FRANCO
CARDINI |
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Ci
vorrebbe un altro Federico II
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Fu «feudale» in Germania e «pluralista» in Italia. Le sue regole
sono alla base ancora della realtà federale tedesca
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Ha senso in un tempo come il nostro, caratterizzato da tanto brutali e inaudite novità, cercar ancora ispirazione indagando i modelli storici? O è una pia illusione pedante? Una sterile esercitazione retorica? I paragoni zoppicano sempre; la storia può presentar spesso situazioni che hanno fra loro somiglianze e analogie, ma senza dubbio non torna mai identica a se stessa, non si ripete mai.
Eppure, a volte il passato sembra riproporsi con spietata evidenza. O è un'illusione ottica? Nel suo ultimo libro, ch'è in realtà un'antologia di scritti usciti negli ultimi cinque anni,
A passo di gambero, Umberto Eco si è divertito a cogliere i segni "regressivi" e "involutivi" della nostra epoca, chiedendosi il perché di questi molti ritorni al passato, dalle guerre calde sino al riaffacciarsi dell'ottocentesco
Great Game nell'Asia centrale, magari con gli americani al posto degli inglesi, i russi sempre là e l'incognita cinese in più.
In una prospettiva del genere, che personalmente mi guardo bene dal condividere, ha senso anche indagare sulla "modernità" e magari "attualità" di certi modelli storici.
Federico II di Svevia ad esempio, con la flessibilità istituzionale e la capacità di adattarsi a molteplici forme istituzionali del suo grande impero, appare oggi molto più "moderno" e "attuale" che
non Clemenceau o Churchill. Non a caso, gli Stati nazionali sembrano oggi ormai definitivamente superati e si vanno profilando nuovi "imperi". Sembra in effetti che la sua pratica di governo possa fornirci utili indicazioni. Imperatore romano-germanico, re di Germania, re d'Italia, re di Sicilia, sovrano formale del regno di Borgogna, erede e reggente per alcuni anni del regno di Gerusalemme, sovrano eminente di quello di Cipro, egli si presentava come titolare di una quantità di diritti e di prerogative istituzionali tra loro diverse per origine e caratteri: e non si sognò mai di tentare processi uniformatori e generalizzatori che ne avrebbero snaturato il potere.
Si ama definirlo "moderno". Ma la sua "modernità" è affidata, principalmente, alla memoria del suo Liber augustalis, le leggi promulgate a Melfi dopo il ritorno dalla crociata d'Oltremare e la natura delle quali è accentratrice, antifeudale, insomma tale da sembrar precorrere per più versi lo Stato moderno. "Moderno" e accentratore in Sicilia, l'imperatore fu "medievale" e "feudale" in Germania e "pluralista" in Italia: la sua azione di governo e le sue deleghe di poteri stanno alla base della realtà federale della stessa Germania moderna, che ne ha
gelosamente conservato il modello fino ai giorni nostri (con la sola
parentesi, e non totale, del periodo nazionalsocialista); mentre il
Risorgimento italiano, concludendosi nel centralismo sabaudo e
mazziniano-garibaldino, ha abbandonato la tradizione regionalistica e pluricentrica che gli era propria. Flessibilità e sperimentazione furono i
caratteri costanti della sua azione politica: in ciò, più che moderno, egli sembra piuttosto postmoderno.
Anche i suoi rapporti con il mondo musulmano sembrano genialmente spregiudicati se visti con gli occhi del XXI secolo: ma a ben guardare è piuttosto quest'ultimo a gestirli in modo maldestro. Federico non fu
né filomusulmano, né antislamico: era un sovrano cristiano-latino del
XIII secolo, traeva da fondamenta sacrali e sacramentali la sua
legittimità di potere e riteneva la guida della crociata per la riconquista dei Luoghi Santi un suo dovere e una sua prerogativa. Ebbe ottimi rapporti con il sultano ayyubide del Cairo al-Malik al-Kamil e
sostanzialmente buoni con i vari emirati dell'Africa settentrionale, ma in Sicilia represse e perseguitò duramente i residui insediamenti arabi
spingendosi fino alla deportazione di essi in Puglia: solo a partire da allora si avviò il suo idillio con i saraceni di Lucera, ch'erano appunto dei deportati ch'egli usava quali mercenari.
Si cita spesso, come modello di
moderazione e di saggezza, il modo con il quale egli concluse nel 1229 la sua crociata, accordandosi diplomaticamente con il suo amico il sultano d'Egitto in modo che Gerusalemme divenisse "città aperta", nella quale le comunità cristiane e musulmane detenessero ciascuna i suoi Luoghi Santi e si potesse convivere pacificamente. Oggi, la proposta d'internazionalizzazione del piccolo perimetro della cosiddetta "città vecchia" di Gerusalemme, caldeggiata dalla Santa Sede consentirebbe forse la soluzione di uno dei nodi del problema israeliano-palestinese, che è anche un problema ebraico-cristiano-
musulmano. In questo senso, ispiratore più che paradigmatico, Federico II di Svevia resta ancor "attuale".
Si fa spesso, oggi, come si diceva, il nome di Federico II come di un modello di tolleranza, di convivenza, di apertura mediterranea, di equilibrio internazionale, il riferirsi al quale potrebbe contribuire a risolvere alcuni problemi di oggi. Con tutti i suoi errori e anche i suoi misfatti, Federico II resta un eroe per il nostro tempo:
ch'è nuovamente, come nel XIII secolo, un tempo d'incontri e di
confronti tra civiltà; un tempo nel quale, non diversamente di allora,
culture diverse possono rendersi conto di possedere elementi comuni, di
non essere totalmente "altre" fra loro. Il modello federiciano
c'invita pertanto a superare l'astratta e banale dicotomia
Oriente-Occidente, nata dal riduttivismo eurocentrico della nostra cultura sette-novecentesca ma riletta alla luce d'un tempo - il nostro - che sembra aver perduto le capacità di analisi e di esegesi
socioantropologica della quale invece tale cultura disponeva. Questo è forse il grande compito che attende le nostre generazioni, cui spetta il dovere d'una nuova sintesi che vada al di là del prospettato
melting pot multiculturale senza per questo cader nelle secche mortali del «conflitto di civiltà».
Franco
Cardini
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