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Giorgio Spini era nato a Firenze il 23 ottobre 1916. Ha insegnato in Italia, nelle Università di Messina e di Firenze, e negli Stati Uniti, all’Harvard University, all’University of Wisconsin, e all’University of California (Berkeley). Ha svolto le sue ricerche storiche, oltre che in Italia, in Spagna, negli Stati Uniti, in Svizzera, a Londra e a Parigi. è stato presidente dell'Istituto Socialista di Studi Storici e condirettore della «Rivista Storica italiana». Tra l'altro, si è occupato della storia del Seicento in Europa e in America settentrionale, con particolare attenzione alle correnti antireligiose di questo secolo e ai rapporti tra Risorgimento italiano e movimenti protestanti degli altri paesi europei e degli Stati Uniti. Ha ricostruito la storia del principato mediceo del Cinquecento e di Firenze dopo l'Unità d'Italia. È di imminente uscita presso Einaudi un suo studio sulle origini del socialismo.

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MARCO BRANDO

 

E l'antifascismo ricominciò da Bari

 

Intervista allo storico Giorgio Spini

 

  

 

«Il Congresso di Bari dei Comitati di liberazione nazionale rappresentò l’esordio pubblico di un’élite democratica di grande qualità ma del tutto disarmata. I Cln s’illudevano di rappresentare la maggioranza, ma erano una minoranza». Lo storico Giorgio Spini, dall’alto dei suoi 87 anni (è nato a Firenze, ove vive, il 23 ottobre 1916), non usa mezzi termini, mentre ricorda quel congresso, svoltosi al Teatro Piccinni il 28 e 29 gennaio 1944. Nel dare quel giudizio si avvale non solo della sua autorevolezza di storico (ha insegnato, in Italia, negli atenei di Messina e di Firenze, e in atenei degli Stati Uniti, tra cui Harvard e Barkley) ma anche della sua testimonianza diretta: aderente al Partito d’Azione, al primo summit della rinata Italia democratica partecipò personalmente. Infatti, dopo aver attraversato il fronte che divideva la Penisola ed essere giunto a Bari, entrò a far parte dell’Ufficio Stampa del Comando supremo badogliano, poi, allontanato per le idee «sovversive», fu accolto dagli angloamericani nel «Pwb Combat Team», un’unità incaricata di occuparsi d’informazione e di controinformazione.

   

Professor Spini, lei sostiene che coloro che si riunirono a Bari rappresentavano una minoranza. Eppure dal Congresso di Bari, grazie anche al clamoroso discorso antimonarchico di Benedetto Croce, emerse un netto rifiuto dei compromessi col Governo Badoglio e con i Savoia, considerati eredi del vecchio regime. Concorda?

«Emerse quel genere di rifiuto, per altro condivisibile. Ma non ritengo che i Cln all’epoca potessero avere la forza e i consensi per imporsi».

Secondo la storica dell’Università dell’Aquila Elena Aga Rossi, «tutto fu vanificato con la svolta di Salerno, perché a quel punto Togliatti riuscì a modificare la posizione intransigente degli altri partiti», impedendo quel rinnovamento istituzionale. Dunque il Congresso di Bari è stata un’occasione perduta per dare una spallata ai Badoglio e ai Savoia?

«Io stimo moltissimo la professoressa Aga Rossi, che è una grande storica. Tuttavia forse ha un limite: non è mai stata un soldato. Occorre valutare quali erano le forze in campo. All’epoca il CLN presupponeva di avere la maggioranza dei consensi degli italiani, per le meno di quelli meridionali, già liberati. Ma poi si vide che nel Sud non era così. Il motivo è semplice: allora le masse del Sud erano prepolitiche, legate alla tradizione monarchica, affamate al di là dell’immaginabile. Certo, nel Meridione c’era anche il meglio della classe intellettuale democratica, da Croce a Sforza, da Omodeo a Rodinò, da Cifarelli a Fiore. Gente di alta moralità. Ma erano isolati. Non solo. Quel po’ di forza militare italiana era in mano al re e i vertici delle nostre forze armate avevano una formazione antidiluviana, col cervello fermo al 1918. Oltre tutto, il premier britannico Churchill sognava un’Italia governata dai fascisti senza Mussolini. E allora erano i britannici ad avere la leadership per quel che riguarda la politica italiana. Insomma, quell’élite politica riunitasi sessant’anni fa era di grande qualità ma disarmata e priva di consenso popolare».

Con quali conseguenze pratiche?

«I partiti antifascisti riunitisi a Bari non avevano alcuna speranza né la minima possibilità di poter prevalere sul governo Badoglio e di poter 
rovesciare la monarchia».

Quindi la svolta di Togliatti quale senso ebbe?

«Togliatti, accettando l’ingresso nel Governo Badoglio, da un lato tolse argomenti ai badogliani. D’altro, sbarrò la strada anche al Partito 
d’azione: aveva capito che gli azionisti erano un pericolo per i progetti del Pci».

Eppure il presidente statunitense Roosvelt, che era un democratico, mostrò solidarietà nei confronti dei partiti antifascisti. Cecil e Sylvia Sprigge, corrispondenti dell'agenzia giornalistica britannica Reuter, e Mr. Lumby, corrispondente del «Times», con i loro servizi destarono l'attenzione di diversi esponenti laburisti d'Inghilterra nei confronti del congresso barese. O no?

«Certo. Però Roosvelt era dotato di una freddezza machiavellica. E, se apprezzava - a parole - Croce, fece nominare governatore di Napoli il 
colonnello Poletti, un italoamericano legato alla camorra; così come furono attribuite responsabilità a tanti altri italoamericani legati alla 
criminalità organizzata siciliana. Insomma, Roosvelt non tifava Savoia, ma tifava per gente come Poletti. E per il clero cattolico. Ecco la 
situazione».

I progressisti britannici?

«Guardavano con favore soprattutto a noi azionisti. Un esempio: il maggiore Ian Greenless e il maggiore Robertson, due scozzesi, avevano il compito di gestire Radio Bari e di controllare l’ufficio stampa del Comando supremo, ove io lavoravo. Se la linea di Churchill dettava di appoggiare il re e Badoglio, Greenless e Robertson, con la più tipica flemma britannica, fecero finta di niente e trasformarono Radio Bari nella voce dell’Italia antifascista dei Cln. E dai microfoni di Radio Bari parlarono molti esponenti del Partito d’Azione, tra cui Adofo Amodeo, Michele Cifarelli e io stesso, con lo pseudonimo di Valdo Gigli».

Cosicché fu vietato a Radio Bari di mandare in onda i discorsi svolti al 
Congresso di Bari. La redazione fu trasferita dagli Alleati a Napoli...

«Però, sempre grazie ai quei simpaticoni di Greenless e Robertson, riuscimmo a fare trasmettere i discorsi dei congressisti da Radio Londra, attraverso la Bbc, con grande clamore e successo. E io seguii il congresso assieme a Greenless, entrambi in borghese. Certo, poi la radio dovette lasciare Bari. D’altra parte Badoglio si era inventato anche un partito - quello dei demoliberali - che cercò di impedire persino il Congresso barese dei Cln. Fu utilizzato contro i Cln anche un vecchio arnese del regime, Fillipo Naldi. Diventò capo ufficio stampa del Governo Badoglio e io me lo ritrovai tra i piedi a Bari, inaspettatamente. Tanto che lo aggredii».

Chi era Naldi?

«Un personaggio su cui varrebbe ancora la pena di indagare. Bolognese, giornalista, vicino a Mussolini fin dall’inizio, era stato, come dire..., il 
press-agent in Italia della Sinclair Oil, la compagnia petrolifera statunitense che nel primo Dopoguerra aveva coinvolto in uno scandalo anche la presidenza degli Stati Uniti. Nel 1924 le indagini sul delitto Matteotti riguardarono anche lui: tra le piste seguite ci fu anche quella basata sul sospetto che Matteotti fosse stato ucciso perché avrebbe potuto divulgare documenti comprovanti il versamento di tangenti ai fascisti e alla stessa casa Savoia, in cambio della concessione esclusiva alla Sinclair dei diritti per la ricerca petrolifera. Poi gli inquirenti seguirono l’altra pista, quella dell’assassino puramente politico».

E lei cosa pensa, oggi?

«Che nella pista legata a Naldi ci fosse qualcosa di vero. E Filippo Naldi, guarda caso, ricomparve a Bari vent’anni dopo, al servizio di Badoglio e del Re. Dov’era stato fino a quel momento, visto che era scomparso? Chi lo aveva portato fino in Puglia? E con quali referenze? È un capitolo ancora oscuro della nostra storia».

 

Marco Brando

 

 

 

da "Corriere della Sera-Corriere del Mezzogiorno", gennaio 2004

 

  

 

 

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