian, i Calvi di Avigliana, i Chignin di Villarbasse e gli Aschieri di Susa. Nel XVI secolo passò alle dipendenze dirette dei duchi di Savoia. Carlo Emanuele I lo donò al figlio naturale don Emanuele di Savoia che, nel 1636, lo cedette al fratello Vittorio Amedeo. Il duca lo infeudò quindi al colonnello Ressano di Pinerolo, governatore di Susa e capitano delle truppe ducali, in riconoscenza del valoroso comportamento tenuto nella battaglia di Avigliana del 1630 contro i Francesi di Luigi XIII. Nel 1691 il castello, difeso dalle truppe di Vittorio Amedeo II, fu attaccato e preso dal generale francese Nicolas Catinat. Dopo la conquista venne parzialmente smantellato con l'uso delle mine ed avviato ad una sicura decadenza. L'ultimo signore di San Giorio e del suo castello fu Giuseppe Prever di Giaveno, il quale ottenne nel 1795 la patente di nobiltà e l'infeudazione di San Giorio. Il castello era costituito di due gruppi di fortificazioni: il castello superiore, di più antica origine ed il castello inferiore, di più modeste dimensioni e del quale, in seguito alle distruzioni ordinate dal Catinat, non restano che alcune rovine, tra cui uno spigolo di torre quadrata ed i muri perimetrali del corpo centrale, privi di merli. L'intero complesso del castello era circondato da una cinta merlata che si sviluppava per una lunghezza di cinquecento metri».
http://www.lionsclubsusarocciamelone.it/sangiorio_castello.asp
SAN MARTINO CANAVESE (resti del castello di re Arduino)
«Secondo la tradizione popolare, le origini del Castello verrebbero fatte risalire al re Arduino, il quale vi avrebbe temporaneamente soggiornato nell’anno 1002. Anche se questa circostanza può non essere accompagnata da riscontri storici, risulta confermata l’esistenza delle fortificazioni del Castello, a partire dal secolo XII. Da allora, questa fortificazione fu al centro di tante vicende e battaglie, divenne di proprietà dei conti di San Martino, fu distrutta, nel 1364, come raccontato da Pietro Azario nel De Bello Canepiciano, venne nuovamente ricostruita per essere poi distrutta definitivamente nel 1543, durante le guerre franco-spagnole. Il castello aveva quattro torri, di una, ancora in piedi nell’Ottocento, ci sono rimasti i ruderi da cui si rileva che la base è di metri 5,6 x 5,2 e l’altezza di metri 12; le mura dell’edificio sono spesse un metro. Dell’edificio centrale del castello ci sono ancora, a sud dei resti della torre, un muro in pietra, lungo 14 metri e alto circa 8 metri; questa costruzione è spessa alla base m 1,20-1 e al primo piano m 0,80. e altri tratti di mura e fondazioni».
http://archeocarta.org/san-martino-canavese-to-torre-porta-resti-castello-re-arduino
SAN MARTINO CANAVESE (torre-porta)
«La torre-porta, ora campanaria e le mura del Borgo (sec. XI). La torre-porta è la principale delle quattro costruite, un tempo, a difesa del Borgo vecchio, insieme alle mura che lo contornavano e delle quali restano alcune testimonianze nella parte a nord-est dell'abitato del capoluogo (Couriau). L'edificio è una costruzione massiccia che presenta una sezione in pianta di circa 6,50x6,20ml. ed un'altezza originaria di circa 14,00 ml., elevata poi agli attuali 19,00ml. verso la metà del XVII secolo. La torre-porta fungeva da passo carraio con una doppia chiusura: a Sud con ponte levatoio, a Nord con antoni di legno imperniati su cardini litici, innestati alla base di un arco in cotto di stile Romanico. Quando venne trasformata in campanile (probabilmente all'inizio del XVIII secolo), le due porte vennero trasformate nell'attuale configurazione che consiste nel tamponamento parziale con muratura della porta Sud e nella creazione di una scala in pietra di accesso ai piani superiori - sede delle campane- sul lato Nord. Oggi, il trascorrere del tempo è ancora scandito dalle tre grandi campane originarie, azionate, però, da un sistema elettrificato. Negli anni 2006-2008 è stato eseguito un radicale intervento di consolidamento statico e di restauro del manufatto, del costo di 165.000 Euro, che è stato avviato grazie ai contributi concessi dalla Regione Piemonte, dalla Compagnia di San Paolo, dalla Fondazione CRT e dal Comune di San Martino».
http://www.comune.sanmartinocanavese.to.it/index.php/la-torre-porta-campanaria.html
San Mauro Torinese (castello dei conti di Sambuy, torre di Moncanino)
«Il primo feudatario di Sambuy fu il nobile Nicolino da Rivalta, il quale lo ebbe dall'abbazia di San Mauro verso il 1300. Questo feudo rivestì per svariati secoli una notevole importanza strategica, pertanto fu al centro di numerose vicissitudini, passando nelle mani di diversi proprietari, fino al 1772, anno in cui la signoria di Sambuy venne eretta in contea da re Carlo Emanuele III. Quindi, a partire da tale data, i membri della Famiglia dei Balbi Bertone, tuttora proprietari della tenuta, presero il titolo di Conti di Sambuy» - «Il castello, di antica origine, costruito su di un poggio, ha la facciata in mattoni (cotto) preceduta da una doppia rampa di scale. Nella prima metà dell'Ottocento venne realizzato il vasto parco e all'interno di esso una citroniera, lungo fabbricato neogotico progettato da Pelagio Pelagi» - «Al bivio tra Moncanino e Via Montenero si erge l'elegante figura di Villa Soley con la caratteristica torre che domina San Mauro. La villa venne fatta costruire nel 1830 e presenta una pianta rettangolare, è a tre piani, di cui l'ultimo è coronato da una balconata impreziosita da statue. Simbolo della collina di San Mauro è la Torre del Moncanino, un edificio in stile neogotico fatta edificare nella seconda metà dell'Ottocento. La Torre ha un'architettura alquanto stravagante sulla quale si aprono finestre a sesto acuto, bifore, trifore e balconate, ha sette lati, completamente costruita in mattoni e raggiunge l'altezza di 52 metri. È sormontata da un angelo metallico che indica la direzione del vento. A nord-est del comune, percorrendo la strada nazionale della Valle Cerrina, in direzione di Casale Monferrato, si incontra sulla sinistra un lungo muro di cinta che attornia il Castello dei Conti di Sambuy e il suo vasto parco. Il castello domina un poggio è a pianta rettangolare con una facciata in cotto ornata da una doppia rampa di scale».
http://www.parcopotorinese.it/pun_dettaglio.php?id_pun=994 - http://web.tiscali.it/jovishome/schedine/paesexcollinedelpo.htm
http://www.radiocorriere.tv/piemonte/San_Mauro_Torinese_to.html
San Sebastiano da Po (castello della Villa)
«Il castello di San Sebastiano Da Po si trova sulla parte sommitale della collina sulla quale sorge la frazione Villa, capoluogo comunale. Le origini del Castello risalgono all'alto Medioevo (secolo X), quando San Sebastiano faceva parte del Marchesato del Monferrato. Nella seconda metà del 1700 Paolo Federico Novarina, conte di San Sebastiano, incaricò Bernardo Antonio Vittone di ristrutturare l'intero complesso. L'architetto piemontese rielaborò l'antica struttura medievale, inserendo elementi tardobarocchi e neoclassici (in particolare la facciata interna del palazzo), che in alcuni punti lasciano tuttavia ancora emergere tracce quattrocentesche. Molto bella è la galleria affrescata da Pietro Bagetti (inizio XIX secolo), dalla quale la vista spazia sulle colline circostanti. Il parco, che fu disegnato nel 1810 dal famoso paesaggista Xavier Kurten, fu campo di studio della Facoltà di Botanica dell'Università di Torino ed oggi comprende: un giardino all'italiana con parterres di bossi e rose; un frutteto, a ricordo dei pomari medievali; un giardino-parco con secolari cedri del Libano, cipressi, vecchi aceri giapponesi e rarità botaniche; un grande prato all'inglese.Al centro del parco del castello si trova un casino romantico, immerso in un boschetto di cipressi, bossi, carpini e lauri, mentre nel lato settentrionale il parco è ulteriormente arricchito da un tempietto neoclassico e dall'orangerie, che si inseriscono armoniosamente nel contesto. Sempre nel parco si trova, ancora in buone condizioni, la vasca-fontana, adibita alla raccolta delle acque piovane e utilizzata anche come abbeveratoio per i cavalli. Dalla bastionata sul lato nord del parco si gode di un amplissimo panorama che spazia dalle colline del Monferrato alla Pianura Padana ed all'anfiteatro alpino. Attualmente il castello è abitato ed è anche utilizzato per attività culturali, convegni, rinfreschi e cerimonie. Il castello di San Sebastiano Da Po è altresì noto col nome di "Castello della Villa", oppure "Castello Radicati" o, recentemente, "Castello Garrone"».
http://www.parcopotorinese.it/pun_dettaglio.php?id_pun=958
Sant'AMBROGIO DI TORINO (castello abbaziale, mura del borgo)
«I resti del castrum sorgono all’inizio del sentiero che porta alla Sacra, poco sopra la chiesa di S. Giovanni. Anche se la prima attestazione scritta del “castello dell’abate clusino nel borgo di S. Ambrogio” risale al 1266, ai tempi dell’abate Decano, costruttore del castello abbaziale di Giaveno, la sua origine è precedente questa data, come suggerisce l’articolata successione di fasi edilizie emersa nel corso delle recenti campagne di scavo condotte nell’ambito del cantiere di restauro e di trasformazione del castello in struttura ricettiva. Sede del castellano di S. Michele e luogo di amministrazione della giustizia, fu anche residenza occasionale degli abati clusini. A seguito dei gravi danneggiamenti inferti nel 1368 dalle truppe mercenarie inglesi al soldo di Filippo d’Acaia, fu riparato e provvisto di caditoie e di una bertesca d’angolo. Dal 1533 al 1559 subì l’occupazione prima degli Spagnoli, poi dei Francesi e infine passò ai Savoia, che lo rinforzarono dotandolo di artiglieria leggera e di un buon numero di soldati. Tra Sei e Settecento guerre e battaglie lo ridussero allo stato di rudere, divenne cava di materiali da costruzione e fu invaso dalle abitazioni private. Le indagini archeologiche hanno rivelato come l’elemento più antico del castello fosse il torrione circolare costruito direttamente sulla roccia nel punto più elevato del sito, del quale rimangono i primi corsi di fondazione e una piccola parte dell’alzato. Associati alla torre sono alcuni muri realizzati con la tecnica a “spina pesce”, situati subito a nord, verso la zona pianeggiante. In un momento successivo la torre venne circondata da una cinta a pianta quadrangolare, della quale si conservano gli alzati, il portale e le grosse mensole in pietra che reggevano il cammino di ronda. La struttura fu successivamente ampliata verso valle, fino a raddoppiare il suo originario perimetro, e arricchita nel corso dei secoli XIV e XV da elementi costruiti in laterizi, come la bertesca, il torrino circolare nell’angolo sud, e i merli a coda di rondine.
Le mura del borgo e le case. Il complesso monastico di S. Ambrogio dovette presto attrarre l’insediamento di un agglomerato di case, anche se nella documentazione scritta le domus vengono citate solo a partire dal XIII secolo. All’interno del paese ancora oggi un’attenta osservazione permette di individuare antiche cellule medievali inglobate nel tessuto urbano moderno: percorrendo la via Antiche Mura è possibile infatti riconoscere tre case costruite in conci di pietra disposti a “spina di pesce”, cellule che successivamente vennero collegate tra loro dalla cortina muraria che cinse il borgo. Queste mura formano un quadrilatero irregolare imperniato nell’angolo sud-ovest sulla chiesa di S. Giovanni Vincenzo, mentre una torre cilindrica sorge sull’angolo nord-ovest; le due porte di ingresso si aprivano a cavallo della strada di Francia, asse generatore e di attraversamento del borgo. Il lato occidentale delle mura fu ricostruito dopo le distruzioni degli Inglesi del 1368. All’interno del borgo, in un cortile che si affaccia sulla via centrale, sono visibili i resti di un edificio pubblico con porticato al piano terra, di cui si conservano due arcate sostenute da un pilastro sormontato da capitello a foglie lisce, e la parete orientale con una bifora decorata da pilastrini e capitelli. La pregevole fattura di queste strutture fa pensare alla curia o al broletto del borgo, luogo di redazione di atti privati citato dalle fonti scritte dalla metà del Duecento».
Sant'AMBROGIO DI TORINO (torre comunale, torre campanaria)
«La Torre Comunale, alta circa m.15, risale con ogni probabilità al secolo quindicesimo. Situata a ridosso ed internamente alla cinta muraria, di cui sono affiorati frammenti durante i recenti lavori di restauro. Molto importanti le pitture venute alla luce al primo piano della torre: la loro datazione è incerta, pur potendo ipotizzare una loro datazione attorno al 1200/1300. ... Il campanile era già la torre della precedente Chiesa. Quanto rimane attualmente parrebbe essere eseguito in periodi diversi: il basamento (costruito su una preesistente struttura longobarda); il tratto di torre per un'altezza di m.16 (analogie con le strutture murarie della Sacra di San Michele sec. undicesimo/dodicesimo); il tratto superiore con cella campanaria del 1200. La cuspide laterizia supera i dodici metri di altezza. All'interno un elegante locale con volta a crociera ed una scala a chiocciola in pietra che metteva la torre in comunicazione con la vecchia chiesa romanica».
http://www.comune.santambrogioditorino.to.it/Guidaalpaese/tabid/6443/Default.aspx?IDDettaglio=1515 - ...IDDettaglio=1516
Sant'AMBROGIO DI TORINO (torre della Dogana, torre del palazzo del Feudo, altre torri)
«La torre della Dogana di Sant'Ambrogio (XVIII secolo) è una antica torre del Piemonte, legata direttamente alla storia di Sant'Ambrogio di Torino. Si trova a Sant'Ambrogio di Torino all'imbocco della val di Susa, a 27 km dal capoluogo Torino. È alta circa 15 metri ed è situata all'interno del cortile del palazzo del Feudo nella cinta muraria. Fa parte del gruppo delle 7 Torri di Sant'Ambrogio, con la Torre della Bell'Alda alla Sacra di San Michele in Sant'Ambrogio che guarda dall'alto le altre 6 torri con la Torre Campanaria di Sant'Ambrogio (XI sec.), la Torre Comunale di Sant'Ambrogio (XIII sec.), la Torre della Cinta Muraria di Sant'Ambrogio (XIII sec.), la Torre del Palazzo del Feudo di Sant'Ambrogio (XVIII sec.), la Torre MFB della Manifattura Fratelli Bosio di Sant'Ambrogio (XIX sec.) ora demolita. La torre si trova al "Pasché" in via Umberto I nell'abitato di Sant'Ambrogio di Torino, ed è facilmente raggiungibile dal centro storico. Successivamente alla data del 29 aprile 1162, quando l'imperatore Federico Barbarossa concesse in investitura all'abate Stefano della Sacra, il territorio di Sant'Ambrogio, tornò dunque sotto la giurisdizione della sacra di San Michele e nel villaggio fu costruita la torre della Dogana. ... Torre del Palazzo del Feudo di Sant'Ambrogio. La torre si trova nel cortile del palazzo del Feudo in via Umberto I nell'abitato di Sant'Ambrogio di Torino, ed è facilmente raggiungibile dal centro storico. Successivamente alla data del 29 aprile 1162, quando l'imperatore Federico Barbarossa concesse in investitura all'abate Stefano della Sacra, il territorio di Sant'Ambrogio, tornò dunque sotto la giurisdizione della sacra di San Michele e nel villaggio fu costruito il palazzo del Feudo sul quale svetta la torre.».
http://it.wikipedia.org/wiki/Torre_della_Dogana_di_Sant%27Ambrogio - ...Torre_del_Palazzo_del_Feudo_di_Sant%27Ambrogio
Sant'Antonino di Susa (castel Billia)
«Castel Billia rappresentava una sorta di "residenza estiva" a presidio dei possedimenti della famiglia Billia - attestata agli inizi del '600 come la più ricca del paese, per secoli notai ed influenti amministratori - in un'ampia porzione di quel versante boschivo. La struttura attuale risale alla fine dell'800 ed è in stile neoclassico, alcuni arredi interni sono ancora originali. La località Billia è raggiungibile in macchina, direzione Cresto deviazione appena fuori dal centro abitato, in circa 30 minuti».
http://www.comune.santantoninodisusa.to.it/ComSchedaTem.asp?Id=6454
«Sul lieve rialzo, oggi sede della villa e della chiesa, fin dall’ottavo secolo d.C. sorgeva un antico castello, cinto da mura, torri e fossati. Ai primi del '700 Santena contava circa 1.600 abitanti ed il vecchio borgo feudale conservava ancora l’aspetto originario: la rocca era divisa tra i vari consignori del feudo. C’era il castello cinquecentesco dei Benso, il Castellazzo dei Tana di Baiard, il Castelvecchio dei Fontanella, un antico fabbricato dei Balbiano, la Torrazza consortile, che serviva anche da prigione, e una cappella dedicata a San Paolo. Il vecchio castello dei Benso fu demolito nel 1708 da Carlo Ottavio Benso, che al suo posto fece costruito, tra il 1712 e il 1722 il nuovo edificio. Il progetto è di Francesco Gallo, architetto di Vittorio Amedeo II. Altri edifici furono demoliti per costruire la chiesa parrocchiale. Nel 1748 la linea maschile dei Benso di Santena si estinse, e il Vescovo di Torino concesse l'investitura del feudo a suo nipote Francesco Oddone Rovero di Pralormo. I Benso di Cavour, come parenti più prossimi, reclamarono la successione dei Benso di Santena. La disputa giudiziaria si risolse solo nel 1760, con la divisione a metà del feudo e del castello. Solo nel 1777 i Benso riacquistarono dai Solaro l'altra metà. A quest'epoca risale, probabilmente, l'aggiunta di un balcone di pietra al secondo piano. In precedenza, tra il 1760 e il 1770 ci furono i primi interventi di restauro, con la realizzazione degli stucchi del Salone delle cacce. Tra il 1780 e il 1790, invece, fu la volta degli stucchi della Sala diplomatica. Nel 1816 furono abbattute le vecchie case davanti all'ingresso verso l'abitato, ricavando la piazzetta che è visibile ancora oggi. Verso il 1840 il corpo centrale del castello fu alzato per collegare internamente le due ali. Gli esterni furono restaurati tra il 1876 e il 1888 dalla marchesa Giuseppina Benso Alfieri di Sostegno, che affidò l'incarico all'architetto Amedeo Peyron. Nello stesso periodo fu restaurata anche la Torre, che fu trasformata - per volere della nipote di Camillo - nel Memoriale cavouriano».
http://www.camillocavour.com/dossiers/Visite%20guidate%20ed%20Eventi/4/13/
SantENA (castello di San Salvà)
«I dintorni di Santena sono luoghi ricchi, oltre che di bellezze naturali, anche di opere architettoniche di grande valore artistico. Verso levante, lungo la strada che porta a Poirino sorge l'antico castello di San Salvà. Il nome dell'edificio deriva da quello dei canonici del Santo Salvatore di Torino, i quali ebbero il dominio su Santena tra il 1029 ed il 1191. Il castello a pianta quadrata si eleva su un'altura ed è adornato da tre piccole torri e da una più grande porta a nord-est incoronata a bertesca, con ballatoio e merli. Su di esso è incastonato un orologio. Un grande scalone all'interno porta agli appartamenti con una galleria degli antenati di famiglia e con una preziosa biblioteca».
http://it.wikipedia.org/wiki/Santena#Edifici_e_monumenti_nei_dintorni
Sciolze (castello di San Severino)
«Il paese di Sciolze si trova in cima ad una collina immersa in una tranquilla area verde, ancora di aspetto tipicamente monferrino, anche se ci troviamo in provincia di Torino. Dell'origine di Sciolze si hanno traccia in documenti del 1034 conservati presso l'Abazia di Vezzolano. Il nome probabilmente deriva da quello di "Sciulza" ritrovato negli archivi delle chiese della Diocesi di Torino. Il centro del paese è dominato dal Castello di S. Severino, roccaforte di origine medioevale, posta su un'altura a dominio dell'abitato, di cui non rimangono che pochi resti delle mura. Sul sito del castello è stato edificato un palazzo signorile di gusto eclettico, tuttora abitato come residenza privata. La via centrale si propaga nelle piazzette dove sorgono la Chiesa della Confraternita dello Spirito Santo (1600), la Parrocchiale di San Giovanni Battista, chiesa di antica origine (1400) più volte rimaneggiata nel corso dei secoli sino all'ultimo intervento del 1770, conserva all'interno un altare maggiore in pietra di Gassino, con 4 statue lignee policrome del XVIII secolo, un quadro del Battesimo di Gesù di Enrico Gamba. A poca distanza vi è il colle di Fagnour, ove sorgeva in epoca medioevale il primitivo insediamento, la cui presenza è testimoniata dalla chiesa già di Santa Maria, ora di Santa Lucia, di origine antichissima. Nella zona sono stati trovati, dal geologo Luigi Rovasenda, reperti preistorici di fossili marini, di insediamenti con suppellettili ed attrezzi da lavoro e da caccia».
http://www.comunedisciolze.it/VisitaGuidata
«La torre è l’ultimo elemento superstite dell’antico castello signorile, gravemente danneggiato e forse distrutto durante le guerre franco-asburgiche del sedicesimo secolo. Il castello e la torre ancora in piedi furono costruiti sul sito di un precedente fortilizio presumibilmente tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento di cui non si conservano tracce se non nelle fonti d’archivio. Quali edifici comprendesse il castello e quale fosse il suo assetto planimetrico non è attualmente noto: tutte le ricostruzioni proposte sono frutto di congetture e come tali devono essere considerate. Le fonti del quindicesimo secolo attestano che il complesso difensivo di Settimo Torinese era assai ampio. Oltre al castello signorile, comprendeva la “villa” o borgo e il ricetto, secondo uno schema assai comune nel tardo Medioevo. Il borgo era munito di fortificazioni perimetrali e fossati che seguivano più o meno il tracciato delle moderne vie Antonino, Roosevelt, Mazzini, Astegiano e Matteotti, mentre a sud appariva parzialmente delimitato dalle strutture del castello. A ridosso di quest’ultimo, verso il borgo, sorgeva il ricetto, un’ulteriore struttura difensiva destinata a proteggere gli abitanti del luogo e i loro beni, servendo da rifugio e forse anche da ridotto militare. Durante gli ultimi secoli del Medioevo, l’importanza del castello e del borgo fortificato di Settimo dipese dalla possibilità di controllarvi il tratto finale della strada di Lombardia, vale a dire della “via publica peregrinorum et mercatorum” (strada pubblica dei pellegrini e dei mercanti) che entrava in Torino dalla Porta Doranea o Porta Palatina. Nella seconda metà dell’Ottocento, la torre fu trasformata in una sorta di residenza secondaria per iniziativa di una ricca famiglia torinese. A ovest dell’edificio storico venne costruito un palazzotto in stile gotico, secondo il gusto romantico dell’epoca. Un bel giardino con alberi secolari occupava tutta l’area del distrutto castello. La proprietà era chiamata “Villa Calma”. Nel 1912 il Comune di Settimo acquistò l’area del castello e la torre superstite. Nel 1922-23 vi fece innalzare l’edificio scolastico che dal 1983 è sede del municipio. Purtroppo la sopraelevazione dello stabile, negli anni Trenta del Novecento, distrusse alcune caditoie della torre. Per iniziativa della Pro Loco e della Consorteria dei Gamberai, tra il 1975 e il 1976, il pittore Giulio Boccaccio decorò le pareti e il soffitto di un intero piano della torre con scene tratte dalla storia di Settimo, letta in chiave popolare. Il restauro della torre e dell’adiacente palazzotto ottocentesco si è concluso nel 2003 (i primi studi risalgono al 1982)».
http://www.prolocosettimotorinese.it/index.php?idm=272
«Fra Airasca e Saluzzo, nell’alta valle del Po, in borgata Soave del Comune di Villafranca Piemonte, con lo sfondo del Monviso si innalza il castello di Marchierù, che tanti ricordi legano alla Casa Sabauda. Del nome di Marchierù si fa menzione la prima volta in un documento del 1220, per una donazione di beni all’Abbazia di S.Maria di Cavour. I luoghi ove sorgevano Borgo Soave e Marchierù furono sempre ambiti, e la stessa etimologia del nome si ricollega a “marcio”, bagnato, ossia altamente irriguo; siamo infatti nella zona dei “fontanili” (in piemontese “nasur”), luoghi ove l’acqua delle falde affiora alla superficie formando polle limpide e pulite che si mantengono ad una temperatura costante di 10/15 gradi in ogni stagione dell’anno, consentendo un’irrigazione temperata continua. Le altre ipotesi sull’origine del nome di Marchierù appaiono meno attendibili. Per alcuni potrebbe derivare da “marca” quale terra di confine con il Marchesato di Saluzzo, come in effetti fu, ma certo non esistettero mai dei “marchesi di Marchierù”. Leggendaria appare la derivazione dall’antico francese “macheron” cioè mucchio di macerie, esito dell’invasione di Federico Barbarossa. I primi signori di Marchierù furono i Signori di Barge ma, con atto dell’11 marzo 1251, tutti i loro beni in Soave furono venduti a Tommaso II di Savoia. Gli Acaja, con castello residenziale a Villafranca, conservarono Marchierù per i loro discendenti: così Filippo d’Acaja lo costituì in dote alla figlia naturale Francesca, andata in sposa ad Antonio Bocchiardi. Da questi il feudo passò ai cugini Petitti, figli di Beatricina d’Acaja, che lo mantennero fino al 1482. Nel 1483 Marchierù ritornò a Casa Savoia, e fu assegnato per metà in feudo a Filiberto, del ramo illegittimo degli Acaja-Racconigi, e per metà a sua sorella Claudia, sposa di Besso Ferrero marchese di Masserano. Si trattò tuttavia di breve signoria, giacché già nel 1640 il castello e le sue terre passavano ai conti Solaro del Macello tramite i Solaro di Moretta alla cui famiglia apparteneva Ottavia, la sposa di Filiberto d’Acaja.
Più tardi, per successione, il castello passò ai discendenti Cacherano di Osasco ed ai Filippi di Baldissero finchè nel 1827 il conte Vittorio Ignazio Filippi di Baldissero riscattò l’intera proprietà (che verso il 1750 era stata costituita in Commenda del Sovrano Militare Ordine di Malta) dal cugino Policarpo Cacherano di Osasco. Quella dei Filippi era antichissima famiglia, risalente ad Alineo, visconte d’Auriate nell’878, una delle più illustri di Cavallermaggiore; dai più antichi tempi rivestirono innumerevoli magistrature civiche e furono nel 1583 Decurioni di Torino. A tale famiglia appartenne Vittorio Antonio, nel 1736 aiutante di Campo del Principe Eugenio di Savoia nell’assedio di Vienna, Feldmaresciallo d’Austria, Comandante Generale della Cavalleria Imperiale e comandante dell’Armata d’Ungheria. Chi portò all’antico splendore il feudo di Marchierù fu Carlo Alberto Filippi di Baldissero, porta stendardo di Genova Cavalleria nella prima guerra d’Indipendenza, figlioccio e paggio di re Carlo Alberto di Savoia, membro della Regia Accademia di Agricoltura di Torino, artefice di importanti innovazioni proprio in campo agricolo emulo del cugino ed amico di Camillo Benso di Cavour che spesso soggiornò a Marchierù, fino ad iniziare i lavori per la rete di irrigazione delle campagne circostanti le sue proprietà, conclusi dal figlio Enrico. ... L’ultima erede dei Filippi, Camilla, andò sposa al conte Vittorio Prunas Tola, e quindi al loro figlio primogenito Severino, anch’egli Accademico dell’Agricoltura, tramite il quale il castello e la tenuta sono pervenuti agli attuali proprietari Mariconda, discendenti dei patrizi napolitani dell’antico sedile di PortaCapuana».
http://www.comune.villafrancapiemonte.to.it/viewobj.asp?id=1437
http://www.comune.villafrancapiemonte.to.it/viewobj.asp?id=1437
Solomiac (castello di Solomiac o casa Cossul)
«A Solomiac merita una visita la Casa Cossul, appartenuta già dal XVII secolo all'omonima famiglia che svolse un ruolo primario nelle comunità di Solomiac e Fenils; è conosciuta anche come il Castello di Solomiac ed è un tipico esempio di seicentesca "casa-fortezza"; si tratta di un imponente edificio di ben quattro piani e di sotterranei a cui si accede da diverse botole ed è dotato di una facciata completamente affrescata e di una antica meridiana solare che reca impresso il motto Vita fugit sicut umbra ricordando agli uomini la brevità della vita terrena».
http://www.comune.cesana.to.it/it/il-territorio/luoghi-di-interesse.aspx
SPARONE (ruderi della rocca di Arduino)
«La Rocca di Sparone è immancabilmente legata all'epica figura di Arduino, marchese d'Ivrea (955-1015). Messosi a capo di un'opposizione antimperiale, Arduino fu incoronato re d'Italia il 15 febbraio del 1002 nella chiesa di San Michele a Pavia e successivamente ebbe assidui conflitti con gli imperatori di Germania. Il Marchese d'Ivrea ed il suo esercito si rifugiarono nella rocca di Sparone nel 1004, dove resistettero vittoriosamente all'assedio dell'esercito imperiale di Enrico II di Germania. Nel 1014 Arduino abdicò e si ritirò penitente presso l'abbazia di Fruttuaria in San Benigno, vestendo il saio benedettino, dove morì nel dicembre del 1015. L'esistenza della Rocca di Sparone, che domina la strada che porta verso l'Alta Valle dell'Orco, è anteriore all'anno 1000: è infatti già citata da Ottone imperatore come possedimento arduinico, in un'ordinanza di confisca e di donazione alla chiesa di Vercelli, anche se di fatto Arduino continuò ad esserne in possesso. Qui si svolse lo storico episodio dell'assedio subito da Arduino tra il 1004 e il 1005 dalle milizie teutoniche. La Rocca era un tempo assolutamente inespugnabile e quindi la resistenza degli arduinici e l'asprezza della stagione invernale ebbero trionfo sui soldati imperiali che, abbandonato il lungo assedio, desisterono e tornarono in Germania. Dopo la morte di Arduino, ne1 1015, si hanno notizie della Rocca ancora nel 1185 e nel 1193, come proprietà congiunta dei San Martino e dei Valperga. Dopo una breve occupazione da parte del marchese di Monferrato, la Rocca venne alienata nel 1389 al casato dei Savoia. In questi avvicendamenti il castello aveva però già subito pesanti rovine e venne definitivamente diroccato durante le lotte fra Cesariani e Francesi».
http://www.comune.sparone.to.it/?p=35
a c. di Federica Sesia
STUERDA, TEGERONE (fortezze non più esistenti)
«Tegerone faceva parte della contea purcilliana ed era un possedimento dei Biandrate. Nel 1032 in una carta Olderico Manfredi di Monferrato cede il castello all'abbazia di S. Salutore di Torino. Nel 1041 un diploma di Enrico III imperatore confermava il possesso di Tegerone al vescovo d'Asti. Anche Tegerone fu distrutto dagli astesi verso il 1250. Da quest'epoca il castello non fu più un fortilizio, ma fu ridotto a un podere feudale, che nel 1312 era di proprietà dei Savoia. Intorno al 1350 era feudo dei Solaro di Asti, da cui passò poi ai Roero, ai signori di Racconigi e infine tornò ai Solaro. Nel 1399 Tegerone fu ceduto da Bernardino di Savoia, signore di Racconigi a sua nipote Paola di Challant. Consolidato finalmente il Flandinet nel 1827 riebbe l'antico castello nel 1831 sotto l'invocazione della B. Vergine delle Grazie» - «Castello fortificato più volte menzionato in documenti medioevali, fu distrutto con Stuerda dagli astigiani attorno al 1250. Nel 1333 fu teatro dell’unica battaglia di una certa importanza combattuta sul territorio poirinese: le milizie chieresi e torinesi del principe d’Acaja sconfissero l’esercito angioino-astigiano, che lasciò sul terreno moltissimi morti, poi sepolti nei pressi della vicina cappella di San Gianetto. Ancora oggi, scavando a poca profondità, emergono teschi ed ossa di quegli antichi soldati: la spada di un ufficiale, recuperata all’inizio del Novecento, è custodita all’Armeria Reale di Torino. Del castello medioevale è rimasto soltanto un tratto del fossato, tuttora utilizzato come peschiera per l’allevamento delle tinche».
http://digilander.libero.it/scuolepoirino/alice/alicepoirinocastelli.htm - http://poirinonews.blogspot.it...
Susa (casa de' Bartolomei, borgo dei Nobili, borgo Traduerivi con torre della Colombera)
«Casa de' Bartolomei. è in piazza Bartolomei. Qui nacque Arrigo De' Bartolomei, uno dei più importanti giureconsulti medievali, citato da Dante nel XII canto del Paradiso» - «Borgo dei Nobili (sec. XIII). Fuori dalle mura si trova il "Borgo dei Nobili". Era in gran parte abitato dalla nobiltà giunta a Susa al seguito dei Savoia. Sulle facciate delle case sono ancora visibili elementi romanici e gotici. ... Borgo Traduerivi (sec. XIII). Il borgo di Traduerivi, situato fuori dalle mura urbane, a sud est della città, fra due rivi, Scaglione e Corrant (inter duos rivos) conserva tuttoggi un aspetto medioevale testimoniato dalla presenza di due castelli e di un ricetto risalenti al 1300, quando il borgo era feudo delle famiglie Ancisa e De Bartolomei. Nella borgata Colombera si trovano ancora tracce di un palazzo con torre merlata, residenza delle famiglie citate».
http://www.cittadisusa.it/ComSchedaTem.asp?Id=6634 - Id=1704 - Id=1705
Susa (castello della contessa Adelaide)
«Il Castello della contessa Adelaide sorge su un dosso roccioso che domina da sud-ovest l'abitato. È molto difficile ricostruire l'aspetto che aveva al tempo della contessa Adelaide: le numerose modifiche avvenute nel corso dei secoli, le distruzioni e i continui restauri hanno trasformato l'antica reggia in una dimora che non conserva quasi più nulla di quell'antico tempo. Il castello dei Conti di Savoia, il cosiddetto palacium, riempiegava le torri del lato occidentale della cinta muraria di origine romana (III secolo), inglobando anche nella struttura le arcate dell'acquedotto (Terme Graziane) in modo da ottenere un secondo dongione, cioè una sorta di piccolo fortino interno al castello, di pianta triangolare, caratterizzato da tre torri disposte ai vertici. Sul lato nord orientale sorgeva la parte residenziale del complesso, quella che ha subito le maggiori modifiche. Qui alloggiò Adelaide e poi i Conti sabaudi nelle loro soste in città. Nell'edificio vi erano locali di rappresentanza (aula magna, sala castri) e gli appartamenti personali del Conte e della sua famiglia (camere comitis). Al piano terra si aprivano i vani dei vari servizi, la stalla, la dispensa, la cucina e la panetteria con il forno. Nel lato meridionale del cortile sorgeva una modesta cappella con abside semicircolare rivolta ad oriente e, accanto, un piccolo campanile. Nell'inverno del 1690, quando il castello era occupato dal governatore francese imposto dal Catinat, l'area residenziale fu sconvolta da un incendio che distrusse completamente il tetto. Verso il 1750 la manica subì un'ampia ristrutturazione da cui vennero ricavati gli appartamenti necessari ad ospitare la corte di Carlo Emanuele III che si recava ad Oulx per il matrimonio del figlio Vittorio Amedeo con l'Infanta Maria Antonia. In quell'occasione, per rendere accessibile anche alle carrozze il cortile del castello, venne aperto un altro portale sulla cortina muraria del lato occidentale, collegato con un ponte sopraelevato alla via degli archi. Nonostante le parecchie ristrutturazioni subite nel corso dei secoli, il castello conserva ancora diverse tracce dell'epoca medievale, in particolare nella bella Sala delle bifore. Nell'ampio cortile le evidenti vestigia d'epoca romana di quella che doveva essere la reggia di Cozio testimoniano l'antichità del luogo. Guardando verso lo sperone volto a mezzogiorno, si possono ancora riconoscere nella facciata due bifore e una traccia di una terza da un livello più basso».
http://www.lionsclubsusarocciamelone.it/susa_castello.asp
«Le notevoli vestigia romane di Susa, capoluogo dell’omonima valle in Provincia di Torino, comprendono anche una cerchia di mura pressoché intatta, risalente nelle parti più antiche al III secolo e comprendente anche una porta urbis, la Porta Savoia, ancora integra ed utilizzata oggi. ... La cinta muraria è stata costruita per difendere Susa, porta di accesso all’Italia dal Nord-Europa, dai possibili attacchi dei barbari, probabilmente intorno al terzo secolo, secondo le evidenze archeologiche modificando l’assetto urbano preesistente. Le mura sono state costruite variando l’assetto urbano della città di Susa tagliandone fuori ampie porzioni, come ad esempio il foro. La cerchia dà alla città romana un peculiare assetto triangolare, ancora oggi dibattuto dagli studiosi. Un lavoro fatto in urgenza, come testimoniano gli ampi reimpieghi di materiale lapideo e addirittura marmi (i torsi loricati al Museo di Antichità di Torino sono stati recuperati dalla cinta segusina). La cinta muraria comprendeva cortine a sacco in muratura (pietrame), riempite con materiali di recupero e intervallate da torri di raccordo aperte sul lato interno. Il perimetro murario di Susa ha una peculiare forma triangolare, sul quale si aprivano le diverse porte di origine romana. Caposaldo della cinta doveva essere già in epoca romana il palacium che sorgeva sulla rocca della città. Facendo fare immaginariamente perno sul castello al triangolo costituito dalle mura, si può percorrere a sud il primo cateto, la cinta munita di torri lungo la zona dei Fossali (così chiamata per un antico vallo che proteggeva le mura) che culmina a oriente nella Porta di Piemonte. Sulla parte che da est va a nord, ipotenusa immaginaria del triangolo di cinta, la cerchia si avvicinava gradualmente al fiume della Valle di Susa, la Dora Riparia. Nel tratto più vicino al fiume, sullo spigolo nord-ovest, le mura fanno angolo con l’altro cateto, che va di nuovo a impostarsi sul castello e sul quale si apre la occidentale Porta Savoia.
Nel 312 Costantino conquistò la città, alleata con Massenzio. Intorno al X secolo il palacium sulla rocca dovette essere stato sostituito dal castello medioevale. Il primo recinto venne munito di altre porte fortificate da permettere le comunicazioni con l’esterno, come quella che doveva sorgere nei pressi della chiesa di Santa Maria Maggiore e della Casa dei Canonici. Sulla spianata a ovest delle mura dovette in seguito sorgere un secondo caposaldo, la torre del Vescovo, detta di S. Andrea. La cerchia di mura non racchiudeva nel medioevo il cosiddetto Borgo dei Nobili, sorto lungo di fronte alla Porta di Piemonte e probabilmente attraversato dal percorso del tumultuoso rio Gelassa. Un secondo recinto, racchiudeva gli spazi della città occupati dai nobili e probabilmente dai mercanti. Rimangono quali vestigia di un tempo che fu, antichi portali di palazzi nobiliari e una casa-forte simile per certi versi alla Casaforte di Chianocco. Rimaneggiamenti e adattamenti sono stati compiuti durante il Medioevo. Inoltre, stando alle notizie tramandate dal Settecento, l’altezza delle mura deve essere stata dimezzata da 12 a 6 metri. Analoga sorte, ma con un ribassamento meno cospicuo, ha subito la Porta Savoia, mentre in epoca imprecisata sono andate distrutte quasi del tutto le altre due porte urbane. Le mura si presentano oggi in un buono stato di conservazione per la maggior parte del loro tracciato secondo alcuni studiosi uno dei migliori esempi conservati di città fortificata gallica della tarda antichità: il perimetro murario è facilmente visibile ed in gran parte ancora in opera per lunghi tratti. La parte sud-est è stata manomessa con interventi del primo ‘900, ma i vicini “fossali” mantengono il fascino antico. Le mura aiutano il centro storico di Susa a mantenere la peculiare forma urbis medievale della città che è passata pressoché indenne attraverso i secoli, nonostante alcune ricostruzioni settecentesche abbiano fatto perdere esempi edilizi certo importanti dell’età di mezzo, come la Pieve battesimale di Santa Maria Maggiore e il collegato ospizio per i pellegrini, la domus helemosinaria della Via Francigena del Moncenisio».
http://it.wikipedia.org/wiki/Mura_romane_di_Susa
«Le porte romane di Susa sono i resti delle porte di accesso romane alla città di Segusio, attuale Susa, capoluogo dell'omonima Valle in Provincia di Torino. Risalenti al III-IV secolo, si aprono nelle mura romane di Susa e i loro resti sono visibili in tre punti della cittadina: a ovest, ove vi è il manufatto quasi completamente conservato denominato Porta Savoia, sul lato sud-ovest dove si conserva un ulteriore resto di porta nella cerchia romana, detta Porta di Francia ed a est, ove si trova una delle torri laterali della Porta di Piemonte. Essendo Susa un importante crocevia dell’antica strada delle Gallie prima e della Via Francigena poi, i nomi delle porte derivano dalle tre diverse regioni cui danno accesso: nella direzione del Nord Europa, la Savoia (che a sua volta collegava alla Francia settentrionale e alla Germania occidentale) tramite il Colle del Moncenisio, nella direzione dell’Europa del Sud-Ovest la Francia meridionale tramite il Colle del Monginevro e nella direzione dell’Italia, il Piemonte. Porta Savoia. La Porta, ottimamente conservata ed anche chiamata “del Paradiso” a causa della vicina collocazione del cimitero della Cattedrale di San Giusto, deve il suo toponimo principale alla regione transalpina verso cui dà accesso tramite il Colle del Moncenisio, la Savoia appunto. Nel tardo medioevo, epoca in cui la Porta venne utilizzata come struttura fortificata, l'accesso venne spostato nella cosiddetta Porta Merchati, sita tra la Porta Savoia e il complesso canonicale dell'antica chiesa di Santa Maria Maggiore. Porta di Piemonte. Detta nel Medioevo Porta merceriarum dalla sua collocazione nei pressi di edifici utilizzati quali magazzini dei mercanti che facevano base a Susa prima di oltrepassare il Moncenisio, o anche "di Piemonte", dando accesso alla strada a oriente della città diretta verso Torino e la pianura, conserva una delle due torri cilindriche, identica come fattura a Porta Savoia. Situata nella odierna Piazza Trento, si affacciava sulla conoide del Rio Gelassa. Il resto di una delle due torri ancora visibile oggi, alto circa tre piani e sostegno dell’attuale torre civica di Susa, è stato riscoperto negli anni ’90 demolendo un avancorpo settecentesco. Aderente alla Porta, rimane l’ottima architettura gotica della Casa de' Bartolomei, appartenente dalla famiglia di Enrico da Susa, il Cardinale ostiense ricordato da Dante Alighieri nel Paradiso. Porta di Francia. Conosciuta nell’antichità come Porta pedis castri ed anche Porta Castello, si imposta da un lato sulle Mura romane di Susa e dall’altro sullo spigolo meridionale del Castello della Contessa Adelaide, antico caposaldo del sistema fortificato cittadino».
http://it.wikipedia.org/wiki/Porte_romane_di_Susa
Susa (ruderi della fortezza della Brunetta)
«I lavori per la costruzione del Forte della Brunetta vennero iniziato nel 1708, nel quadro di un rafforzamento delle fortificazioni ai confini del Ducato di Savoia che si erano mostrate capaci, durante la guerra di successione spagnola, di essere in grado di arrestare o rallentare pesantemente le operazioni militari nemiche. Il forte fu consegnato circa 30 anni dopo la posa della prima pietra. Il sito prescelto per ospitare il nuovo forte fu uno sperone di roccia, detto altura della Brunetta, che sovrastava la cittadina di Susa situato sulla sponda sinistra della Dora Riparia, fra questo corso d'acqua e il torrente Cenischia. Con la conquista francese di Susa, nel 1690, il forte di S. Maria dimostrò tutta la sua inadeguatezza. Nel 1709 Vittorio Amedeo II affidò quindi, ad Antonio Bertola, il compito di progettare un nuovo forte che si sarebbe costruito sul rilievo della Brunetta. I primi interventi interessarono la zona occidentale della collina, dove furono creati i fronti difensivi principali. Realizzati modellando la roccia, i fronti furono caratterizzati da tre bastioni divisi da fossati e rilievi. A difesa del torrente Cenischia, sul lato sinistro dell'altura, fu costruita la Batteria Reale dove trovarono accoglienza 28 pezzi d'artiglieria. Alle spalle della linea difensiva principale fu edificato il Palazzo del Governatore, accanto al quale, nel 1774 si terminò la costruzione della cappella del Beato Amedeo. L'edificio per l'alloggiamento delle truppe, il Quartiere, vide la luce su uno spazio ricavato all'interno della collina, nella zona a nord. Se da una parte l'espediente costruttivo permise di sfruttare la naturale difesa della roccia, dall'altra l'umidità e la mancanza di luce solare resero l'edificio poco vivibile. Per l'approvvigionamento idrico si scavò un pozzo profondo 57 metri. L'acqua era attinta in un canale sotterraneo, collegato direttamente con il Cenischia. Nel 1746, nella zona orientale, verso la ridotta Catinat, si costruì un nuovo quartiere per le truppe. Nella stessa area furono realizzati gli alloggi per gli ufficiali e la polveriera. Nel 1773, nella valletta di Pradonne, tra l’altura della Brunetta e quella su cui sorgeva il S. Maria, si progettò di costruire l’ospedale del forte. Per mancanza di fondi però il progetto fu disatteso e, solo due maniche dell’ospedale, delle quattro previste, furono realizzate. Il cantiere per la costruzione del forte della Brunetta si chiuse, dopo quasi un secolo di lavori, alla fine del Settecento. Il 12 aprile 1796 Napoleone Bonaparte vinse la battaglia di Montenotte, iniziando così la prima campagna d’Italia. Al Regno di Sardegna, sconfitto, fu imposto, con la pace di Parigi, di distruggere tutte le sue opere difensive, tra cui rientrò anche la Brunetta e già nel 1798 della fortezza non rimanevano che i ruderi».
http://www.labrunetta.com/il-forte/27-la-storia-del-forte-della-brunetta.html
«Torre Civica. Collocata su una delle due torri romane formanti Porta Piemonte, attraverso la quale si accedeva al medievale "Borgo dei mercanti". ... Torre dei Rotari (sec. XIV). La costruzione della Torre dei Rotari risale al sec. XIV; fu innalzata a scopo di difesa e di vedetta dalla famiglia Rotari oriunda di Asti. Questo edificio, che doveva essere molto imponente, è in "muratura, a pianta quadrata, e delle strutture medioevali conserva solo alcune monofore e archetti pensili sotto la merlatura molto deteriorata. ... Torre del Parlamento. La Torre del Parlamento si trova nel cuore commerciale della vecchia Susa, in un angolo di Via dei Mercanti (attuale via Francesco Rolando). È una torre massiccia e robusta, ora un po' degradata, ma si possono ancora notare due serie di archetti pensili, una monofora leggera e, sulla sommità, dei merli».
http://www.cittadisusa.it/ComSchedaTem.asp?Id=20691 - Id=1703 - Id=21080
«Già nominato nel 1141 in una bolla papale di Innocenzo II, appartenne anticamente per secoli ai nobili Ternavasii di Carmagnola, dai quali proviene il toponimo. Fu acquistato nel 1200 dai marchesi di Saluzzo che lo cedettero, nel 1308 agli Isnardi De Castello signori di Valfenera dai quali passò, nel 1383, ai Roero per 1.500 fiorini. Questi ultimi, detti anche Rotari o Roveri, tennero il feudo con titolo baronale per oltre quattro secoli, attraverso i Roero di Pralormo ed i Roero Blancardi della Turbia, ramo nizzardo dei Roero astigiani. Nel 1803 il tenimento di Ternavasso, che apparteneva al territorio di Carmagnola, venne assegnato al Comune di Poirino. Era di 2.633 giornate, con una popolazione di 250 abitanti. Nel 1814 passò in eredità al marchese Giuseppe Alessandro Thaon di Revel e di Saint Andrè, fondatore in quello stesso anno del corpo dei Carabinieri: è sepolto, come i suoi successori ed eredi, nella chiesa della frazione, parrocchiale fino al 1986. Il casato dei Thaon, tra i più illustri del Nizzardo, aveva ottenuto le prime lettere di nobiltà dal duca Carlo Emanuele I all’inizio del Seicento. Il castello, dove nella parte rimasta in piedi alloggiava il curato, risale al Trecento. Fu distrutto per tre quarti nel 1544 durante la battaglia di Ceresole, vinta dalle truppe francesi sull’esercito imperiale spagnolo che lasciò sul terreno 12.000 morti e 3.000 prigionieri» - «Il Castello, del quale rimane solo una parte della costruzione, venne innalzato nel XIV secolo, per volere dei Signori di Roero che erano entrati da poco in possesso del feudo. Fu distrutto per tre quarti nel XVI secolo, durante una sanguinosa battaglia tra le truppe francesi e l’esercito imperiale spagnolo. Due torri merlate separate da un corpo centrale, è tutto ciò che rimane del trecentesco castello, la cui mole versa ormai in stato di abbandono e parzialmente in rovina. Esternamente la costruzione presenta un rivestimento in laterizio con cornici in aggetto e semplici elementi decorativi determinati dalla diversa disposizione dei mattoni in aggetto. La forma delle finestre e la loro distribuzione non sono regolari; da ciò si deduce che l’edificio abbia subito, nel corso dei tempi, una serie di rifacimenti del tutto casuali. Gli elementi architettonici più caratteristici e ben conservati sono i merli guelfi delle due torri, posti di sbalzo, cioè sporgenti in avanti, sorretti da mensole di forma piramidale. Particolare interessante e curioso è la presenza di un grande camino il cui rilievo è evidente sul lato esterno della torre più alta; la balconata antistante è purtroppo completamente in rovina».
http://poirinonews.blogspot.it/p/castelli-e-monumenti.html - http://digilander.libero.it/scuolepoirino/alice/aliceternavassocastello.htm
Ternavasso (palazzina di caccia)
«La settecentesca palazzina di caccia di Ternavasso sorge poco lontana dal Castello medioevale. Essa fu dimora dei Roero-Blancardi e dei Thaon di Revel. è circondata da un ampio parco, a sua volta arricchito da un lago artificiale, esistente già dal Seicento. L’edificio presenta la struttura delle regge d’oltralpe: si sviluppa su un tracciato orizzontale che si inserisce armonicamente nel verde dei boschi e della campagna. Si compone di un corpo centrale che emerge esternamente sulla facciata nord, creando quel movimento di superfici tipico dell’architettura barocca; e di due parti laterali rettilinee che si dispongono simmetricamente rispetto all’asse centrale e terminano con due torrette. Il nucleo centrale della costruzione, più antico, risale probabilmente al Seicento. La Palazzina risulta oggi divisa in più piani, ma bisogna tenere presente che in origine l’edificio era più basso e che la costruzione dei piani superiori risale a tempi più recenti. Gli appartamenti padronali e le sale di rappresentanza occupano il piano rialzato, chiamato perciò “nobile”. Ha un’elegante facciata, semplice e simmetrica, ed un imponente salone d’entrata centrale, fregiato delle armi di alleanza dei Blancardi e dei Saint’Andrè. La facciata è ripartita da lesene e ampie finestre, disposte con regolarità, che esaltano con il loro ritmo le dimensioni dell’edificio. La decorazione esterna è arricchita da una serie di trofei che richiamano la caccia, attività molto amata dai nobili del Settecento. Una volpe in bronzo campeggia sulla sommità, al di sopra del salone d’ingresso, e simboleggia la funzione dell’edificio che, oltre ad essere residenza signorile, doveva essere sede di ritrovo per le battute di caccia. Questa era un’attività tutt'altro che secondaria se si pensa che nel Settecento e nell’Ottocento era occasione di incontri mondani tra i ricchi aristocratici del tempo. In questa Palazzina fu ospite più volte, nel secolo scorso, Vittorio Emanuele II, che amava venire a caccia in questi boschi. Vi soggiornarono molti altri personaggi importanti, tra cui Vittorio Emanuele III nel 1940. Negli anni Cinquanta, Mario Soldati vi girò alcune sequenze d’esterno per il film “Guerra e Pace”».
http://digilander.libero.it/scuolepoirino/alice/aliceternavassopalazzina.htm
TESTONA (castello di Castelvecchio)
«Castelvecchio sorge su un'altura all'incrocio fra la strada S. Michele e la strada Castelvecchio a quota metri 360, su una scoscesa propaggine collinare delimitata da due rii denominati di Castelvecchio l'uno e dei Negri l'altro. Mentre l'indagine archeologica di superficie (condotta dal Gruppo Archeologico Torinese in collaborazione e sotto il controllo della Soprintendenza Archeologica del Piemonte) ha provato che l'area sulla quale poi sorse il castello medievale fu intensamente frequentata tra la fine dell'età del Bronzo e tutta l'età del Ferro, non vi sono prove della presunta costruzione di un castrum in epoca romana; certo esso risale ad un periodo ben anteriore al Mille, dal momento che nei documenti medioevali è già chiamato "castrum vetus". La prima attestazione documentaria della esistenza di Castelvecchio è contenuta in un diploma datato 1037 con il quale il vescovo di Torino Landolfo, nel disporre la fondazione dell'abbazia di S. Maria di Cavour, ricorda i danni subiti dalla sua diocesi negli anni precedenti ed elenca le provvidenze da lui messe in atto "post multas denique lacrimas et suspiria". Il documento, nell'edizione curata dal Gabotto, così dice testualmente: "Castrum denique Testone muris cinxit". Il castello fu dimora prediletta del vescovo di Torino fino al 1248 quando, dopo sanguinose lotte, fu da Federico II concesso in feudo a Tommaso II di Savoia. Nel tempo, i Savoia lo infeudarono a varie casate, sino alla fine del Settecento. Tra i feudatari ricordiamo il conte Filippo Vagnone che restaurò il castello nel 1490 trasformandolo in propria residenza e luogo per villeggiatura. Nel XVII e nel XVIII secolo l'edificio venne adibito a convento da parte dei padri Sacramentini. Castelvecchio è attualmente un condominio, frazionato in vasti e lussuosi appartamenti. La costruzione si presenta come un corpo di fabbrica quadrangolare, con due torrioni cilindrici, posti sugli angoli sud-est e nord-est. L'odierna sistemazione è senz'altro ben lontana da quella del castello riedificato da Landolfo nel 1037, dell'aspetto del quale non abbiamo notizia alcuna. A parte le ultime aggiunte, la maggior parte del complesso attuale è databile al tardo secolo XV.
Filippo Vagnone fu l'autore del primo restauro, intorno al 1490 (come era ricordato da una lapide già murata in questo castello ed ora conservata al museo Civico di Arte Antica a Torino). Subì interventi la cappella di San Martino ad aula unica e volta a crociera collocata nella torre antica a sud-est. Anche la trasformazione del cortile in un'ampia corte porticata, formata da arcate ogivali a tutto sesto in laterizio, sorretti da esili colonne in pietra locale è dovuta all'umanista piemontese; ancora all'intervento del Vagnone si devono le finestre a crociera decorate da cornici di terracotta, le tonde cornici in cotto contenenti ceramiche colorate, di gusto dellarobbiano, e i busti di imperatori romani. Ulteriori modifiche sopravvennero nel XVII e nel XVIII secolo, quando l'edificio venne adibito a convento. Il fronte di ponente si presenta come un grande fabbricato a tre piani con muro rafforzato da 5 grossi speroni, con file di finestre tra le quali sussistono delle caditoie; in alto si trovano alcuni abbaini mascherati da pseudo-merli. L'interno presenta sale dal soffitto voltato a crociera. L'accesso è possibile solo dal lato sud; gli altri tre sono infatti posti quasi a strapiombo sulla vallata circostante. La parte più antica è quella meridionale, prospettante verso Testona, con un torrione cilindrico del secolo XI, nel quale, secondo l'Olivero, si scorgevano pezzi di laterizio e mattoni interi di origine romana. Il lato settentrionale fu rimaneggiato in gran parte all'inizio di questo secolo e la torre, ad imitazione dell'antica, è stata costruita solo nel 1907 per accogliervi una cappella. La parte dell'attuale giardino, prospiciente il lato sud dell'edificio è stata spianata, distruggendo la conformazione originaria del sito. Sul lato ovest si trova una sala interrata, anch'essa con soffitto voltato a crociera, che dà direttamente sul giardino. Il castello ha perduto la sua caratteristica quattrocentesca di piccolo museo privato dei Vagnone: la maggior parte dei marmi romani ed altomedievali, posti sul portone d'ingresso ad ovest, così come le terrecotte che ornavano il cortile porticato e i busti romani un tempo posti nel giardino, sono stati da tempo asportati e ora sono conservati nel magazzino dei Musei Civici di Torino».
http://www.archeogat.it/zindex/Mostra%20Collina/collina%20torinese/pag_html/CVAmedie.htm
«Questo edificio, felicemente restaurato tra il 2000 e il 2002 dopo secoli di incuria, conserva l'unica torre medievale ancora visibile a Torino, per quanto mascherata da una successiva copertura. Nel XVI secolo qui ebbe dimora urbana l'erudito Emanuele Filiberto Pingone, autore nel 1577 della prima storia di Torino, dal titolo Augusta Taurinorum, alla quale venne allegata la piantina disegnata cinque anni prima dal fiammingo Carracha (la prima mappa che raffiguri Torino in modo sufficientemente preciso, seppure non sia priva di errori). Gli imponenti restauri hanno permesso di ricostruire in parte la fisionomia originaria dell'edificio medievale e rinascimentale, riconoscendo le addizioni barocche e ottocentesche (verso via Egidi), evidenziando le antiche finestre in cotto del XVI secolo (tra le quali una a crociera – o “guelfa” – quasi completa), scoprendo e ripristinando il loggiato dell'ultimo piano, recuperando soffitti lignei e decorazioni murarie, individuando tracce dell'antico colore rosso della facciata e, infine, rintracciando nei sotterranei elementi di abitazioni di epoca romana».
http://www.archeogat.it/torinomedievale/percorsoTAPPE/08MONpingone.htm
«Il Castello del Drosso sorge all'estrema periferia meridionale di Torino, nel quartiere Mirafiori Sud, quasi al confine coi comuni di Nichelino e Beinasco. Nessuna cronaca tramanda l'anno di costruzione della prima struttura fortificata nella zona del Drosso. Per lungo tempo gli edifici del Drosso dovettero essere una grangia ben fortificata, con mura robuste, sorte forse intorno alla corte quadrata di una più antica ed ipotetica villa romana. Verso il 1233 al Drosso giunsero i monaci benedettini cistercensi, provenienti dalla già potente Abbazia di Staffarda. L'operosità dei benedettini creò prosperità e diede avvio al Drosso a numerose attività, quali la sartoria, la conceria, la mascalcia, la calzoleria, il mulino, il forno. Al Drosso i monaci di Staffarda continuarono a curare l'ingrandimento dei propri beni fino a quando, dopo alterne vicende politiche e, forse, anche a causa di continue contese, il 21 maggio 1334 l'abate di Staffarda vendette la grangia del Drosso e tutti i suoi beni a Corrado di Gorzano. Dopo questa vendita la grangia del Drosso fu trasformata in castello. La struttura fortificata del Drosso si presenta oggi quadrilatera, con torri ai quattro angoli, che dovevano un tempo essere munite di merli. Unite al castello vi sono due cascine; una di esse, posta sul fianco orientale, conserva ancora oggi una torre di vedetta e presenta alcune murature a lisca di pesce, caratteristiche del XIII secolo. Nel 1496 alterne vicende portarono al frazionamento del castello in quattro parti e alla sua divisione fra più proprietari. Nel 1539 Guglielmo Gromis di Trana acquistò gran parte dei frazionamenti, che da quel momento rimasero per secoli in proprietà della famiglia Gromis. Dal 1539 il castello del Drosso diventò residenza di campagna delle nobili famiglie che frequentavano la corte ducale della vicina reggia di Miraflores, la cui ricchezza fece trascurare il Drosso, che venne così risparmiato da guerre e saccheggi. Il discendente Carlo Gromis di Trana nell'Ottocento comperò i lotti del castello del Drosso non ancora in proprietà della famiglia e restaurò l'intero castello. Durante l'occupazione nazista il castello fu costretto ad ospitare il comando "Torino Sud" dell'esercito tedesco. Il Castello del Drosso è proprietà privata e non è aperto al pubblico».
http://www.parcopotorinese.it/pun_dettaglio.php?id_pun=1013
Torino (castello e borgo del Valentino: il Medioevo immaginario)
a c. di Federica Sesia
«All’imbocco del lungo corso Galileo Ferraris sorge la Cittadella di Torino, baluardo simbolo della resistenza del ducato di Savoia nella Guerra di successione spagnola. La fortificazione voluta dal duca Emanuele Filiberto è stata eretta a difesa urbana dopo lo spostamento della capitale del ducato da Chambery a Torino. La posa della prima pietra avviene nel 1564 ma i lavori sono completati solo nel 1577. Il progetto realizzato dall'architetto urbinate Francesco Paciotto è ispirato ai sistemi difensivi dell’epoca teorizzati da Francesco Di Giorgio Martini. Situata sul lato a sud-ovest di Torino, la Cittadella ha pianta pentagonale, possenti bastioni ed è circondata da un ampio fossato privo di acqua. Al centro è situato un pozzo a doppia rampa elicoidale per permettere il rifornimento idrico in caso di assedio. A inizio ‘800, quando Napoleone ordina la demolizione delle mura della città, decide di risparmiare la Cittadella riconoscendone la qualità architettonica. L'evoluzione delle tecniche d'assedio nel corso dell'Ottocento porta la Cittadella all'obsolescenza, che viene quindi degradata a semplice caserma. Nel 1856 la fortezza ormai fatiscente viene demolita. Solo il Mastio viene risparmiato, tutt'oggi esistente e adibito a Museo Nazionale dell'Artiglieria» - «Nel 1568 si aprì la nuova fortezza di Torino: la Cittadella. Era un’opera di difesa veramente mastodontica e fu costruita a tempo di primato dall’ingegnere Francesco Paciotto da Urbino. Un secolo dopo, Antonio Bertola ne aumentò la potenza difensiva con altre opere, sia interne che esterne. Il primo comandante, Giuseppe Caresana, aveva l’ordine, alla sera, dopo la chiusura delle porte, di ritirare anche la chiave di altre fortificazioni, come quella di Porta Susina. Ricordiamo che la consegna avveniva tramite un filo metallico teso tra una torre della porta Susina ed il mastio. Buona parte della storia della città è legata a quella di questa fortificazione e si snoda attraverso alterne vicende di assedi, vittorie e momenti di grande eroismo come quello di Pietro Micca, fino al momento dell’abbattimento definitivo avvenuto perché ormai non era più necessaria alla difesa della città. L’abbattimento, ultimato nel 1862, permise un nuovo grande sviluppo della città verso ovest. All’interno della Cittadella vi era anche il carcere. “Il maschio serviva altre volte da prigion di Stato per uomini di rilevata condizione, e fu perciò testimonio di lunghi dolori, e secondo la tristizie dei tempi, anche d’inestimabile crudeltà”. Le testimonianze che sono state trovate ci dicono che doveva essere un carcere molto duro. Il compito dei soggiorni alla Cittadella era quello di piegare la volontà degli oppositori del governo. Erano, sicuramente, carceri sotterranee; si hanno molte relazioni sul problema dell’umidità del luogo e sul trattamento molto duro riservato ai carcerati da parte del personale di guardia».
http://www.flytorino.it/ita/torino/monumenti.asp - http://www.detenzioni.eu/carcere_cultura_storia...
Torino (forte Pastiss della Cittadella)
«Completata la costruzione del corpo di piazza della Cittadella, nel 1572 è dato avvio al progetto, poi non completato, di dotare i bastioni rivolti verso alla campagna di difese esterne nella forma di complesse casamatte. Il contratto per l’esecuzione della casamatta, progettata da Ferrante Vitelli ([1550]-1584) dentro il fossato di fronte al vertice del bastione San Lazzaro, risale al 25 gennaio 1572. L’opera, conclusa nel 1574, presenta il fronte esterno a profilo trilobato, formato da una spessa muraglia, di 2,80 metri di spessore, nella cui fondazione è ricavata una galleria di contromina con funzione di dispersione dell’onda d’urto di una mina lungo i suoi 140 metri di sviluppo ed espulsione dei prodotti gassosi dell’esplosione attraverso 15 pozzi aperti nella volta a botte. L’interno della sezione in elevato della costruzione è suddiviso in due livelli, due lunghi ambienti coperti con volta a botte che riprendono il profilo del fronte principale dell’opera, a loro volta suddivisi in compartimenti corrispondenti ad ognuno dei tre lobi, separati da muraglie dotate di feritoie per la difesa interna. Dal piano superiore, per mezzo di apposite caditoie, è possibile difendere quello inferiore nel caso di infiltrazione di elementi nemici. Entrambe le pareti esterne dei due livelli sono forate da feritoie incrociate, per la difesa del fondo e del ciglio del fosso. Il fronte di gola è invece dotato di cannoniere per il tiro rovescio con lo scopo di nettare il fossato ai piedi delle muraglie del bastione San Lazzaro. Alcuni pozzi, praticati nel cortile interno, garantiscono il ricambio rapido dell’aria e un minimo di illuminazione. Le comunicazioni interne fra i vari livelli e la batteria a tiro rovescio sono garantite da scale in muratura.
La fase settecentesca. L’opera comunica con la Cittadella per mezzo di un’ampia galleria che dal vertice ovest della casamatta, dopo aver attraversato il fossato (che difende per mezzo di feritoie aperte nel piedritto ovest) e il terrapieno del baluardo, sbocca all’interno nel corpo di piazza. L’opera, mai coinvolta in azioni belliche, è la sola fra quelle previste nel piano originario di Emanuele Filiberto a essere realizzata. Nel 1705 è incorporata nella nuova controguardia di Antonio Bertola (1647-1719); la fondazione del fronte principale e la contromina sono perforate in corrispondenza della bisettrice del lobo centrale per la costruzione della galleria capitale bassa del bastione San Lazzaro. Dopo la demolizione della Cittadella nel secondo Ottocento, i suoi spazi interni sono utilizzati, dopo l’apertura di apposite brecce nei voltoni, come discarica per i materiali di risulta dei cantieri edili dell’epoca. Il secondo Novecento. La contromina cinquecentesca è in parte riattivata come rifugio di P.A.A. (Protezione Anti Aerea) durante la seconda guerra mondiale e nuovamente abbandonata. Riscoperta nel 1958 da Guido Amoretti (1920-2008) e Cesarino Volante, dal 1976 è oggetto di un cantiere permanente di scavo e recupero gestito dal Gruppo Scavi e Ricerche dell’Associazione Amici del Museo Pietro Micca, coordinato dalla Direzione del museo e sotto la direzione scientifica degli enti preposti alla tutela del patrimoni storico-archeologico. L’opera, di cui si conserva gran parte delle strutture, è ubicata al di sotto dei due isolati lungo il lato nord di corso Matteotti compresi fra corso Galileo Ferraris e via Amedeo Avogadro».
http://www.museotorino.it/view/s/ca52edaf595145a89e459f38f5e870bd
«Il Palazzo Carignano è sorto per volontà di Emanuele Filiberto di Savoia-Carignano, su progetto del padre teatino Guarino Guarini che ne ha iniziato la costruzione nel 1679. È uno dei più suggestivi ed imponenti palazzi del Seicento italiano, con facciata sinuosa e rivestimento in semplice mattone, preziosamente e originalmente lavorato. L'edificio era sorto nell'area adibita a scuderie dal principe Tommaso, capostipite del ramo cadetto Savoia-Carignano, ed aveva in origine una pianta a C aperta sui giardini; l'attuale struttura quadrangolare è dovuta all'aggiunta del corpo di fabbrica ottocentesco costruito per ospitare il Parlamento italiano, e terminato nel 1871, dopo lo spostamento della capitale a Roma. Il salone centrale ellittico situato nella parte seicentesca, già destinato alle feste, era stato trasformato nel 1848 in aula del Primo Parlamento Subalpino. Il Palazzo ospita nelle sale del piano nobile il Museo Nazionale del Risorgimento Italiano e al piano terreno la Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici del Piemonte. Riaperto al pubblico, grazie al sostegno della Compagnia di San Paolo, nel 2011 con una mostra dedicata a Stefano Maria Legnani detto il Legnanino, il valente pittore che fra fine Sei e inizio Settecento ne ha decorato gli interni, dopo mezzo secolo è attualmente fruibile con un percorso stabile di visita all’appartamento di Mezzogiorno, detto anche dei Principi. Si tratta di un percorso concepito ‘in divenire’, destinato cioè ad ampliarsi e arricchirsi man mano che le indagini avviate dalla Soprintendenza, con l’apporto anche di studiosi esterni, aumenteranno il livello di conoscenza sul palazzo, sulle vicende e sui personaggi che lo hanno abitato».
http://www.artito.arti.beniculturali.it/museum.php?museum=3
Torino (palazzo Madama, Casaforte degli Acaja)
«Palazzo Madama e Casaforte degli Acaja, situato nella centralissima piazza Castello, è un complesso architettonico dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. Il Palazzo sorge su quella che, al tempo dell'antica Roma, era chiamata Porta Decumana, inglobata via via nel castello che ivi stava sorgendo. Agli inizi del I secolo la Porta Decumana era la via d'accesso alla città dal lato del Po, che doveva essere accuratamente difeso. A seguito della caduta dell'Impero Romano, la porta è stata trasformata in un fortilizio mantenedo in ogni caso l'originaria funzione di varco. Il fortilizio nel XIII passò ai marchesi di Monferrato e con molta probabilità fu il luogo dove venne siglato il trattato tra Guglielmo VII del Monferrato e Tommaso III di Savoia che prevedeva la liberazione del primo e la cessione di Torino dagli Aleramici ai Savoia. La fortificazione passò nelle mani dei Savoia-Acaja che nella prima metà del XIV secolo lo trasformarono in castello. Un secolo dopo Lodovico Acaja fece assumere alla struttura la forma quadrata con corte, portico e quattro torri cilindriche angolari. è importante ricordare che il Castello degli Acaja nei secoli ebbe sempre un ruolo di secondaria importanza per diversi motivi, quali la lontananza dalla vera capitale della contea e del ducato, Chambéry, e per la sua posizione marginale anche nei dominî piemontesi. Al termine della dinastia degli Acaja il castello divenne la residenza temporanea del duca e alloggio preferito dagli ospiti di Casa Savoia, tra di essi, ricordiamo Carlo VIII di Francia e Emanuele Filiberto di Savoia.
Palazzo Madama fu anche sede di spettacoli e di rappresentazioni, atti a celebrare grandi eventi come il matrimonio di Carlo Emanuele I di Savoia, nel 1585. Nel 1637 la reggente del duca Carlo Emanuele II di Savoia, Maria Cristina di Francia, trasforma il castello in una sua residenza, per cui commissionò importanti lavori ristrutturali, come la copertura della corte e l'ammodernamento degli appartamenti interni. Sessant’anni dopo Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours si insedierà nel palazzo conferendogli l'aspetto attuale. I lavori di restauro furono commissionati a Carlo ed Amedeo di Castellamonte, assieme al pittore Guglielmo Caccia. Il progetto di Filippo Juvarra circa la costruzione di un magnifico palazzo barocco in pietra bianca non fu mai concluso, non a caso dopo il completamento dello scenografico ingresso non si fece nient’altro. L’opera di Juvarra è caratterizzata da un piano a bugnato su cui si eleva un corpo con grandi finestroni scandito da colonne e lesene d'ordine composito che sorreggono una trabeazione scolpita sormontata da un'elegante balaustra decorata con vasi e statue in marmo bianco. All’interno la luce penetra dalle finestre site sui tre lati e presenta quattro colonne centrali che sorreggono la volta della scala monumentale che conduce al piano superiore. Dopo il ritorno dei Savoia a Torino il Palazzo divenne sede dei Comandi Militari. Nel 1822 venne adibito ad osservatorio astronomico. Carlo Alberto trasformò la struttura in sede della Pinacoteca Regia e successivamente del Senato Subalpino e quindi della Corte di Cassazione. Dal 1934 ad oggi il palazzo è sede del Museo Civico d'Arte Antica con importanti opere d'arte».
http://www.byitaly.org/it/Piemonte/Torino/Torino/Palazzo_Madama_e_Casaforte_degli_Acaja
«Aulico luogo di rappresentazione e centro di potere della Dinastia Sabauda, il Palazzo Reale offre la possibilità di scegliere tra differenti percorsi di visita attraverso i quali conoscere la storia e gli splendidi tesori custoditi all’interno della residenza. Ricchi soffitti barocchi in legno intagliato e dorato, fastosi arredi, arazzi, dipinti allegorici, ritratti, antiche porcellane orientali e una preziosa collezione di orologi, raccontano la storia plurisecolare di questo Palazzo già progettato a fine Cinquecento da Ascanio Vittozzi, architetto ducale alla corte di Carlo Emanuele I di Savoia. Nel primo Seicento l’edifico era collegato all’attuale Palazzo Madama grazie alla Grande Galleria, mentre Piazza Castello, teatro di feste e di grandi apparati di corte, andava assumendo un nuovo assetto grazie alla sistemazione delle cortine d’affaccio, risolta con edifici porticati dalle facciate uniformi. I lavori proseguirono durante la reggenza della prima Madama Reale, Maria Cristina di Francia, sotto la direzione di Carlo di Castellamonte e di Carlo Morello, autore dello “sbianchimento” della facciata e del progetto di costruzione del Padiglione per l’ostensione della Sindone che delimitava l’area della “Piazzetta Reale” e sostituito, nel corso del XIX secolo, dalla cancellata del Palagi tuttora esistente. In questi anni si procede all’arredo e alla decorazione delle sale di parata al primo piano, sul lato verso la piazza, secondo un preciso programma iconografico dettato dal retore di corte Emanuele Tesauro. Nel 1667 Guarino Guarini avvia la costruzione della Cappella della Sindone. in collegamento con la manica ovest del Palazzo. rispondente ad un chiaro intento simbolico della corte che negli anni del Ducato di Vittorio Amedeo II ricerca una sempre più precisa collocazione nella politica e nella cultura contemporanea. Risponde a queste esigenze anche la scelta di chiamare a Torino il pittore Daniel Seiter che apporterà nella città subalpina le innovazioni culturali di ambito romano, così come farà in seguito l’architetto messinese Filippo Juvarra, sapiente coordinatore dell’ornamentazione di Palazzo Reale e artefice della “nuova “ zona di comando della capitale dello Stato Sabaudo. divenuto Regno nel 1713. Nel contempo si sviluppa il programma di sistemazione del Giardino affacciato sul Bastion Verde.
André le Nôtre amplia l’antico impianto del Duparc aggiungendovi sei bacini d’acqua e viali disposti a raggera: il gruppo statuario dei Tritoni collocato ad ornamento dell’ultimo bacino superstite risale a metà Settecento ed è opera di Simone Martinez.Durante il regno di Carlo Emanuele III, salito al trono nel 1730, diviene primo pittore di corte Carlo Francesco Beaumont, abile interprete di soggetti mitologici e allegorici, mentre diviene primo architetto Benedetto Alfieri che definisce gli apparati decorativi degli ambienti del secondo piano e rinnova alcune sale di rappresentanza. Trascorso il periodo della dominazione napoleonica. Carlo Alberto intraprende una cospicua serie di interventi dal respiro neoclassicista coordinati da Ernest Melano e Pelagio Palagi. Con il trasferimento della capitale da Torino a Firenze e poi a Roma. il Palazzo perde progressivamente le sue funzioni di residenza per aprirsi al pubblico sia come Museo, sia come Palazzo da Uffici: in quest’ottica nel 1911 Emilio Stramucci realizza a “Manica Nuova” nei pressi dell’area archeologica costituita dal Teatro Romano e dalle Torri Palatine. Salendo attraverso il monumentale Scalone d’Onore, celebrazione della dinastia sabauda, si giunge al Primo Piano Nobile dove si trovano le sale di rappresentanza, ambienti che un tempo ebbero una funzione ufficiale e che oggi ci permettono di scoprire l’elegante intervento palagiano: dal marmoreo Salone d’onore alla Sala del Trono. attraversando la neobarocca Sala da Pranzo per giungere in quella stile impero dedicata alle danze. senza dimenticare la Scala delle Forbici e il Gabinetto Cinese. capolavori creati dallo Juvarra. A rotazione, durantel’anno, il Palazzo apre le porte e svela altri tesori: le Cucine Reali nel piano interrato; l’Appartamento di Madama Felicita e l'Appartamento del Re al Piano Terreno; La Cappella Regia, le Tribune Reali e la Sacrestia della SS. Sindone al Primo Piano; l'Appartamenti dei Principi di Piemonte al Secondo Piano. ...
La composizione attuale del Palazzo Reale di Torino è frutto di un articolato sovrapporsi di componenti architettoniche e decorative realizzate a ragione delle necessità funzionali e degli aggiornamenti del gusto. La committenza sovrana - da Emanuele Filiberto sino a Vittorio Emanuele III - trova concreta espressione attraverso l’opera di ingegneri e architetti che lungo i quasi quattro secoli d’uso della residenza interpretano le volontà regie quando annullando gli allestimenti precedenti quando sovrapponendosi gli uni agli altri in uno stupefacente rimando di funzioni e di stili che compongono il fascino del vissuto di questa grande dimora. Ascanio Vittozzi, Maurizio Valperga e Carlo Morello, Guarino Guarini. Filippo Juvarra, Benedetto Alfieri,Giovanni Battista Piacenza e Carlo Randoni, Ernest Melano, Pelagio Pelagi, Domenico Ferri e infine Emilio Stramucci rappresentano in sequenza, ciascuno per il proprio tempo, l’idea di sovranità e di potere assoluto dei sovrani sabaudi che sentirono costantemente l’esigenza di affermare e di comunicare la propria versione della loro maestà. Il trasferimento della capitale del ducato da Chambery a Torino, nel 1563, conferisce alla città un ruolo centrale nel governo del territorio sabaudo “al di qua delle Alpi”. Emanuele Filiberto dispone gli apparati di difesa nella Cittadella e quelli di rappresentanza nel Palazzo del Vescovo, nel settore sud-ovest dell’attuale complesso. Qui il Duca avvia la realizzazione della propria residenza, ma è il suo successore Carlo Emanuele I che nel 1584 affida ad Ascanio Vittozzi da Orvieto l’incarico di erigere il “Palazzo nuovo grande”: l’incarico al Vittozzi gli viene attribuito a seguito di un concorso al quale “molti altri valenti uomini della professione”erano stati chiamati “da diverse parti d’Italia”. Il progetto fu aggiornato a più riprese, costruito velocemente (già nel maggio 1586 si stipulano i contratti per la facciata di pietra) ma mai portato a compimento.Dopo la lunga “guerra dei cognati” che dilania il ducato all’indomani della morte del Duca. Cristina di Francia, reggente in nome del figlio Carlo Emanuele (futuro Carlo Emanuele II), affida a Maurizio Valperga il cantiere con l’incarico di ridisegnare la facciata da porre a sipario delle costruzioni già esistenti; l’architetto disegna un fronte altamente rappresentativo a due piani. dove le alte finestre sono inquadrate tra lesene giganti binate. ...».
http://www.ilpalazzorealeditorino.it/STORIA/Storia... - ...Con=19
«Risale al I-II secolo d.C. e rappresenta, nel suo genere, uno dei monumenti meglio conservati di tutto il mondo romano. Si tratta di una robusta costruzione in laterizio, dalla facciata scandita da due ordini di finestre, alternate da trabeazioni e lesene, fiancheggiata da due torri poligonali a sedici lati alte trenta metri. Nella facciata si aprono quattro fornici, due maggiori per il transito dei carri e due minori per il passaggio dei pedoni. Tutto l'interturrio è segnato orizzontalmente da una fascia marmorea inserita per motivi estetici, o forse per porvi un'iscrizione poi mai eseguita. Dietro la facciata si appoggiava un edificio a pianta quadrata (la statio, ossia una caserma), del quale si vedono solo le fondamenta, che ospitava il corpo di guardia. Questa tipologia era probabilmente comune anche alle altre tre porte principali della città romana. Usata anche dopo la caduta dell'impero romano, la porta conservò nel tempo la funzione di palazzo-fortezza, fino al medioevo inoltrato. Il nome ad essa attribuito di porta Palazzo - nome in seguito acquisito dalla porta medievale aperta al termine della vicina contrada di S. Michele, oggi via Milano, e poi dall'intera zona, oggi contraddistinta dalla grande area destinata a mercato - ne testimonia l'importanza e la conservata funzione di edificio. Nel corso del medioevo la costruzione cambiò diverse volte nome. Nell'XI secolo viene chiamata porta Turrianica e nel seguente porta Doranica (lo studioso ottocentesco Carlo Promis cita documenti del 1124 e del 1188), porta Vercellina e infine soltanto porta Palatii. Benché l'edificio venisse chiuso al traffico già nel XVI secolo, sotto il ducato di Emanuele Filiberto, il Promis ci informa che era ancora usata all'inizio del '700, attraverso la sola "passata di levante, essendo sin dai remotissimi tempi murata l'altra colle due minori". Già nel basso medioevo, infatti, la porta più importante a settentrione era diventata quella detta di San Michele (aperta al termine della contrada omonima, l'attuale via Milano). I definitivi restauri del vetusto edificio, ordinati sin dal 1860, durarono, a riprese alterne, fino al 1934. Durante i lavori furono tra l'altro abbattuti, perché ritenuti "anacronistici", i merli ghibellini a coda di rondine (eretti nel XV secolo sulle torri romane) e venne asportato il tondo in stucco con la scritta "IHS"(la cui sistemazione nell'interturrio risaliva al 1511), poi conservato al Museo Civico di Arte Antica».
http://www.archeogat.it/torinomedievale/percorsoTAPPE/07MONportapalatina.htm
«Risale all'epoca romana l'edificazione di una torre [tonda] al bivio tra la strada romea ed una seconda strada che portava in Valchiusella: da essa il paese ha tratto il proprio nome. Nella parte più alta del paese è posto un castello la cui edificazione risale ai tempi di re Arduino: il secondogenito di Arduino, Guidone (?-1037), visse nel castello sino al 1018, quando fu eletto marchese d'Ivrea. Il paese è citato per la prima volta in un documento dell'XI secolo dove compare col nome di Turre Canepitii; a quel tempo esso già apparteneva al feudo dei conti di San Martino, famiglia nobiliare che ha segnato ampiamente le vicende storiche del Canavese. Si è conservata la torre del ricetto, con la porta che consentiva di accedere alla parte fortificata attorno al castello destinata alla custodia dei beni della comunità ed alla difesa in caso di attacco nemico. La reggenza del feudo fu tenuta per secoli dai conti di San Martino, vassalli di Casa Savoia. Ad uno dei cadetti di tale dinastia si deve la costruzione, verso la metà del XVI secolo di una dimora nobiliare, detta il Palazzo, che si erge nei pressi del castello. Oggi il castello, che ha subito nel tempo progressive trasformazioni e ammodernamenti, è proprietà dell'antiquario e mercante d'arte Marco Datrino. Alla sua iniziativa si devono una serie di mostre prestigiose che hanno dato notorietà al paese. ...».
http://it.wikipedia.org/wiki/Torre_Canavese
TORRE CANAVESE (torre del ricetto)
«Il paese è citato per la prima volta in un documento del secolo XI dove compare col nome di Turre Canepitii; a quel tempo esso già apparteneva al feudo dei conti di San Martino. Si è ben conservata la trecentesca Torre del ricetto, a pianta quadrangolare, con la porta che consentiva di accedere alla parte fortificata attorno al castello destinata alla custodia dei beni della comunità ed alla difesa in caso di attacco nemico. ...».
http://archeocarta.org/torre-canavese-to-torre-ricetto-chiesa-san-giovanni-evangelista/
«La torre sorge nei pressi dell´antica strada che costeggiava la riva sinistra della Dora Riparia, strada il cui percorso valica il "Colle della Seja", caratteristico rilievo di forma allungata disposto trasversalmente tra il fiume e le pendici della catena montuosa a settentrione. Da un documento che ne porta testimonianza, un presidio fortificato risultava già esistere nel 1287. Voluta dal Amedeo V, ed eseguita tra il 1289 ed il 1290 dal "magister Bertrando", la costruzione doveva vigilare sul nuovo insediamento sorto in località "Molar del Ponte", nei pressi del punto di attraversamento della Dora. Dal 1333 il luogo risulta infeudato ai Provana, con i beni limitrofi. Riccardo Brayda, che visitò la torre nel 1885 durante le sue ricognizioni intorno ai monumenti medievali della Valle di Susa, aveva notato nelle adiacenze resti di antiche mura. Quei resti non sono ora più visibili, come del tutto scomparsa è anche l´antica cappella di San Lorenzo che sorgeva poco lontano. La torre, isolata, immersa nel verde e circondata da terreni coltivati, è ai limiti del territorio di Villar Dora, presso il confine con il comune di Sant´Ambrogio e poco lontana dal ponte che scavalca la Dora collegando la Statale n. 24 del Moncenisio con la 25. La sua posizione dominante trova rispondenza, sul lato opposto della valle, nel ben più alto sperone roccioso coronato dalla Sacra di San Michele; una linea ideale che unisse i due monumenti potrebbe definire il limite tra le ultime diramazioni della pianura e le prime propaggini della montagna. La Torre del Colle era l´ultimo elemento dello scacchiere di segnalazioni esistente lungo la valle prima di Avigliana.
La torre ha pianta circolare e si erge per un´altezza di circa 19 metri; è costruita con pietrame legato da spessi giunti di malta e il settore superiore della muratura appare coperto di intonaco. La base ha un diametro di circa sette metri e lo spessore murario è pari al raggio del vano interno. È conclusa da un coronamento di otto merli guelfi, quattro dei quali - orientati esattamente verso i punti cardinali - sono dotati di feritoria centrale, ed appare svasata verso l´alto per la presenza di cinque cornici progressivamente aggettanti, formate da piccole mensole di pietra. Doccioni in pietra garantiscono lo scolo delle acque dalla superficie superiore protetta dai merli (quota m.16,40); un servizio igienico a sbalzo ricavato nel corpo di uno dei merli prova che la torre era attrezzata per la permanenza di una guarnigione. L´ingresso avveniva da un´apertura situata a circa sei metri di altezza dal suolo e rivolta a levante, che portava ad un solaio di legno ora mancante; è invece ancora in sito il solaio del piano superiore (quota circa m.10,40) dove, a conferma che il luogo era dotato delle minime attrezzature per la sosta prolungata di persone, esiste un grande camino munito di cappa e feritoie che illuminano il vano. Conclude lo spazio interno una volta semicircolare, dotata di una botola centrale di legno, che consente l´accesso al piano dei merli. L´ultimo intervento di restauro di cui si ha notizia risale al 1967/68. La verifica eseguita da un tecnico confermava che nel 1985 lo stato di conservazione delle murature era molto buono. La situazione generale della torre è ancora soddisfacente: le compagini murarie appaiono sane e non presentano alcuna lesione. La torre è evidenziata durante le ore notturne da un sistema di illuminazione realizzato recentemente. Indicatore di conservazione: stato di conservazione ottimo. Quanto detto a proposito della posizione strategica della Torre del Colle e della sua qualità costruttiva, basta a includerla di diritto tra le presenze più autorevoli di architettura medievale».
«Primi padroni del luogo furono i signori di Stuerda, che nel 1190 circa lo vendettero ad Oberto dei Pelletta astigiani, pervenuti, come i Malabaila, allo status nobiliare attraverso la ricchezza accumulata con l’attività di mercanti e banchieri. Queste due casate si spartirono per secoli il possesso del feudo di Torre Valgorrera, in condominio o in alternanza con altre famiglie aristocratiche (Costa, Provana, Roero Trotti di Revello, Tana, Isnardi, Parella, Canaveri), tra cui i Benso di Cavour, che già compaiono come comproprietari nella prima metà del Seicento. E vi rimarranno, con qualche interruzione, fino al 1818, quando il marchese Michele Giuseppe decide di vendere le terre e la propria parte di castello; suo figlio Camillo, il grande artefice dell’unità d’Italia, aveva otto anni. Nel 1833 acquistarono l’intera tenuta i fratelli Nigra, banchieri, i quali fecero restaurare la torretta ottagonale conferendo al maniero quell’aspetto di elegante dimora gentilizia che, pur attraverso i successivi passaggi di proprietà, ha comunque mantenuto fino ad oggi, accompagnando gli automobilisti in transito sulla strada di Isolabella. Ma basta superare il cancello ed avviarsi verso il ponte di accesso per ritrovare intatto il fascino del tempo, che si è fermato davanti alla facciata della massiccia fortezza medievale, non visibile dalla via pubblica. L’edificio risale probabilmente al secolo XIII: è infatti già menzionato in un atto di vendita dai Pelletta ai Malabaila del 1299, conservato tra i più antichi documenti nell’archivio comunale».
http://poirinonews.blogspot.it/p/castelli-e-monumenti.html
Trana (resti del castello Gromis)
«La Torre degli Orsini e la dinastia dei Gromis. Il paese di Trana è dominato da un'antica torre costruita su una collina al fianco del torrente Sangone. Tale torre, alta 30 metri, restaurata nel 1952, è l'unico resto dell'antico castello risalente al X-XI secolo, distrutto dalle truppe francesi del Catinat alla fine del XVII secolo. La torre, appartenuta in passato agli Orsini, nel 1581 passò, con l'inizio di una nuova signoria, sotto il controllo della famiglia Gromis. Il 20 settembre 1635 Vittorio Amedeo I di Savoia, in riconoscenza ai servizi prestati in guerra e in pace investì Guido Gromis del titolo di conte. La famiglia Gromis fece costruire il palazzo Gromis (ora proprietà del comune), che per anni ha ospitato la scuola elementare, e la chiesetta dell'immacolata in borgata Colombè. Il Gruppo Storico "Conti Gromis di Trana", costituitosi di recente, vuole proprio ricordare la storia di Trana legata alla famiglia Gromis. ...».
http://www.comune.trana.to.it/elenco.aspx?c=1&sc=83
TRINITà DI Mompantero (ruderi della casaforte)
«Ruderi di Casaforte medievale (il Casteletto): sita nei pressi della frazione Trinità, era un edificio fortificato appartenuto tra il 1294 ed il 1336 alla famiglia De Castelletto ed è connessa alla Porta Ferrata, anch'essa una costruzione fortificata che chiudeva il passaggio dell'attuale frazione Pietrastretta, consentendo il controllo sulle merci in transito verso il Colle del Moncenisio».
http://rete.comuni-italiani.it/wiki/Mompantero/Fortificazioni
«...Le prime notizie di un semplice fortilizio risalgono al IX sec., secondo le memorie manoscritte (1769) di mons. Giacinto Amedeo Vagnone, vescovo di Alba, il quale precisava che il Castello fu fondato insieme alla Chiesa ove fu sepolto fin dal IX sec. uno dei Vagnone. La tradizione fa invece risalire al X sec. l’erezione di una roccaforte posta in posizione dominante sul colle che sovrasta l’odierno abitato di Trofarello, la cosiddetta “Cimavilla”, che costituì il primo nucleo dell’abitato. Considerata però la particolare conformazione e ubicazione del sito, non è da escludere che la roccaforte del IX o del X sec. fosse stata edificata su una preesistenza verosimilmente romana o ne fosse comunque la conseguenza, come affermano alcuni autori e analogamente a quanto si verificò per il Castello di Revigliasco e il Castelvecchio di Testona. Il Castello di Trofarello, risparmiato dall’imperatore Federico il Barbarossa e dal nipote Federico II, che lo riconfermarono ai Signori di Trofarello, seguì le vicende del tempo nella lotta fra Signorie e Vescovi, tra Chieri, Asti, Testona, Monferrato e Torino. Il possesso dell’edificio e delle sue dipendenze e terre è quindi accreditato ai Vagnone in diversi documenti del 1228. Nel 1233 questo Castello e la conseguente giurisdizione furono temporaneamente sottoposti al controllo, anche militare, del Comune di Testona- Moncalieri, prima di essere alienati al Comune di Chieri dai suoi stessi signori nel 1256. Chieri era allora in forte espansione e i Vagnone vendettero a tale potente comunità anche le loro parti di Celle, per poi riceverle unitamente a Trofarello nuovamente in feudo. Sin dal 1209, peraltro, Uberto Vagnone e Ruggero de’ Trofarello erano credendari di Testona e nel 1221 risultavano appartenere al consortile dei domini di Trofarello, insieme con Giordano e Oberto detto “Advocatus”, in quanto detentore dell’avvocatura della Chiesa di San Pietro di Celle. La città di Chieri rinnovò in ogni caso molte volte l’infeudazione dei succitati beni e terre ai Vagnone, che erano e rimasero suoi vassalli, e ancora nel 1514, quando vari membri della casata ricevettero l’investitura del feudo, dichiararono "esser suoliti per luoro porzioni prender l’investitura dalla città di Chieri". La nobile famiglia Vagnone, che tra il ‘300 e il ‘400 andava estendendo la sua signoria su molte località circonvicine, raggiunse allora il suo momento di maggior floridezza. Frattanto, il Castello di Trofarello assumeva una conformazione idonea ad assolvere alla sua funzione di controllo del territorio, rappresentativa e agricola propria del tempo, mentre l’abitato trofarellese si ingrandiva fuori cinta verso valle, a partire dal fortilizio, in direzione del tracciato viario Asti-Moncalieri, basilare nodo di comunicazione e passaggio pressoché obbligato.
Il Castello nacque infatti e si ampliò nel quadro di un’economia chiusa, in cui le roccheforti sorgevano in punti strategici del territorio, come nuclei emergenti militarmente ed economicamente. Se pure sia complesso individuare con precisione quale fosse la conformazione del Castello tra XV e XVI sec., l’esame delle permanenze e delle fonti iconografiche (mappe del territorio, quasi sempre redatte per altro scopo), supportata dalle fonti d’archivio, permette di affermare che esisteva già allora una torre, riconducibile all’attuale, ubicata in prossimità di un voluminoso corpo principale di almeno due piani e di planimetria irregolare. Tale torre era in parte inglobata in fabbricati più bassi, secondo una disposizione planimetrica frutto di varie successive aggregazioni di corpi edilizi eterogenei. Interessante appare a tal proposito analizzare la mappa chierese del 1457 e quella moncalierese di circa un secolo dopo, dal cui confronto emerge che nei cento anni che separano le due raffigurazioni il borgo di Trofarello si era ingrandito, pur restando rinserrato nella cerchia di mura accanto al Castello, provvisto di torre, e alla Chiesa parrocchiale. Inoltre, nella seconda raffigurazione, il Castello pare avere assunto un aspetto più “urbano”, meno legato a funzioni difensive, e che si sia ampliato verso ovest. Anche le merlature sono scomparse. Mentre invariata resta la fitta e disordinata aggregazione delle costruzioni che compongono il borgo, caratteristica del Medioevo e protrattasi anche nella prima parte dell’era moderna. Il nucleo principale antico del Castello, situato a sud-ovest della torre e disposto con andamento irregolare da est verso nord-ovest, tuttora esistente e conformato come un corpo compatto inglobante un piccolo cortile, è plausibilmente identificabile nella costruzione in primo piano raffigurata nella stampa ottocentesca che ha per soggetto il Castello, pur con la doverosa approssimazione che il caso impone. Peraltro, la struttura angolare, posta a contrafforte poligonale, che nella stampa appare in primo piano, addossata allo spigolo nord-est del fabbricato, è compatibile con la conformazione attuale del corpo antico ancora esistente e, al pari dell’assetto dell’originario corpo nord-ovest, di cui diremo più avanti, giustifica anche la denominazione della strada posta a nord del Castello, un tempo detta via della Torretta.
Riguardo poi agli eventi significativi che coinvolsero il Castello, va segnalato che da esso partirono diversi Cavalieri Gerosolimitani della famiglia Vagnone, nella quale se ne possono contare infatti almeno nove tra il 1407 (con Ludovico, ammiraglio di Rodi) e il 1560 (con Lorenzo). Il Castello di Trofarello appartenne, tra gli altri, a Giacomo Filippo Vagnone, Signore di Castelvecchio, Cavoretto e Trofarello, maggiordomo ducale, umanista e poeta, che a partire dal 1483 aveva trasformato il Castelvecchio di Testona da fortezza turrita e murata a dimora di delizie ricca di reminiscenze classiche e di “venerandae antiquitatis” d’epoca feudale e cavalleresca. Filippo Vagnone morì nel 1499 e, per espressa volontà testamentaria, tutti i suoi averi presenti nel territorio di Trofarello passarono agli “agnati”, mentre l’unica figlia, Carlota, ereditò il Castelvecchio di Testona e il luogo di Cavoretto, con tutti i beni mobili e immobili annessi. Procedendo attraverso i secoli, un’indicazione sulla struttura secentesca del Castello di Trofarello è fornita dalla bella mappa redatta nel 1604 da Carlo Cognengo di Castellamonte, su commissione del Comune di Moncalieri, per dirimere un’annosa controversia sui confini con Trofarello. Come documenta lo stralcio allegato, il nucleo castellato di Trofarello è rappresentato attorniato da viali alberati, con molta precisione e realismo, secondo una visione assonometrica. A levante c’è la Chiesa dei SS. Quirico e Giulitta, conformata a tre navate, col campanile posizionato a ridosso della navata sinistra. A sud della Chiesa compaiono bassi fabbricati, inglobati nel robusto terrapieno di protezione. Il Castello si presenta con massicci corpi continui strutturati a “C” intorno alla torre centrale, mentre due altri corpi o dipendenze si dipartono a sud, verso la valle, da cui le separa un alto dislivello, rinforzato da strutture murarie. Appena a valle, circondato da bassi fabbricati, c’è un altro fortilizio, che alcuni studiosi hanno identificato col Castello di Belforte, indicato però dalle fonti d’archivio come ubicato “presso Trufarello” e non all’interno dell’abitato. Nel XVII sec. avvennero importanti cambiamenti riguardanti il regime delle proprietà Vagnone, che coinvolsero anche il nostro castello. L’11 dicembre 1642 i Vagnone divisero infatti il consortile (dal latino consortium, «partecipazione alla stessa sorte») di Trofarello e Celle in due famiglie ed agnazioni, rispettivamente di 9 e 15 soldi delle giurisdizioni, lasciando indiviso il patronato sulla Chiesa dei SS. Quirico e Giulitta. Il consortile era un’associazione per la tutela dei beni e degli interessi di chi lo istituiva; quello di Trofarello era di natura familiare e si era formato nel XII sec., da una parte, per la sempre maggiore pressione politica a opera dei nascenti comuni, dall’altra per l’eccessivo spezzettamento dei beni investiti. Da questo momento in poi, i documenti relativi ai beni dei Vagnone riportano di frequente indicazioni inerenti a un’appartenenza comune o, appunto, in regime di consortile, la cui consistenza globale era di 24 soldi. ...».
http://www.castelloditrofarello.it/un-complesso-di-edifici-di-varia-destinazione-1/
«Simbolo del paese, è stata ricostruita in stile medievale sulle mura dell'ex Villa dei Conti Rossi di Montelera. Mi sembra di aver capito, ma posso anche sbagliarmi (e allora qualcuno mi correggerà...), che essa sorge sul luogo dell'antico castello, situato lungo i sentieri che salivano al colle Portia e alla valle di Viù. Alla metà del '300, il castello fu acquistato dai Canalis di Cumiana. Una tradizione locale attribuisce la sua distruzione a un bombardamento effettuato dai francesi, dal vicino monte Carlovà, alla metà del '500».
http://castelliere.blogspot.it/2012/01/il-castello-di-martedi-10-gennaio.html
«Secondo la storiografia recente nasce come fortificazione, fatta edificare verso la fine del sec. X dai signori primitivi Silveschi e Droenghi. L’edificio diventerà possesso di un ramo dei conti "De Canavise", probabilmente ad inizio sec. XII. L’evoluzione del castello è legata quindi a quella della famiglia dei De Canavise, poi conti di Valperga, e alle vicende storiche dell’area. La parte antica del castello è quella più a nord, rimaneggiata in epoche successive. Di essa rimangono alcuni ruderi, la porta di accesso ed alcune parti abitate da privati. La difesa era basata su torri e bastioni nella parte frontale, pare distrutti o gravemente danneggiati nel corso delle guerre del sec. XIV. È verosimile che, ad ulteriore difesa, un fossato situato a nord della chiesa di san Giorgio circondasse l’edificio partendo dalla porta. La ricostruzione di torri e baluardi e la realizzazione di edifici abitativi nel sec. XV darà vita alla parte centrale del castello; di essa sono pervenute le torri e le decorazioni tardo-gotiche in cotto che richiamano quelle coeve della chiesa di san Giorgio. Più tardi le torri verranno inglobate in una possente struttura abitativa che si estenderà su tutto il fronte meridionale dell’altura».
http://www.comune.valperga.to.it/ComSchedaTem.asp?Id=1780
VASARIO (casaforte delle Coste)
«A circa quindici minuti di cammino dalle ultime case di Vasario, ripercorrendo il primo tratto della mulattiera del "Molinetto" e poi salendo verso sinistra nel bosco sono visibili i ruderi dell'antica casaforte delle Coste, costruita con il caratteristico metodo a "spina di pesce", che conserva ancora la struttura perimetrale pur tra pesanti segni di brecce e crolli parietali. La casa, costruita con i contrassegni che consentissero un'ottima difesa, venne adibita successivamente a privativa del sale, detta appunto "Ciensa", dove risiedeva il messo controllore. Non sono presenti balconi, per evitare ogni zona scoperta e le finestre sono strettissime, a feritoia, fatte con due lastre di pietra disposte in modo obliquo verticalmente a sostegno dell'architrave ed i portali presentano massicci architravi e stipiti in pietra. Anche nella borgata di Vasario, nel rione Ciause, vi è una casa molto antica che presenta vari segni di edificazione muraria a "spina di pesce"».
http://www.comune.sparone.to.it/?p=1000&page=21
Venaria Reale (Castellaccio di Rubbianetta)
a c. di Federica Sesia
«La rocca di Verrua, sulla quale rimane una parte delle antiche fortificazioni, è citata per la prima volta nel diploma d’infeudazione dell’Imperatore Ottone III del 7 maggio 999 al Vescovo di Vercelli, confermato successivamente il 7 aprile 1027 da Corrado il Salico. Nel secolo XI abbiamo ancora un documento di conferma al vescovado vercellese di Enrico III del 17 novembre 1054 ed infine un privilegio del 4 luglio 1083 concesso da Enrico IV, durante le lotte per le investiture. Nel 1152 il "castrum" si trova inserito nel diploma di Federico Barbarossa, col quale riconferma alla chiesa vercellese tutti i beni territoriali concessi dai suoi predecessori. Le fortificazioni ed il borgo verranno distrutti dallo stesso Barbarossa nel 1167, allorché il governatore del castello si rifiutò di aprire le porte all’imperatore, proveniente da Roma, dove aveva insediato l’antipapa Pasquale III. L’importante posizione strategica del castello, attorno al quale digradava il borgo entro il ricetto, denominato "in casto plano", indusse i marchesi di Monferrato ed i Conti di Savoia ad una lunga contesa per assoggettare ai loro domini tale baluardo che controllava la pianura sottostante e le vie di comunicazione per Torino Vercelli ed Asti. La concessione del 1315 del vicino borgo di Crescentino a Riccardo Tizzoni, capo della fazione imperiale di Vercelli, costrinse il vescovado, tra il 1319 ed il 1328, a rifortificare il castello, impiegando un’ingente somma di denaro. Durante le lotte che caratterizzarono la seconda metà del secolo XIV il castello assunse un importante ruolo difensivo della giurisdizione episcopale fino alla sua caduta definitiva nelle mani dei Savoia nel 1379. L’occasione fu offerta dalle intemperanze del vescovo di Vercelli Giovanni Fieschi, il quale fu fatto prigioniero dai biellesi e, poco dopo, consegnato per la custodia al capitano Ibleto di Challant, signore di Montjovet. In quello stesso periodo la comunità di Verrua, assediata dal marchese di Monferrato, strinse una lega col conte Amedeo VI, cosicché l’assedio fu tolto e Verrua rimase sotto i Savoia.
Nel giugno 1387, durante la sollevazione dei Tuchini del Canavese, il marchese Teodoro II Paleologo di Monferrato tentò nuovamente di occupare Verrua per aprirsi la via nella pianura, oltre il Po, dove aveva già alcuni borghi sottoposti alla sua giurisdizione. Per la prima volta abbiamo notizia di "bombardes" che sparavano pietre e ciottoli contro il castello. Dopo due mesi di accanita resistenza, giunse il Conte di Savoia con le sue truppe, costringendo il Marchese a togliere l’assedio. Fu durante questo fatto dìarmi che nacque il motto: "Quand che ‘l ver pijrrà cost’ua, ‘l marcheis dal Monfrà ‘l pijrrà Vrua" (quando il porco prenderà l’uva, il Marchese di Monferrato prenderà Verrua), prendendo spunto dal sigillo araldico del 1378, raffigurante un porco che cerca di azzannare un grappolo d’uva. Questo ironico motto verrà poi modificato ed utilizzato successivamente durante l’assedio degli spagnoli (1625) e dei francesi (1704). Nel 1500, il castello venne infeudato a Renato, il grande Bastardo di Savoia, figlio illegittimo di Filippo II, detto "il senza terra". Nello stesso anno, Renato sposò Anna di tenda, unica figlia del Conte Giovanni Lascaris, dalla quale ebbe due figli: Claudio e Onorato. Costoro, insieme alla madre, nel 1534 vendettero il castello ai fratelli Gherardo e Stefano Scaglia di Biella. Il borgo fu eretto in contado nel 1561 e, da quell’epoca, fu tenuto fino al 1781 dagli Scaglia, quali feudatari sabaudi. L’importanza del forte non sfuggì a Emanuele Filiberto che restaurò il castello, aggiungendo ulteriori fortificazioni. Le opere difensive furono proseguite dal figlio Carlo Emanuele I verso il 1590 e ancora nel 1617.
Il primo grande assedio sostenuto dal forte di Verrua fu quello del 1625, quando il duca di Savoia si alleò con la Francia contro la Spagna e l’Austria. Fu proprio sul principio del mese di agosto di quell’anno che il duca di Feria, governatore spagnolo di Milano, dopo il vano tentativo di occupare Asti, marciò su Verrua, sicuro di conquistarla in tre giorni, come lui stesso scrisse nelle sue relazioni epistolari con la corte spagnola. L’esercito imperiale giunse davanti alla rocca forte di 25.000 fanti, 5.000 cavalli e 20 cannoni. Carlo Emanuele I ebbe appena il tempo di introdurre nella fortezza un reggimento di 1.200 fanti, comandato dal conte di Saint Reran. Per tre mesi l’esercito imperiale tentò invano di impadronirsi del castello, sferrando quotidianamente bombardamenti d’artiglieria. Il presidio resistette fino allo stremo delle forze, continuamente incitato dal Duca d dal Figlio Vittorio Amedeo che si erano accampati col grosso delle truppe alle falde della rocca, sulla riva sinistra del Po, per sostenere e rifornire gli assediati, mediante un ponte di barche. Il 17 novembre l’esercito spagnolo, stanco e disfatto, fingendo un ultimo disperato attacco, si diede precipitosamente alla fuga, dopo aver perso in tre mesi oltre 10.000 uomini. Dalle minute del Duca di Savoia al suo Ambasciatore di Parigi, le perdite sabaudo – francesi risultano di circa 8.000 uomini. Nella stampa settecentesca della rocca, inserita nel "Theatrum Sabaudiae", il Duca farà aggiungere sul cartiglio: "Exigua et celeberrima". Il secondo grande assedio avvenne nel 1704, durante la guerra contro i Francesi. Luigi XIV, com’è noto, aveva incaricato il generale duca di Vendome di riconquistare il Piemonte. Vittorio Amedeo II si alleò questa volta con la Spagna e con l’Impero Asburgico contro la Francia. Le terre piemontesi divennero teatro di battaglia. Le città più importanti, tra cui Susa, Aosta, Biella, Ivrea e Vercelli erano già cadute in mano al nemico. Rimaneva soltanto più Torino. Ma prima di marciare su di essa, il Vendome decise di togliere di mezzo Verrua. Il 14 ottobre 1704 l’esercito francese composto da 46 battaglioni, 47 squadroni, 48 cannoni e 13 mortai, strinse d’assedio la fortezza. Il castello era difeso solo da 5.000 uomini, comandati dal conte de la Roche d’Allery. L’attacco fu violentissimo. L’artiglieria tuonava da tutte le parti. La rocca però, dopo quattro mesi resisteva ancora. Il 14 marzo 1709 il Vendome inviò i suoi rappresentanti nel castello per chiederne la resa, rifiutata però dal nuovo Comandante, Colonnello de Fresen, succeduto al d’Allery ferito.
La sera dell’8 aprile i 1.241 superstiti, senza più né acqua, né viveri, nonostante le minacce del Vendome, fecero saltare le tre punte dei bastioni, asserragliandosi nel’interno del mastio. Vittorio Amedeo II, non potendo più soccorrere gli assediati, il 6 aprile diede ordine al governatore del forte di trattare coi Francesi. La guarnigione, dopo avere ottenuto la promessa dell’onore delle armi, si arrese. Ma ormai lo scopo era raggiunto. Le città cadute insorsero e, con l’azione di Pietro Micca, nonché l’intervento del principe Eugenio di Savoia, il Piemonte venne liberato dai francesi. L’assedio di Verrua, non solo aveva logorato le forze francesi, ma aveva ritardato l’attacco decisivo su Torino, salvando il Piemonte. Nei sei mesi d’assedio caddero sotto la rocca, secondo le stime del Solaro della Margarita, 12.000 soldati, 6 generali, 547 ufficiali e 30 ingegneri di guerra. L’imponente complesso fortificativo che raggiungeva il borgo di Carbignano, come viene raffigurato nelle stampe settecentesche, venne demolito nel 1707. Il castello, nel periodo napoleonico e risorgimentale, rimase come presidio dei soldati invalidi. La proprietà passò dai Conti Provana del Sabbione ai marchesi d’Invrea. Questi ultimi, lo vendettero nel 1957 a privati per l’estrazione della calce. Purtroppo, lo stato di abbandono del forte, il crollo del picco, (1957) e le sistematiche perforazioni della collina adiacente, hanno cancellato buona parte del sito fortificativo su cui sorgeva la "Torrazza" e lo stesso borgo, alterandone il paesaggio. La stessa "pozza", fatta costruire da Madama Reale nell’interno del forte, avente un diametro di circa tre metri e profonda oltre cento, è stata coperta da detriti. La mole di ciò che rimane di questa difesa, la vastità della fascia che sviluppavano, la stessa capacità dei camminamenti sotterranei, nonché quelli di mina e contromina, impongono un intervento che impedisca un ulteriore ed indiscriminato saccheggio della zona, che snaturerebbe del tutto l’ambiente delle difese ed il campo di battaglia verso il borgo di Carbignano. Il complesso, fra i più significativi e, storicamente, fra i più importanti del Piemonte, meriterebbe veramente di una maggiore attenzione da parte di tutti».
http://www.comune.verruasavoia.to.it/index.php/il-castello.html
VIGNA DI GROSSO (torre di avvistamento)
a c. di Duilio Chiarle
VILLA CASTELNUOVO (ruderi del castello di San Martino)
«Quasi come in un gioco di parole, a Castelnuovo Nigra (precisamente nella frazione di Villa Castelnuovo) ci sono i resti dell’antichissimo castello che un tempo fu dei Conti di San Martino. Complicato nelle parole e difficile da raggiungere, in quanto distante dalle grandi mete turistiche, dimenticato e silenzioso, giace accanto alla morente ed abbandonata Villa di Costantino Nigra. Anticamente era un posto strategico e glorioso, scelto per la sua posizione sopraelevata, fu un struttura fortificata, progettata per resistere alla guerra ed a lunghi assedi. Per raggiungere gli albori di questo castello dobbiamo tornare al 1120, quando Guglielmo I di San Martino acquisì l’importante titolo di conte di San Martino e Castelnuovo. Guglielmo I era figlio di Ardizzone, un cavaliere che si distinse nelle crociate del 1096 ove ottenne grande notorietà e fortuna, non a caso lo stemma dei San Martino è uno scudo rosso, in memoria di un principe saraceno, sconfitto da Ardizzone, che appunto portava uno scudo tinto di rosso. Nel 1150 Gugliemo I amplia i possedimenti attraverso un trattato di pace con i potenti signori di Valperga. Il castello in questione però venne alla luce successivamente, per mano del figlio Gaula (anch’esso divenuto Conte). Nel 1202 acquisì il diritto alla decima da Castelnuovo, è in questo periodo che si può attestare la costruzione del castello, tra l’altro uno dei pochissimi castelli fortificati dell’Alto Canavese. Sulla collina esistevano già altri edifici, probabilmente una torre di segnalazione ed un antichissima fortificazione, alcune tracce sono ancora presenti nelle fondamenta. Il castello non era di dimensioni mastodontiche, ma era pensato, più che per la comodità e l’apparenza, per sostenere i frequenti attacchi che si subivano all’epoca. Malgrado ciò i conti di San Martino decisero di trasferirsi e di trasformare questo nuovo e fiorente castello nella loro sede principale.
Purtroppo le informazioni sono piuttosto frammentarie, è sicuro (anche se non provato) che il castello vide parecchie battaglie durante la rivolta dei turchini nel XIV secolo. In ogni caso il castello non subì particolari danni, anzi, nel corso dei secoli sono molti i miglioramenti strutturali e le modifiche; nel 1408 Umberto III (figlio secondogenito di Pietro di San Martino e Castelnuovo) divenne ufficialmente il capostipite della nuova dinastia dei San Martino di Castelnuovo. Il castello assunse un certa importanza politica sul territorio. Nel corso degli anni successivi il castello subì numerosi assedi ed attacchi. Verso la metà del ‘500 (1537 o 1552) l’esercito francese pose sotto assedio il castello, che all’epoca era affrancato dagli spagnoli (erano le guerre di Francesco I e di Carlo V), l’assedio durò 15 giorni e vide i francesi alla conquista del castello, che però in breve tempo tornò di nuovo in mano all’esercito spagnolo. La guerra, non solo provocò molti morti, ma danneggiò gravemente il castello, danni che non vennero mai veramente riparati. In parte per la poca manutenzione, ed in parte per la posizione difficile, nel 1611, il proprietario Pompeo I, si trasferì in un palazzo a Castellamonte (un paese distante pochi chilometri), perché il castello non era più agevole. Si potrebbe dire che il declino del castello iniziò proprio da qui. Ed è da qui che le informazioni scarseggiano, malgrado nei secoli successivi sia praticamente certo che il castello venne comunque affidato ai mezzadri, che continuarono a coltivare le terre intorno, è sicuro che esso continuò ad essere utilizzato fino agli albori del XX secolo, seppur in condizioni d’estremo disagio (alcune sezioni erano già crollate). ... Oggi il castello è un rimasuglio di ruderi, si notano ancora le finestre, le porte, incredibilmente sopravvive ancora l’antico passaggio, mentre nel punto centrale, fieramente, s’innalza la torre, l’ultimo rifugio in caso d’assedio, rimane ancora in piedi sorretta dai suoi potenti muri. Difficile immaginare come fosse un tempo: le sale erano molto grandi, affrescate con pregevoli decorazioni medioevali, facile immaginare la presenza d’immensi camini. Una grande scala a chiocciola costruita di mattoni e pietre collegava i vari piani dai sotterranei al sottotetto. ...».
http://www.albyphoto.it/articoli/castello-di-castelnuovo-abbandonato (a cura di Alberto Bracco)
«Il Castello domina dall´altura l´abitato di Villar Dora; la sua mole massiccia, sottolineata dal richiamo della snella torre cilindrica che lo caratterizza, si impone sulla misura modesta del borgo e segnala la propria presenza autorevole nel paesaggio circostante. Era collegato visivamente con le fortificazioni di pianura e, tramite la Torre del colle, con quelle della bassa valle di Susa. Da un documento stilato nel 1287 si può desumere che sul luogo dell´odierno Castello esisteva allora un complesso fortificato abitato dai tre feudatari che si dividevano il territorio e dalle loro famiglie. A ciascun nucleo corrispondeva con ogni probabilità uno dei torrioni più antichi che, inglobati nei successivi ampliamenti, sono oggi localizzabili solo ipoteticamente, in base alle strutture rinvenute nelle aree cantinate. L´antico castello era addossato alla cinta difensiva che perimetrava la sommità della collina ma la sua conformazione variò sensibilmente quando il territorio fu infeudato ai Provana che, divenuti signori verso la metà del Trecento, lo rinnovarono adattandolo alle proprie esigenze. Nell´arco di un secolo vennero così eseguite importanti opere che trasformarono la severa costruzione di aspetto militaresco in una residenza signorile. L´esame dettagliato del complesso monumentale (vedi lo studio di Paolo Scarzella citato in bibliografia, cui si rimanda per eventuali approfondimenti), oltre a chiarire molti punti della composita genesi costruttiva, ha rivelato che i fabbricati costruiti dai Provana obbediscono a criteri di modularità che ne regolano le proporzioni. La connotazione più rappresentativa dell´opera dei Provana si apprezza principalmente nel prospetto sud, dove l´alta torre cilindrica che sporge dal filo murario separa due costruzioni diverse come a segnare uno snodo tra due ali aperte nelle opposte direzioni. Ad est della torre il corpo del cosiddetto "palacium" si segnala come un robusto torrione ingentilito da ariose bifore, vicine ad altre minori appartenenti ad una precedente fase costruttiva. La muratura è in pietrame annegato in abbondante malta, con fasce orizzontali di mattoni. Il coronamento in merli a coda di rondine sovrasta una elaborata fascia decorata da archetti ciechi, cornici ricorrenti in mattoni con resti di intonaco e figurazioni geometriche rosse e nere.
L´ala opposta, detta di Margaretha De Rotaris, è ritmata da aperture a bifora più regolari; la muratura, in pietrame, è apparecchiata in modo piuttosto regolare e di spessore tale da far pensare ad una foderatura esterna dei muri preesistenti. Il coronamento merlato, perfettamente leggibile, è stato in questo caso soprelevato per appoggiarvi la copertura, ricavando, come d´uso, finestre intermedie; la fascia sottostante è tutta in mattoni, decorata con cornici e resti di figurazioni geometriche, come nel caso precedente. La torre cilindrica che separa le due costruzioni di cui si è detto, è costruita in mattoni accuratamente apparecchiati ed è coronata da quattro merli a coda di rondine protetti da intonaco; prerogativa interessante è data dalla presenza dei piatti di ceramica colorata incastrati a corona sotto la merlatura, decorazioni frequenti nelle architetture religiose ma insolite nelle costruzioni difensive. La fascia decorativa sottostante è composta da una sequenza di arcatelle ogivali e da cornici progressivamente aggettanti, a greca e a denti di sega. Nel 1442 il duca Ludovico di Savoia (figlio di Amedeo VIII) aveva ordinato ai Provana di eseguire diversi lavori di potenziamento, fornendone l´elenco preciso, elenco divenuto oggi prezioso per risalire all´aspetto del castello in quel preciso momento storico. Altre opere, quali ad esempio il sopralzo del recinto fortificato, andarono quindi ad aggiungersi a quanto già realizzato, rendendo il castello sempre più imponente. Alcune parti situate nella zona settentrionale, incendiate dall´esercito francese nel 1691, furono successivamente ricostruite in forme diverse.
Nella seconda metà dell´Ottocento realizzazioni consistenti hanno in parte mutato la fisionomia del castello: per disimpegnare le camere sono state costruite, in aderenza al prospetto interno, gallerie in stile neogotico; il terreno è stato in parte spianato per realizzare ampi viali di accesso ed un giardino, ora ricco di essenze pregiate; il fronte sud è stato anticipato da un terrazzamento sorretto da alte pilastrate che hanno sminuito la prevalenza d´immagine dei fabbricati più rappresentativi. Attenti restauri furono eseguiti nei primi decenni del Novecento per volere del conte Carlo Antonielli d´Oulx sotto la guida di Ernesto Bertea. Per rendere al castello la fisionomia medievale furono allora riaperti i merli otturati e valorizzate le fasce affrescate, eliminati intonaci e persiane aggiunte tra Sette e Ottocento e sostituite le colonnine delle bifore mancanti con basi e capitelli di nuova fattura. Tuttavia, contrariamente alla tendenza allora imperante, non si realizzarono altre aggiunte "in stile". Il complesso, in particolare per quanto riguarda i fabbricati di maggior prestigio, si presenta in condizioni soddisfacenti di conservazione, grazie anche alla cura che ne ebbero i proprietari, conti Antonielli d´Oulx, ora rappresentati da una società. Alcuni fabbricati, sottoutilizzati, necessitano di interventi di ripristino e di restauro. Gli edifici ubicati nel settore nord-occidentale (un tempo "sala d´armi", "casa del pozzo" e "tribunale") presentano segni di abbandono e di degrado e sono attualmente interessati da un progetto per il recupero all´uso. Indicatore di conservazione: stato di conservazione ottimo. Il Castello di Villar Dora, oltre ad essere importante testimonianza della storia valsusina, si inserisce di diritto tra le più significative opere di architettura castellana. Il complesso è oggetto di attenzione da parte dei proprietari che provvedono alle normali opere di manutenzione. Sono inoltre in corso di studio diverse proposte di intervento che coinvolgono le amministrazioni pubbliche con l´intento di giungere al restauro ed alla completa godibilità di tutti gli ambienti dell´antica residenza nobiliare».
Villar Focchiardo (casaforte Il Palais, cascine)
«Localizzata poco lontano [nella parte centrale del paese], ma con un salto temporale che riporta ai visconti di Baratonia, divenuti anche visconti di Villar Focchiardo, l’antica “Casaforte”, oggi detta “il Palais”. La costruzione risale probabilmente a non prima del 1090, anno in cui il visconte Bruno di Baratonia cessò l’incarico di vice-conte di Torino e fu investito del feudo di Villar Focchiardo. Il “palais” è stato certamente edificato nel XII secolo, pare a ridosso di una preesistente “torre di segnalazione”, come ve ne erano molte altre in Valle di Susa: Mattie, Meana, Bussoleno, Borgone, Condove, Sant’Ambrogio, Torre del Colle, Avigliana, ecc. Nel 1342 la casaforte fu restaurata dal suo proprietario di allora, Giovanni Bertrandi “domicello”, figlio di Giovanni Bertrandi, il successore dei Baratonia, utilizzando orditura in legno d’abete venduta dal priore della Certosa di Montebendetto, Francesco Bertrandi, suo cugino. La casaforte si affaccia all’interno di un cortile nella zona centrale di Villar Focchiardo. Il prospetto verso la strada risulta attualmente irriconoscibile, a seguito di un’operazione di ristrutturazione che ne ha alterato l’identità, ma la facciata interna, seppur anch’essa molto compromessa a causa di un incendio avvenuto nel corso del XIX secolo, presenta ancora alcuni elementi dell’antica fortificazione nel muro perimetrale, pericolante. L’edificio, che nei secoli fu abitato da numerose famiglie e attualmente viene utilizzato come deposito, era composto da tre piani fuori terra, solai lignei e pareti interne intonacate. I merli a coda di rondine, con fori tondi, oggi murati, appaiono molto degradati. All’interno della costruzione si trova un secondo muro interamente in cotto, ad esso adiacente, realizzato per consolidare quello esterno. In sostituzione delle feritoie, sono state inserite alcune finestre con serramenti in legno.
Lungo la ex ss 24, Cascina Roland, Posta di Roland, Giaconera. Sembra che tutti e tre i fabbricati fossero in origine delle “casforti”, ossia delle modeste fortificazioni, sia per il tipo di costruzione, sia per la posizione del luogo in cui sorsero, sia per l’uso a cui erano destinati. Nei documenti si riscontrano denominazioni indifferentemente applicate le une alle altre, come Giaconera, Cassaforte Giaconera, Colombaro, Cascina Giaconera, Posta della Giaconera, Posta di Roland, Giaconera superiore, Cassaforte di Roland, Cascina di Roland. è possibile azzardare l’ipotesi che nei tempi antichi tutta la zona, nella quale sorgono queste tre modeste fortificazioni, a cavlallo dell’asse stradale, in corrispondenza di un incrocio e presso un ponte, fosse denominata “Jaconeriam” (La Giaconera) e che comprendesse le attuali Giaconera, Posta di Roland e Cascina Roland. Per Cascina Roland la presenza di una prima casaforte è probabilmente collegata ai Visconti di Baratonia, a cui nel XIII secolo si unirono in co-signoria i Reano, i de Clusa e i de Iallono. La casaforte è situata, in corrispondenza del 40° chilometro della SS.25 lungo l’antica via Francigena .la denominazione di Cascina Roland è dovuta forse alla sua vocazione agricola prima ancora che di fortificazione. La “casa Roland” è attualmente diventato un centro polifunzionale dove le parti laterali sono costituite da alloggi ristrutturati, area museale. Le facciate sono caratterizzate da finestre ogivali con cornici in mattoni sagomati ed inoltre riportano alcune tracce di antichi affreschi. Al di sopra del cancello di ingresso e sul lato orientale del recinto si riconoscono i resti della cinta merlata, che testimonia il carattere difensivo della cascina. Di tutto il complesso, le parti conservatesi dell’antica fortificazione sono solamente quelle costituenti la cinta muraria esterna. All’esterno il famoso e leggendario “masso di Roland”. La Giaconera, benché l’attuale aspetto esterno non lo dimostri, è da considerare il più antico del gruppo dei tre fabbricati in questione, per lo meno in riferimento allo spazio chiuso e fortificato su cui venne costruito inizialmente e ricostruito ed ampliato in seguito. E’ probabile che la parte della Giaconera definita “cassaforte” fosse abbinata al cosiddetto “Feudo dei Palais”. In un documento del 1696 si rileva che la parte est della Giaconera era di proprietà dei conti Cauda di caselette, e la parte ad ovest dei conti Carroccio-Fiochetto. Nel tempo la denominazione “Giaconera” scompare e subentra quella di “Colombaro”, perché nella parte adibita a “Cassaforte” era stata certamente installata una colombaia, privilegio gelosissimo dei feudatari. Più tardi la denominazione “Colombaro” era data ai terreni circostanti, mentre invece il fabbricato riprese il nome di “Giaconera”».
http://www.comune.villarfocchiardo.to.it/turismo-e-sport/cosa-visitare/#4
Villar Focchiardo (castello dei conti Carroccio)
«Il castello dei conti Carroccio fu costruito nello XV secolo, in seguito alla famosa devastazione di parte del Palais provocata dallo straripamento del Gravio nell’anno 1473, sui resti di una precedente casaforte citata nei documenti più antichi, ma mai localizzata con precisione E’ stato chiamato “castello”, anche se di tali caratteristiche ha ben poco, perché il progetto iniziale concordato tra i diversi feudatari, consignori di Villar Focchiardo, sarà stato senz’altro di costruirlo con quell’intento. Ma poi le cose sono cambiate man mano che il feudalesimo stava modificandosi Si tratta di una massiccia costruzione a pianta rettangolare, destinata in origine a sede giurisdizionale del feudo, nonché a dimora temporanea del feudatario. Dal secolo XVIII l’edificio fu ulteriormente ingentilito, con la realizzazione di una facciata barocca e la sua funzione diventò esclusivamente quella di dimora temporanea legata alla presenza della famiglia nella stagione estiva. L’ultima famiglia ad avere giurisdizione e feudo in Villar Focchiardo furono i conti Carroccio che provenivano dal canavesano. Quando, però, le proprietà del feudo e del Castello furono investite unicamente ai Carroccio nel 1653, essi ne fecero una signorile dimora estiva. Venne abbellito e trasformato in villa signorile, e la facciata a mezzogiorno, ossia verso la montagna, artisticamente sistemata in stile barocco. L’interno fu adeguatamente adattato, specialmente il salone al piano terreno, con artistiche vetrate, pavimenti in mosaico, stucchi e decorazioni ai soffitti ed alle pareti. Il parco-giardino era sistemato a sud-est dell’edificio, il terrapieno era sostenuto da alti muraglioni coperti con grossi lastroni di pietra scalpellinata, in parte tutt’ora esistente, ove ci sono attualmente degli orti e degli edifici privati».
http://www.comune.villarfocchiardo.to.it/turismo-e-sport/cosa-visitare/#10
«Costruzione fortificata del XIII secolo, più precisamente tra il 1275-77: proprio nel 1277 i De Pertusio ottennero infatti dai conti di Savoia il feudo di Villarbasse e, per la sua difesa, innalzarono il Torrazzo. Nel corso degli anni esso subì vari passaggi di mano (tra i quali i Signori di Chignin) fin quando, nel 1869, passò stabilmente in proprietà della famiglia Pennaroli-Durando. Corpo edilizio turrito a pianta rettangolare con tre piani fuori terra e merlatura “a penna” ghibellina, superava in origine i 12 metri e i merli (se ne scorge ancora la sagoma) erano guelfi. Internamente si articola su tre piani comunicanti mediante una rampa. Una scala in muratura dà accesso al sotterraneo dalla volta a botte con, nella parte sottostante, un locale adibito a ghiacciaia. Il pianterreno è costituito da un'ampia sala dal soffitto ligneo a cassettoni, quattro finestrelle e spazioso camino. Dall'ultimo piano si accede alla parte a cielo libero e, da questa, alcuni gradini realizzano l'accesso al camminamento dei merli, articolato su tutto il perimetro della costruzione. La muratura, nella parte inferiore, è realizzata mediante l'impiego di scapoli di pietra grezza e ciottoli di fiume disposti parte a spina di pesce e parte al naturale, con spessore di due metri alla base. La porzione di muratura superiore, realizzata all'inizio del XIV secolo, è in laterizio. Circondato da un ampio fossato (colmato in passato dalle piogge scendenti dalla collina) ha ad est l'antica piazza del paese, ora giardino, per accedere alla quale fu in antico eretto un ponticello in legno facente capo al ponte levatoio. Per attenuare il rigore militaresco del Torrazzo vennero eseguiti esternamente affreschi attorno alle finestre, agli archi dei beccatelli ed alle mensole delle caditoie. Lo fece conoscere, nel 1884, al pubblico l'autorevole studioso locale Ferdinando Rondolino, nel romanzo La Corte di Acaia. Con esso Villarbasse tornò per un attimo alle proprie origini (un Medioevo avvampante) senza tuttavia perder d'occhio il presente. Il quale vedrà, più oltre, rimuovere il gran tetto ligneo che per secoli gli aveva fatto da cappuccio ridandogli, per il piacere di tutti, la fisionomia originaria».
http://www.comune.villarbasse.to.it/Home/Guidaalpaese/tabid/23187/Default.aspx?IDDettaglio=9403
Vinovo (castello Della Rovere)
«Si tratta di un palazzo di stile rinascimentale eretto fra il 1480 ed il 1517 in sostituzione di un palazzotto di minori dimensioni adibito a fortezza difensiva. Esso fu costruito su disegno dell’architetto Baccio Pontelli e prospetta sull’attuale piazza Rey. Della sua costruzione, voluta dalla famiglia omonima, fu sponsor e finanziatore il cardinale Domenico della Rovere, originario di Vinovo. Recentemente restaurato, il castello contiene all’interno pregevoli stucchi e dipinti a grottesca della scuola del Pinturicchio ed un bel chiostro con decorazioni in cotto. Con l’estinzione della famiglia Della Rovere, il castello passò nel 1692 alla corona sabauda e Carlo Emanuele II, assegnando il titolo di conte di Vinovo al figlio (illegittimo) che aveva avuto nel 1712 da Gabriella di Mesmes des Marolles, Francesco Agostino, gli diede in concessione anche il castello. Tuttavia la concessione del castello tornò alla corona nel 1732, visto che l’ultimo erede della famiglia Delle Lanze aveva scelto la carriera ecclesiastica (si trattava del futuro cardinale Carlo Vittorio Amedeo Delle Lanze (1712-1784), figlio di Francesco Agostino e di Barbara Piossasco di Piobesi). In quell’anno il re cedette il castello all’Ordine Mauriziano, che nel diciottesimo secolo lo ristrutturò, aggiungendo un piano alla struttura, che contava allora solo un piano oltre a quello terreno.
Dal 1775 prese avvio a Vinovo la produzione di maioliche e porcellane, a cui furono destinati i locali del castello e le sue adiacenze. La manifattura fu diretta in un primo tempo dal torinese Brodel, a cui si sostituì nel 1780 un altro torinese, il medico e chimico Vittorio Amedeo Gioanetti, che lavorava sotto la committenza dei Savoia: questo fu il periodo l’oro della porcellana vinovese, fino al 1800 quando, con l’arrivo dei francesi, la manifattura declinò. Gioanetti morì nel 1815; la sua fabbrica continuò a lavorare sino al 1820, diretta da un suo aiutante, Giovanni Lomello. Dopo la morte del Gioanetti, fallito il tentativo di Giovanni Stoppini di continuarne l’attività, il castello fu venduto nel 1825 all’Università di Torino, che nel 1836 lo vendette a sua volta al comune di Torino, dal quale nel 1839 fu acquistato dai fratelli Giacomo e Luigi Rey, che v’impiantarono una fabbrica di tappeti. Durante il periodo in cui fu proprietà della famiglia Rey l’edificio venne profondamente trasformato, sia nel piani superiori, occupati dalla manifattura, sia nel piano nobile, dove venne restaurato il salone del lato nord, decorato dagli affreschi di Rodolfo Morgari e del nipote Luigi. I Rey abitarono il castello fino agli anni sessanta e nel 1973 l’edificio venne acquistato dal Comune di Vinovo. Dal 30 settembre 2006 è sede della biblioteca comunale e dal 2007 anche della St. John International University».
http://www.castellodellarovere-vinovo.it/castello
Virle Piemonte (castello dei Romagnano)
«La proprietà si trova nella campagna piemontese, a circa venti chilometri dalla Città di Torino, nel centro storico di un piccolo borgo di origini medioevali denominato Virle Piemonte. Il centro storico di Virle Piemonte presenta la struttura di un borgo fortificato, raccolto intorno alla parrocchia ed a due castelli, ancora oggi esistenti, per quanto la struttura originaria sia stata in parte alterata. Il Castello Romagnano, le cui origini risalgono al Medioevo, è stato riedificato nel primo decennio del 1700, dal marchese Francesco Romagnano sulle ceneri di un precedente castello distrutto a seguito dei tentativi di conquista della zona da parte delle truppe francesi. Esso ha perso traccia delle sue funzioni difensive, essendosi trasformato in splendida residenza gentilizia per la famiglia marchionale. Conserva tuttavia le torri angolari ed un bel giardino cinto da mura. La prima presenza documentale dei marchesi di Romagnano (Oliviero, Guidone ed Ardissone) risale all’anno 1163 a.d., in occasione della loro investitura da parte di Federico Barbarossa. Il castello, nelle vestigia attuali, veniva utilizzato dai marchesi quale residenza estiva per le loro famiglie ed i loro ospiti, tra cui Massimo D’Azeglio che soggiornò più volte in Virle lasciando, in sue lettere, vari cenni di ringraziamento e stima sia all’ospitante (marchese Cesare Romagnano) che alla popolazione locale.
Con la fine della dinastia dei Romagnano il fabbricato è passato prima ai conti Vercellone di Sordevolo e successivamente alla famiglia Monasterolo che lo hanno adibito a residenza privata, pur conservandone, tanto esteriormente che internamente, i lineamenti originari e curandone la manutenzione, tanto che l’immobile, ad oggi, può essere considerato una degli edifici più pregevoli dell’area. Il castello, su quattro piani fuori terra, sorge al centro del paese in posizione dominante, ed ha una conformazione a ferro di cavallo rovesciato, con le due ali laterali rivolte verso il centro abitato. Esso possiede ancora le torri angolari. In asse con Via della Portassa, la cancellata d’ingresso principale, di pregevolissima fattura, si apre su un giardino a pianta trapezoidale. Lateralmente rispetto al giardino d’ingresso una porta che si apriva all’esterno permetteva ai marchesi di raggiungere la cappella di famiglia nell’adiacente chiesa di San Siro, lungo una sorta di galleria coperta, ora scomparsa. All’esterno la facciata, intonacata in colore chiaro, è molto sobria, ritmata unicamente dalle aperture delle finestre, sia nell’affaccio su strada sia sul cortile interno, alcune delle quali sono dipinte a trompe d’oeil per non rompere il rigido schema geometrico. Mattoni a vista, invece, per i lati secondari verso i rustici ad ovest e il palazzo degli Asinari ad est. La proprietà comprende oltre al castello, il giardino, il parco, le scuderie e le pertinenze. In un angolo del giardino viene conservato il rudere, supponiamo di una cappella votiva di piccolissime dimensioni, ma strutturata in modo proporzionato sullo schema delle chiese gotiche».
http://www.castelloromagnano.it/storia
Virle Piemonte (portassa del castello dei Romagnano)
«Portassa. Antico portone delle mura del castello Romagnano, conserva tracce di affreschi del XV-XVI secolo. Contigua alla chiesa di San Bernardino, si vede il muro del portone o portassa, di forma ovale, che serviva da porta di ingresso al castello murato dei Romagnano, signori di Virle. Sopra il portone si scorgono ancora le feritoie (piombatoi) donde i soldati dei feudatari impedivano ai nemici l'entrata nei castelli. Sotto le feritoie, oramai solo più intuibili, un affresco della Madonna, alla sua sinistra un vescovo con paludamenti episcopali (san Benedetto probabilmente). Sotto queste figure un grande stemma nel quale si vedevano due leoni che sostengono una corona principesca sopra la quale faceva capolino il muso di un leone alato. Dietro alla Portassa, sul muro della Confraternita di San Bernardino si scorgeva, anni addietro, un affresco della Madonna che tiene sulle ginocchia Gesù morto: di ciò ora non è rimasto altro che i resti dei calcinacci. Verso la piazza, sull'attuale via Birago, sorgeva un secondo portale, probabilmente di accesso al castello dei Conti Asinari, demolita nel 1833 insieme ad una chiesa contigua e dedicata a Maria Assunta in cielo».
http://www.comune.virlepiemonte.to.it/mm/mm_p_dettaglio.php?idmonumento=2&x=
Virle Piemonte (villa o castello dei Piossasco di None)
«La villa apparteneva ai conti di Piossasco di None, che la riedificarono nelle forme attuali nella seconda metà del ‘700, con molta probabilità rimaneggiando radicalmente un edificio preesistente. Allo stato attuale delle ricerche, la scarsa documentazione conosciuta non permette di delinearne con chiarezza l’iter costruttivo, benché sia piuttosto agevole la ricostruzione, del contesto storico-architettonico e l’identificazione dell’autore del progetto. Ciò è possibile tenendo conto di alcuni dati biografici relativi alla committenza. Il rifacimento si situa nel periodo di attività del conte e architetto Ignazio Renato Birago di Borgaro, attivo per molto tempo ai cantieri reali di Stupinigi ed Agliè, autore inoltre della riplasmazione del castello di Birago e della costruzione della chiesa della confraternita di Vische. Elementi caratteristici della sua architettura si riconoscono sia nella villa Piossasco di None a Virle che nella villa già Provana del Sabbione a Carignano. Tali residenze furono fatte edificare da famiglie nobili imparentate strettamente con l’architetto. Il conte Giuseppe Mauro di Piossasco di None (1754-1829), proprietario e probabile promotore dell’opera, sposò il 24 aprile 1775 Angelica Gabriella Birago di Borgaro (1757-1831), sesta figlia dell’architetto Ignazio. Analogamente, un rapporto di parentela legava Aleramo Provana del Sabbione, proprietario nella seconda metà del ‘700 della villa carignanese, all’architetto, figlio adottivo del conte Augusto Renato Birago di Borgaro, marito in prime nozze con la contessa Gabriella Piscina, sorella della moglie di Aleramo. La decorazione interna dell’edificio di Virle, ed in particolare, il salone di rappresentanza, vennero affrescati, secondo la storiografia corrente dai pittori Giuseppe e Nicolò Dallamano, quadraturisti emiliani, nati a Modena ed approdati in Piemonte nel 1717.
Attivi nei cantieri di corte, furono gli autori delle decorazioni a finte architetture del salone e dei vestibolo della villa della Regina a Torino e di alcuni lavori al castello di Rivoli. Altre opere sono a Racconigi (S. Domenico), a Savigliano (chiesa della Pietà), a Carrù (parrocchiale) e a Cherasco (chiese e Palazzo Salmatoris). La realizzazione degli affreschi di Virle è testimoniata dalle schede raccolte da Alessandro Baudi di Vesme, il quale ebbe certamente accesso ad una documentazione archivistica oggi da identificare e nel suo teso non citata. Un convincente confronto può istituirsi con il citato salone della villa della Regina con l’analoga decorazione del salone della villa Provana di Carignano, ancora leggibile malgrado le pesanti alterazioni successive. Rimane il problema di raccontare tali interventi alle riplasmazioni settecentesche dei due edifici, stante il divario cronologico che separa l’attività dei pittori Dallamano, conclusasi negli anni ’50, dall’epoca probabile delle ristrutturazioni operate all’incirca vent’anni dopo. Il legame famigliare qui ricostruito potrebbe giustificare la migrazione di queste maestranze qualificate in anni precedenti gli interventi sulla struttura degli edifici, confermando in entrambi i casi l’ipotesi dell’esistenza del salone di rappresentanza in epoca anteriore al rifacimento. Le considerazioni qui espresse si fondano sui dati oggi in nostro possesso, che non ci permettono di abbandonare il piano congetturale per giungere ad una effettiva ricostruzione dei percorsi realizzativi. Tale operazione può attuarsi solo in seguito ad una accurata lettura del materiale archivistico eventualmente rintracciabile».
http://www.san-vincenzo.com/site/index.php?option=com_content&view=article&id=56&Itemid=61
a c. di Duilio Chiarle
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