GIACOMO
ANNIBALDIS |
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Nella cripta «della Genesi»
di Matera cento santi
sorridono tra fiori rossi
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Arte rupestre.
Michele D'Elia ai «mercoledì letterari»
di Bari
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Ha il volto imberbe e i capelli fluenti il Padreterno, mentre
comanda alla luce di illuminare il mondo: la Luce e la Tenebra sono
lì davanti a lui personalizzati, e l'una alza le braccia in atto di
esultanza, l'altra è legata ai polsi e alle caviglie ed è in
posizione di dormiente. Così volle raffigurare il primo atto
della «Genesi» l'artista che affrescò tra l'VIII e il
IX secolo la cripta che si affaccia sulla gravina di Picciano, a pochi chilometri
da Matera. Era forse un eremita che si era dedicato alla
contemplazione nel monastero rupestre diffuso anche dall'altra parte
della gravina. Ci è ignoto il suo nome, che per la vulgata è
semplicemente il «Pittore dei fiori», per quello sbocciare
irrefrenabile di petali rossi e foglie verdi. Benché si è certi che
più mani intervennero a completare il grande palinsesto dipinto
nella grotta.
Il racconto degli affreschi stupendamente continua con
le scene del peccato di Adamo ed Eva, per cui la cripta è conosciuta
come «del Peccato originale», oltre che con quello «della Genesi».
La cappella rupestre - che appartiene alla Fondazione Zètema di
Matera, la quale molto si è spesa per il suo recupero - è stata
riaperta al pubblico il 23 settembre scorso. Dopo un puntuale e
convincente restauro, diretto da Michele D'Elia, che nei mesi
precedenti aveva convocato a Matera esperti di varie discipline: non
solo per recuperare la cromatura degli affreschi, ma anche per
studiare la microbiologia, per saldare le pietre
dell'antro; nonché tecnici della luce, che predisponessero la cripta a
una visione seducente, capace di mettere in maggiore rilievo gli
affreschi «ritrovati». Per la cripta «della Genesi» non c'è bisogno
di scomodare l'appellativo di «Cappella Sistina» rupestre. Forse
siamo davanti a una tappa fondamentale dell'arte italiana, anche se
finora negletta.
Michele D'Elia - che di arte ne capisce, eccome -
ebbe a rammaricarsi che i manuali di storia dell'arte italiana
comincino sempre con Giotto e Cimabue, e dimentichino questo
complesso, che si candida a essere punto fermo nell'evoluzione
artistica in Italia. Chi ne vorrà sapere di più, ha una occasione
imperdibile: appunto Michele D'Elia presenterà a Bari per
i «mercoledì letterari» la cripta e il suo recupero conservativo.
Al D'Elia la Puglia e la Basilicata debbono molto, in virtù della sua
capacità di rivalutare, riconsiderare e tutelare il nostro
patrimonio artistico e culturale. È lui che dalla fine degli
anni '50 ha dato vigore alla Pinacoteca provinciale di Bari,
imponendole quella fisionomia dinamica che i successori hanno
consolidato (Pina Belli e Clara Gelao). Divenuto
nel 1977 soprintendente in Basilicata, prospettò la nascita di una
Scuola di restauro e conservazione delle opere d'arte, che servisse alle
nostre regioni. Dal 1987 ha diretto l'Istituto centrale di restauro
a Roma: esperienza che gli ha consentito di convocare, quasi
amichevolmente, esperti per il restauro della cripta materana. Una
storia nella storia: il racconto della bellezza di affreschi,
recuperati appena in tempo, si intreccia con le metodologie
adoperate per fermare l'assalto dell'umidità e delle muffe sulle
pareti della grotta.
La cripta
«della Genesi» non mostra solo la sceneggiatura dell'incipit
biblico. Presenta anche tre absidi affrescate, con triadi tematiche: la
Vergine con due sante, Michele con due arcangeli, Pietro con altri due
apostoli; nonché lacerti di altre pitture consumate dal tempo e
dall'incuria. Volti di santi e angeli che sorridono con le loro boccucce
rosse e sembrano schioccare di contentezza le loro lunghe dita, ora che
sono stati salvati. E fiori, tanti fiori a stemperare il panico dell'«horror
vacui», che affliggeva il pittore. Un artista che seppe intrecciare
il fulgore della tradizione bizantina con un nuovo linguaggio,
attento ai fermenti estetici nella corte longobarda e alle sue
barbariche inquietudini. La nostra arte esce dalle grotte.
Giacomo
Annibaldis
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