È dedicata al pagano dio Sole, ma ora si mostra in prima fila in un tempio cristiano: nella cattedrale di Bari. Un'epigrafe romana, che invoca in tre linee l'antica divinità, è riapparsa di recente su una delle più belle colonne della navata centrale, durante il recentissimo restauro della chiesa barese. Una scoperta che evoca l'assimilazione tra Cristo e il Sole, tanto da indurre la Chiesa a fissare la data della nascita di Gesù nella festività del «Sol invictus». Ma anche una scoperta che getta nuova luce sull'origine di tanto materiale antico (colonne, capitelli, lastre...) riutilizzato nelle nostre chiese romaniche.
A proposito di questa colonna, è naturale pensare che provenisse da un tempio del dio Sole.
La cattedrale di Bari sarà riaperta al culto martedì con una messa solenne, dopo un restauro interno che ha cercato di liberarla dallo sporco e dai depositi formatisi nell'ultimo secolo, dopo che fu sostituito l'apparato barocco e ripristinata la cosiddetta «facies» romanica, o meglio quello che ai restauratori del XX secolo appariva essere l'originale aspetto medievale del tempio. L'attuale rimozione ha riguardato anche le patine allora imposte: come quella boiacca al cemento, spalmata qua e là sulle pareti negli anni '60 per coprire screpolature ritenute poco estetiche. Ora l'interno della Cattedrale di Bari non ci appare pallido e gessato come tanto Romanico pugliese: ha invece restituito colori, sfumature cromatiche impensate, nel rispetto della secolare storia del monumento, come ci suggerisce l'architetto Emilia Pellegrino, che ha diretto il restauro coadiuvata da esperti e maestranze diverse.
Le colonne, soprattutto, mostrano le loro diverse tonalità: il rosso striato, i bianchi e i grigi del marmo pentelico e del marmo proconneso, la trasparenza di colonne preziose in alabastro e il carminio oscuro di una colonnina di pietra lavica... La loro derivazione era orientale, ma evidentemente furono spogliate - nell'XI secolo - da templi e basiliche romani, probabilmente canosini. Sui rocchi delle colonne ora appaiono purtroppo i graffi e le scalpellature che erano serviti nel Settecento ad applicare i gessi e gli stucchi: quando la cattedrale fu rivisitata in chiave barocca, e i lavori furono affidati dal vescovo Muzio Gaeta II (1735-57) all'architetto napoletano Domenico Antonio Vaccaro.
Segni della storia, anche questi. Come anche, nel rispetto di un metodo conservativo ma non privo di scelte stilistiche, sono stati lasciati così com'erano i grandi capitelli di stucco sulle colonne della navata centrale (dal momento che i veri furono nel '700 violentemente erosi e ricoperti). Invece sono stati liberati i piccoli capitelli delle colonnine che adornano in alto il finto matroneo: e ora si mostrano nella loro ricchezza e varietà. Mostrando che, probabilmente, la elevazione della cattedrale, subito dopo la distruzione di Guglielmo il Malo nel 1156, si avvalse anche dei resti delle chiese bizantine dirute. Fu il vescovo Rainaldo alla fine del XII secolo - ricorda Emilia Pellegrino - a ricostruire l'edificio, «con un parziale recupero del materiale proveniente dalla precedente fabbrica».
Nell'abside centrale, hanno goduto di una ripulitura anche il ciborio di Alfano da Termoli e il trono vescovile, «ricostruiti» con molta fantasia da Franco Schettini negli anni '50. Ma è il tardo-barocco a riapparire in tutto il suo turgore nella cripta ad oratorio, ripartita in campate quadrate. Qui non si ebbe il coraggio - durante il restauro della prima metà del '900 - di mettere a nudo le colonnine e i capitelli, del tutto scalpellati dal Vaccaro (a differenza di ciò che avvenne nella cripta di San Nicola): solo una colonna fu liberata dal rivestimento in lastre marmoree del '700, per mostrare didatticamente al visitatore che non sarebbe valsa la pena. Sotto la pesante scialbatura in ducotone grigio è riemerso l'oro della decorazione settecentesca e i graticci dipinti nelle vele delle cupolette; mentre viene ripristinato il colore verde dei costoloni, forse, l'esito di un'ossidazione di un colore più glauco (ma la cripta sarà riconsegnata alla liturgia e ai fedeli solo a fine febbraio).
Insomma si è cercato di salvare le tracce di ogni intervento sulla cattedrale, sottolinea Emilia Pellegrino. Anche i tanto detestati arbitrii di Schettini & comp., innamorati di un Medioevo originario quanto improbabile, ci appaiono in questo palinsesto, quale figlio estetico del proprio tempo. Tutto è memorizzato in una «mappatura informatica», cui è stato sottoposto ogni concio, ogni pezzo lapideo, ogni arredo.
E il nostro tempo, che impronta lascerà in questo palinsesto? Il rispetto per il passato e per la storia: quella equilibrata dialettica tra l'«istanza della storicità» e della «istanza estetica» (come teorizzava Cesare Brandi per il restauro). E soprattutto, i giochi di luce e di illuminazione, progettati da Antonio Vernole, e concepiti «in maniera da armonizzare il più possibile le esigenze richieste dall'importanza storica e architettonica della struttura con le necessità di carattere liturgico e religioso». In questo modo la Cattedrale di Bari si riapre a noi non solo come emergenza artistica e archivio collettivo della città, ma anche come fulcro di vita religiosa, che conserva la prima e secolare memoria di una comunità di fede.
Giacomo
Annibaldis
|
|