MARCO
BRANDO |
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FEDERICO II
La tavola dell'imperatore gaudente
plasmò la prima cucina
"italiana"
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Anna
Martellotti ha ricostruito
l'importanza dei trattati
"gastronomici"
attribuiti allo Svevo
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«Un gaudente! Un erotomane! Un miscredente! Un filoarabo!». E,
last but not least, pure «un goloso!». Dal punto di vista dei Papi dell'epoca - e di tanti denigratori suoi contemporanei (alcuni ascetici davvero, altri sedicenti per far piacere, com'è costume tuttora, al potente rivale di turno) - Federico II di Svevia era questo e altro. «Epicureo!!!», gli dicevano pure: epiteto che allora era la sintesi di tutti gli altri anatemi messi assieme. «Fue dissolute in lussuria in più guise... in tutti i diletti corporali volle abbondare, e quasi vita epicuria tenne, non faccendo conto che mai fosse altra vita», scrisse nella
Cronica Giovanni Villani (1280-1348).
In effetti, anche agli occhi complici di un libertino dei giorni nostri, il narcisissimo imperatore svevo, nato a Jesi nel 1194 e morto a Castelfiorentino (Foggia) nel 1250, certe etichette se l'è meritate tutte o quasi. Compresa quella di «goloso»: invece di teorizzare la mortificazione del corpo, sponsorizzava ricettari all'altezza dei suoi banchetti. Anche se tanto entusiasmo ha consentito allo Svevo di divenire il mecenate della tradizione culinaria italiana: un buongustaio che amava i piaceri della vita (cibo incluso) ma con una precisa idea del confine tra la generica ingordigia e la sapiente capacità di creare e degustare.
È un ritratto affascinante, e pure divertente, dell'imperatore amato dagli italiani sudisti (e soprattutto dai pugliesi d'oggi: più a torto che a ragione, lo considerano uno dei pilastri della «pugliesità»). Ritratto che emerge dalla lettura del volume
I ricettari di Federico II. Dal "Meridionale" al " Liber de coquina":
284 pagine scritte da Anna Martellotti, docente di Storia della Lingua tedesca nell'ateneo barese, e pubblicate (con il contributo della Presidenza del Consiglio della Provincia di Potenza) dal prestigioso Leo S. Olschki Editore di Firenze nella collana «Biblioteca dell'“Archivum Romanicum”».
Certo, i non addetti ai lavori universitari devono impegnarsi: è un libro scientifico, che compara la produzione di ricettari prima, durante e dopo l'era di Federico, con molte citazioni in latino medievale; non è - a scanso di equivoci - una raccolta di ricette d'epoca. La ricerca parte dall'attribuzione a Federico II del
Liber de coquina, scritto in latino intessuto di volgarismi, e del
Meridionale, scritto in italiano e latino.
Permette così di scoprire la fastosa cucina della corte palermitana, ben radicata nel territorio, ricca di influssi arabi filtrati attraverso la mediazione normanna e sveva, ma aperta a suggerimenti nazionali e internazionali: ai prestigiosi piatti di carne e di pesce contrappone ricercate preparazioni di verdura e registra la prima affermazione delle paste alimentari, dei ravioli e delle torte ripiene.
Tanto che all'inizio del Trecento questa prima cultura gastronomica “italiana”, sbocciata insieme alla poesia siciliana, appariva ormai radicata nella Penisola. Grazie a una precedente mediazione di un passaggio in Toscana, analogo a quello della tradizione poetica siciliana in volgare. Infatti l'autrice osserva: «Parafrasando Dante, si può affermare che intorno al 1300 tutto quello che gli italiani mangiano è “siciliano”». Fatto sta che l'esame comparativo del
Liber de coquina e dei ricettari imparentati (incluso il trattato latino conservato nel la Biblioteca Vaticana, stampato qui per la prima volta) permette di attribuirne la stesura al patrocinio di Federico II, tra il 1230 e il 1250. Attraverso documenti e testimonianze diverse, la Martellotti ci restituisce così il rapporto ambivalente dell'imperatore con il cibo, tra rivalutazione epicurea dei piaceri conviviali e preoccupazioni salutistiche. Una sperimentazione gastronomica, culminata nel
Meridionale. Quest'opera sembra collocarsi alla perfezione, nella cornice di un banchetto festoso, accanto al fiorire della poesia siciliana. Mentre il
Liber de coquina si rivela un rigoroso trattato scientifico suddiviso in capitoli, sul modello delle opere dietetiche.
Per la gioia dei pugliesi, dal bel libro della Martellotti emerge anche il favore con cui Federico II guardava alla Capitanata: area che fa parte oggi della Puglia novecentesca; mentre allora era un territorio a se stante in un'Apulia che, nel Duecento e oltre, coincideva con quasi tutto il Mezzogiorno continentale. Certamente comunque Federico amava risiedervi «per dedicarsi alla caccia». «Le testimonianze - scrive l'autrice - rilevano concordemente nelle feste di Federico l'esibizione sfarzosa, il compiacimento per il lusso, la ricerca del divertimento». Organizzava pure banchetti ma (da buon
gourmet, come si direbbe oggi) non puntava «sulla sovrabbondanza degli alimenti» e sullo «sperpero di derrate» che caratterizzano la descrizione di altre nobili abbuffate, capaci di durare pure tre mesi (come il banchetto nuziale del 1037 tra il marchese di Toscana Bonifacio e Beatrice, contessa di Lotaringia).
Certo, quando il gioco (culinario) si faceva duro, anche lo Svevo cominciava a giocare pesante: in vista del
Colloquium generale previsto a Foggia a partire dall' 8 aprile 1240 (assemblea plenaria dei funzionari regi in cui il sovrano doveva presentare le
Novae Constitutiones), Federico II cominciò presto a ordinare l'invio in Capitanata di ingenti quantità di derrate alimentari e animali. Nel dicembre 1239, 200 «buoni prosciutti» dall'Abruzzo; in gennaio, cento barili di vino siciliano, in più ordinò d'iniziare ad allevare polli, oche e anatre nelle campagne daune; in marzo chiese altro vino e ordinò al cuoco Berardo di preparare «askipeciam et gelatinam» utilizzando il pesce «de Resina», cioè del lago di Lesina; infine, in aprile, chiese che, dalla Calabria, fossero inviati a Foggia cinquecento montoni e mille vacche e, dalla Sicilia, seicento forme di cacio.
Guarda caso, «askipeciam et gelatinam» sono le due preparazioni a lunga conservazione descritte nel
Meridionale. La prima non è altro che il piatto detto oggi “scapece”, pesce fritto e marinato nell'aceto; ancora assai diffuso a Sud di Roma e pure in Puglia, nelle versioni di Lesina e di Gallipoli. È l'eredità di un sovrano gaudente ma, almeno sul fronte del buon cibo, salutista e ambientalista: si preoccupò persino di prendere provvedimenti perché l'ambiente della Capitanata non fosse depauperato e maltrattato, a tutela degli animali selvatici pugliesi. E se Slow Food gli facesse avere, alla memoria, la tessera onoraria di «socio sapiente»?
LA RICETTA / Lo scapece di Gallipoli colora ancora i mercati del Salento
Nel marzo del 1240 Federico II, in vista del Colloquium generale previsto a Foggia, chiese al cuoco Berardo di preparare «askipeciam et gelatinam» usando il pesce del lago di Lesina. La salsa scapece, dopo 765 anni, è ancora una specialità diffusa in tutto il Sud e pure in Puglia (famose le scapece di Lesina e di Gallipoli). Come si legge
nel sito www.mediterraneoenonsolo.it, «è una salsa, anzi una marinata, con cui si preparano e si conservano pesci, carni e ortaggi ( melanzane arrostite, carote lesse e vari misti)». L'etimologia forse ci riconduce ad Apicio(I sec.
d.C.), l'autore del De Re Coquinaria, il più antico manuale di gastronomia. Alcuni studiosi tedeschi affermano invece che il nome deriva dall'arabo
sikbag attraverso lo spagnolo escabeche». Nel latino medievale di Federico era comunque chiamata «askipeciam». La scapece di Gallipoli è una specialità che è facile trovare nelle sagre di tutto il Salento, cui partecipano i così detti «scapecieri». Ingredienti: 1 kg di pesciolini detti «Pupiddi», pane grattugiato, aceto, zafferano, olio extra vergine d'oliva. Preparazione: pulite i pesci e friggeteli in olio bollente. Passateli nel pane grattugiato e lasciateli marinare in aceto in cui è stato sciolto dello zafferano. In casa spesso lo zafferano è sostituito da aglio e menta pestati. La versione di Lesina prevede l'uso di anguille tagliate in pezzi di 6-8 centimetri, infarinate e fritte, quindi conservate sott'aceto in barattoli di vetro.
Marco
Brando
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