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MARCO BRANDO

 

Intervista a Michel Arthur Ledeen

 

Lo storico americano, allora visiting professor a Roma, oggi tra i principali pensatori neo-con, racconta come nacque il libro scandalo. Trent'anni dopo l'Intervista è chiaro: sul fascismo De Felice aveva ragione. 

 

    

Vito Laterza e Renzo De Felice

    

Sono passati trent’anni da quando, nel 1975, Laterza pubblicò Intervista sul fascismo, in cui lo storico Renzo De Felice, scomparso nel 1996, rispondeva alle domande di Michael Arthur Ledeen, allora trentacinquenne professore statunitense di Storia, in visita in Italia e al suo fianco alla Sapienza di Roma. L’intervista scatenò una polemica tra gli storici, e anche tra i politici, nei confronti di De Felice: ora tacciato di voler riabilitare il Ventennio, ora accusato di revisionismo, ora sospettato di vero filofascismo.

Già con l'uscita del libro Mussolini il rivoluzionario nel 1965 – primo di una serie di volumi biografici sul Duce - la storiografia ufficiale aveva iniziato a criticare lo studioso: non piacque la sua sottolineatura della matrice di sinistra nella formazione politica di Mussolini. Ma si trattò di critiche ancora velate. Ed ecco che nell’Intervista introdusse la distinzione tra Fascismo regime e Fascismo movimento: il primo con funzioni conservatrici, il secondo con forti aspirazioni di modernizzazione. Il volumetto pubblicato da Laterza catalizzò e ingigantì le critiche, facendole debordare oltre i confini del dibattito accademico. Di fatto, però, la ricerca storica di Renzo De Felice catalizza da quarant'anni l'attenzione dei mass-media e degli storici per la sua originalità e spregiudicatezza.

Ne abbiamo parlato proprio con Michael Ledeen: oggi è  uno degli animatori dell’”American Enterprise Institute” (AEI), il laboratorio dei neoconservatori washingtoniani vicinissimi all’amministrazione Bush; anzi, è soprannominato – forse a causa della passione per il nostro Machiavelli - il «Principe dei neocon», coloro che hanno fatto dell’idea della guerra preventiva e dello scontro di civiltà la loro bandiera. Nella sua biografia fornita dall’AEI si legge: «è un esperto di politica estera statunitense. Le sue aree di ricerca includono i Paesi finanziatori del terrorismo, l'Iran, il Medioriente, l'Europa (Italia), le relazioni Cina- Usa, i servizi segreti e l'Africa (Mozambico, Sud Africa e Zimbawe). Consulente negli Usa presso il Consiglio di sicurezza nazionale e il Dipartimento di Stato per la difesa, ha scritto sulla leadership e l’uso del potere. Il suo ultimo libro è intitolato La guerra contro i padroni di terrore». 

Professor Ledeen, qual era la sua attività in Italia ai tempi dell’intervista a De Felice?

«Allora ero “visiting professor” all’Università di Roma (La Sapienza) dove insegnavo Storia americana. Ed ero anche corrispondente dall’Italia per “The New Republic”, una rivista culturale e politica di Washington».

E qual è il ricordo che ha di Renzo De Felice come uomo e come storico?

«Ci vorrebbe un libro per rispondere. Era un grande storico, perché era convinto che si debba scrivere la storia sulla base dei fatti: innanzi tutto sulla base dei documenti; poi, se possibile, pure basandosi sui ricordi personali dei protagonisti. Così fu il primo storico ad affrontare la questione fascista partendo dal materiale raccolto negli archivi. Superfluo dirlo… ma era un grande lavoratore. Basta guardare la straordinaria quantità dei suoi scritti».

Sul fronte dell’attività d’insegnamento?

«Era anche un ottimo professore, come si vede dai suoi studenti, dall’Aga Rossi a Folli, da Mieli a Gentile, per citarne alcuni. Ed era molto disponibile verso gli stranieri:americani come me, Cannistraro, Gregor e altri; polacchi; russi; così via. Per me, poi, era una specie di fratello maggiore, sempre molto aperto e leale. Io e mia moglie Barbara ci sentivamo veramente in famiglia a casa sua: una casa straordinaria, sempre piena di ottime persone come i Romeo, Colletti, Perfetti, Casucci, Grispo, Spadolini... Fortunati noi, i suoi amici».

Da dove gli veniva quel gusto per la polemica spinto fin quasi alla provocazione?

«Perché non chiamarlo “spirito indipendente”? Chi lo sa… Diceva le cose come le vedeva, punto e basta. Come dovrebbe fare un vero intellettuale. O no?».

Già con l'uscita del libro Mussolini il rivoluzionario, nel 1965, la storiografia ufficiale iniziò a criticare De Felice: non piacque la sottolineatura della matrice di sinistra nella formazione politica del duce. Ma si trattò di critiche ancora velate. Perché un decennio dopo la polemica s’ingigantì?

«Per due motivi, credo.  Primo, perché il predominio culturale del Pci si stava indebolendo: dieci anni quel partito prima non si sentiva minacciato da un libro, ma negli anni Settanta sì. Secondo, perché nell’Intervista Renzo disse, per la prima volta, che comunismo e fascismo in un certo senso avevano lo stesso codice genetica: erano figli della rivoluzione francese. E questa — che oggi tutti riconoscono una banale verità — era un’affermazione tremenda per la sinistra. Indigeribile».

Nel 1975 De Felice - già noto tra gli storici per aver rifiutato, pur essendo di formazione progressista, una visione manichea del Ventennio fascista - rincarò la dose anticonformista con Intervista sul Fascismo. Suscitò le note vivaci accuse ma ottenne anche uno straordinario successo editoriale. E lei con lui. Per quale motivo decideste di pubblicare quel libro, intenzionalmente rivolto ad un pubblico ben più vasto di quello degli “addetti ai lavori”, degli storici?

«La proposta veniva da Vito Laterza, non era stata un’idea di Renzo. Io comunque non mi aspettavo tutte quelle polemiche.  Non so se Renzo o Vito se le aspettassero…».

La biografia di Mussolini fu pubblicata da Einaudi. Perché fu scelta la casa editrice Laterza, tradizionalmente progressista, per pubblicare L’intervista? Conobbe Laterza?

«Eravamo amici dei Laterza, andavamo spesso a cena a casa loro. Vito Laterza era molto entusiasta delle interviste, che considerava un ottimo progetto editoriale. Aveva già fatto tradurre un libro-intervista britannico, che era andato bene. Dunque pensava ad una nuova collana. Il nostro era uno di tanti: con Colletti, con Amendola, con Sylos Labini, eccetera».

Ci furono difficoltà con l’editore prima e dopo le polemiche suscitate dal volume?

«Non abbiamo avuto problemi con Vito. Piuttosto eravamo stati d’accordo con lui quando decise di tenere l’Intervista nei magazzini per qualche settimana, aspettando l’esito delle elezioni del 1975».

Eppure nel 1997 lei sostenne che «Laterza bloccò De Felice». L’editore allora smentì. Lei conferma?

«Certo. Come dissi, eravamo d’accordo».

Pochi giorni fa Sergio Luzzatto, docente di Storia contemporanea a Genova e autore del recente La crisi dell’antifascismo, durante una conferenza a Bari ha ricordato il suo ruolo nella stesura nell’Intervista. Riferendosi a presunti rapporti con la Cia o altre agenzie statunitensi, ha lanciato il sospetto che lei abbia svolto un ruolo nella decisione di pubblicare l’intervista in quel modo e in quel momento storico e politico italiano. Come replica?

«Non conosco Luzzatto, ma mi sembra un dietrologista da manuale.  L’unico mio ruolo in quella storia è stato quello di porre le domande e scrivere le note. Il progetto veniva da Vito Laterza. E le risposte erano quelle di Renzo. Per quanto riguarda la vecchia accusa che ero in qualche maniera un agente del governo americano, mi viene da ridere.  Non ho mai lavorato con, o per, la Cia, organizzazione con la quale ho sempre avuto pessimi rapporti. Il mio stipendio all’Università di Roma fu una “fellowship” promossa da "The Italian Fulbright Commission" (la commissione per gli scambi culturali fra l'Italia e gli Stati Uniti, ndr); e quella decisione fu presa da un gruppo di italiani, non dal governo americano».

Davvero ha cattivi rapporti con la Cia?

«Pensi che sei anni dopo, nel 1981, quando lavoravo al Dipartimento di Stato, la Cia mi attaccò per vari presunti peccati. E ha continuato ad attaccarmi fino ad oggi. Attacchi che io ho sempre accettato come una medaglia d’onore. Per essere chiari, qualcuno dice pure che sono stato consulente del governo italiano durante, o subito dopo, l’affare Moro.  Non è assolutamente vero. Qualche anno più tardi ho organizzato una simulazione, che riguardava i problemi di comunicazione tra governi alleati. Un esercizio tecnico, non politico o operativo».

Oggi nessuno nega, neppure in Italia, quel che voi scriveste allora: la straordinaria partecipazione popolare che il fenomeno fascista, volente o nolenti, ebbe tra gli italiani. Lo ammettono pure gli storici di sinistra. Trent’anni dopo lei condivide ancora quella lettura?

«Sì, purtroppo. Vorrei non fosse vero, ma è la cosa più terribile del fascismo: è stato molto popolare».

Quale fu la più grande differenza tra fascismo e nazismo?

«Direi che la più grande differenza è l’immagine dell’uomo: razzista per i nazisti, ma molto più tradizionale per i fascisti, i quali erano convinti che un nuovo tipo umano era venuto fuori dalle trincee della Grande Guerra».

All’epoca dell’Intervista fu un politico di sinistra, il comunista Giorgio Amendola, a difendere in qualche misura l’impostazione e la lettura di De Felice. Cosa ne pensa?

«Un uomo onesto e coraggioso, un altro mio amico».

Pensa che L’intervista rafforzò il neofascismo italiano?

«No. E i risultati elettorali di quegli anni lo dimostrano».

Ritiene che il percorso seguito da An, erede del Msi post fascista, sia stato quello giusto e che il partito di Fini abbia tagliato i ponti col suo passato?

«Fini non è assolutamente un fascista, né un neofascista. è un gaullista».

L’anticonformismo di De Felice rispetto al conformismo antifascista è ancora d’attualità? Gli storici italiani sono cambiati rispetto agli anni Settanta?

«De Felice ha vinto. Ormai il suo approccio — innanzi tutto il suo metodo - definisce il campo. Bisogna ricordarsi che negli anni Settanta l’unico “biografia” di Mussolini era un elogio scritto da un suo sostenitore».

L’attuale centrodestra italiano, e in particolare il premier Silvio Berlusconi, da un lato, tendono a mettere sullo stesso piano fascismo e antifascismo, combattenti delle Repubblica di Salò e combattenti antifascisti. Dall’altro – malgrado il crollo del muro di Berlino sia avvenuto ben 16 anni fa – continuano a sostenere che in Italia esiste il «pericolo comunista». Cosa ne pensa?

«No comment. Sarebbe troppo lungo parlarne. Ma penso che sarebbe meglio studiare la storia seriamente. E non credo che ci sia bisogno di un “nemico”».

L’esperienza di quegli anni in Italia, e il rapporto con De Felice, rappresentano un patrimonio culturale fondamentale per quel che riguarda i suoi attuali punti di vista sulla politica statunitense e internazionale?

«Certo, ma non sono gli unici.  Ero assistente di Mosse (lo statunitense George Mosse – 1918/1999 - è stato uno dei più grandi storici del nazismo e del fascismo, ndr) ho lavorato con Reagan, sto qui all’”American Enterprise Institute” con Kirkpatrick, Perle, Novak… E continuo ad imparare».

 

Marco Brando

 

 

 

da "Corriere della Sera-Corriere del Mezzogiorno", 12/6/2005

 

  

 

 

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