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LA CASA EDITRICE

Orhan Pamuk, Il castello bianco, Einaudi, Torino 2006.

«Orhan Pamuk, premio Nobel 2006 per la letteratura, è nato nel 1952 a Istanbul. Einaudi ha in corso di stampa tutte le sue opere e, oltre Il castello bianco, ha finora pubblicato La nuova vita (2000), Il mio nome è rosso (2001), Neve (2004), l'autobiografia Istanbul (2006) e la raccolta di conferenze La valigia di mio padre (2007).

NEL SITO:
Il cavaliere del Giglio. Un romanzo di Carla Maria Russo
Monaci in armi. Con la croce e con la spada
L'ora di tutti. Un attualissimo romanzo di Maria Corti
L'Islam e la Croce
Sud e Islam. Una storia reciproca

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GIULIA NOTARANGELO

 

"Il castello bianco" di Orhan Pamuk

  

       

Originale libro dal titolo suggestivo. Sembrerebbe un romanzo storico (è ambientato nel 1600, all’epoca del Sultano Maometto IV) ma è, in realtà, un romanzo di formazione, di un incontro, di un’osmosi…

Si apre con la vicenda di un giovane gentiluomo veneziano che cade prigioniero dei Turchi durante un viaggio per mare e si ritrova così nel Paese della Mezzaluna ad intraprendere una nuova e diversa vita.

Grazie ad una buona dose di astuzia ed alla sua cultura fatta di “arti e scienze”, e dopo un periodo di prigionia, fingendosi medico, riesce a conquistarsi una certa notorietà ed ad arrivare a corte.

Guarisce il Pascià da una “costipazione”, con rimedi naturali, e subisce da lui un inutile assedio per abiurare la sua fede e convertirsi all’ Islam, che gli viene presentato come una religione superiore.

Conosce a palazzo un astrologo turco, un po’ più anziano di lui, che gli assomiglia in “maniera inverosimile”: è il suo sosia.

Riesce ad evitare la conversione, che pur  gli avrebbe consentito di essere affrancato, e il Pascià, in segno di gratitudine, lo dona come schiavo proprio al suo “gemello”.

Incomincia così un percorso che condurrà sia lui, occidentale, che l’astrologo, orientale, ad un lungo sodalizio culturale e spirituale.

è come se fossero un ego ed un alter ego che, dopo essersi incontrati, si osservano,  e“sono costretti” a collaborare, pur nella  reciproca diffidenza.

C’è uno scambio  continuo di esperienza e di conoscenza tra il giovane (l‘occidentale) ed il “Maestro” (l’orientale), ossessionato dal suo amore per l’introspezione e la ricerca della verità: l’arcano, come direbbe il grande Leopardi.

Due culture diverse si affrontano e si confrontano: quella turco-islamica e quella cristiano-occidentale. La metafora dello “specchio”, in cui i protagonisti ad un certo punto si guardano, accompagna questo percorso di riflessione e di crescita .

Il mondo, secondo l’astrologo orientale, chiamato da tutti “ Maestro”,  è diviso tra sapienti e stupidi, tra chi riesce a manipolare le menti altrui, utilizzando quel poco che sa, e chi, invece, cerca di andare alla sostanza dell’essere ed è assalito continuamente da una folla di perché.

L’astronomia, la biologia, l’ingegneria, l’invenzione di  fiabe e la scrittura, sono il contesto in cui si muovono ed operano i due personaggi-antagonisti che, pur vivendo insieme, diffidano continuamente l’uno dell’altro, sono gelosi della propria identità, ma nello stesso tempo sono pronti a trasmettersi e ad assorbire reciprocamente qualcosa …

Sullo sfondo c’è il potere, quello politico, del Pascià, del Padiscià (il Sultano-bambino), del Sultano, del Visir e di  tutta   la Corte , che fa da committente.

è un potere pragmatico, che gratifica cultura e sapienza, le adopera come instrumentum regni, ma solo fino ad un certo punto.

è un potere che non esita ad eliminare o ad allontanare chi non lo serve o, meglio, non gli serve più; è un potere ambiguo, pieno di luci ed ombre, infido, fatto di macchinazioni (anche familiari), di diffidenza, di promesse dilazionate.

Campeggia, anzi è come un rovello continuo, in questo romanzo, il gusto per l’analisi psicologica, soprattutto da parte dei protagonisti che si ritrovano quasi per caso a condividere un’esistenza di ricerca, di attesa, di speranze, di aspettative e di riconoscimenti al servizio di quel potere vicino, eppur lontano, che alletta, ma anche delude.

Il Maestro, soprattutto, “socrateggia”, si tormenta, scava in se stesso e negli altri, con una specie di “inquisizione” introspettiva, coinvolgendo in questo suo costume un po’ tutti. Anche la scrittura viene utilizzata come strumento di conoscenza.

«Perché IO sono IO?», si  chiedono, ad un certo punto, i due protagonisti, ma la risposta non è semplice. Ci sono remore, resistenze, ostacoli, a svelarsi del tutto.

Tra loro due si alternano momenti di consonanza: «facevo mie le sue amarezze e le sue sconfitte…» (il discepolo), ma anche di dissonanza: allorché il maestro, «attraverso le sue ire improvvise», definisce i confini tra lui e l’altro se stesso (lo schiavo-discepolo).

Solo quando il maestro proverà a  scendere dal suo piedistallo ed a parlare con il suo “gemello”di progetti comuni (ad esempio, la nuova arma che hanno l’incarico di costruire, da parte del Sultano), riuscirà ad immedesimarsi ed a farlo entrare con lui in una specie di empatia: «…facevo mie le sue amarezze e le sue sconfitte…», oppure “…mi faceva piacere quel suo riferirsi ai nostri progetti…».

Ci sarà però un momento in cui i due io appaiono scissi. Avverrà quando l’io occidentale mantiene le relazioni con la corte, immergendosi in feste, passatempi e sollazzi vari, mentre l’io orientale si apparta in un ozio studiorum meditativo e lavora su quella «macchia indefinita e scura sulle carte»: la macchina da guerra, che gli aveva commissionato il Sultano.

La sua principale preoccupazione, essendo egli divenuto l’astrologo di corte, è  stabilire rapporti con gli uomini di scienza, liberarsi degli “stupidi”, che quelli educavano, e pretendere per sé quella “missione”.

In mezzo c’è quel potere, rappresentato ora dal Padiscià, diventato adulto, (potrebbe essere Maometto IV), che arriva ad ammettere e  riconoscere il suo “debito” verso l’Occidente ed il giovane schiavo veneziano  che ha trasfuso tutta la sua cultura nel Maestro.

Alla fine sarà proprio lui a fargli  una domanda retorica, straordinaria ed illuminante: un modo per dimostrare la propria identità, non è forse quello di scambiarla con quella di un altro essere umano, in modo da «occupare l’uno il posto dell’altro?».

è questa, a mio parere, la metafora dello scontro-incontro tra le due culture: quella islamica e quella occidentale.

C’è per tutto il libro il gusto del raccontare, del rivedere, dell’immaginare il passato attraverso l’ «armadio della psiche» e di leggere il futuro attraverso il presagio e l’oroscopo: l’astronomia e l’astrologia .

Lo scrittore sembra chiedersi se una “identificazione” di questi due mondi possa  passare attraverso una via che consista nell’ assumere i panni, le sembianze ed i ricordi l’uno dell’altro, cercando di vivere, attraverso l’altrui vita, la propria; e se possa  esserci una sorta di interscambiabilità “concordata”, un’osmosi perfetta, una “fratellanza indotta” dal caso e dalle circostanze.

Il romanzo cerca una soluzione a questo dilemma e vorrebbe forse indicare una strada. è come se la distanza tra Islam ed “Infedeli” possa riassorbirsi ed i protagonisti si avvicinano a tal punto da con-fondersi e da con/fondere il lettore.

Sullo sfondo un tormento: la ricerca di quella  verità che si placa forse quando i due “gemelli” si separano!

Strano libro, complesso, piacevolmente impegnativo, da interpretare! E alla fine appare la rocca, quella che dà il titolo al romanzo, «bianca candida e bella», quasi “un sogno”, un miraggio contro la nera “testuggine”, l’arma micidiale venuta fuori dall’insolito sodalizio tra Oriente ed Occidente.

C’è qui il presentimento di ciò che avverrà poi: si ha il senso di qualcosa che “impeccabile, silente e puntuale” si stia compiendo…

Lirismo paesaggistico, terminologia lussureggiante, racconti nel racconto, bestiari, immagini di caccia, di guerra, di vita nella corte e di una città orientale: Istanbul.

Grande ed  immensa la cultura e la padronanza del nostro sentire (occidentale) da parte di questo scrittore; frequenti i riferimenti, i rimandi, le citazioni di altri romanzi, come ad esempio, Don Chisciotte. C’è anche l’escamotage del “manoscritto” ritrovato, di manzoniana memoria, e poi la peste che ci fa pensare al Decameron, oltre che ai Promessi Sposi.

è emblematica la presenza dell’Italia nella trama. C’è una profonda ammirazione da parte di questo grande intellettuale turco per il genio italico. La macchina da guerra attorno a cui si dipana  buona parte della trama non è forse la realizzazione di ciò che aveva progettato il nostro Leonardo da Vinci?

Questa “sapiente” lettura lascia intravedere, io credo, l’eterna attualità di due dibattute questioni:

·     fino a che punto la classe politica ed il potere siano disposti a seguire la saggezza e  la cultura;

·      se è mai possibile una convivenza, oppure uno scambio identificativo tra due civiltà contrapposte.

Contrapposizione? Coesistenza? Identificazione? Collaborazione reciproca? Incontro? Scontro? E dire che questo romanzo è stato scritto nel 1992, quasi due lustri prima delle “torri gemelle”!

   

Giulia Notarangelo

   

 

 

 

  

 

 

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