PIETRO
CORRAO
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Il
manuale è finito,
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viva
il manuale! |
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Considerazioni
sulla manualistica a proposito di M.
Montanari, Storia Medievale
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è possibile trasformare il manuale?
Due esigenze concomitanti fanno oggi entrare in crisi la possibilità
(già problematica) di utilizzare per i corsi di
base di storia medievale il manuale scolastico,
magari affiancandolo con un manuale pensato per
gli studi universitari: la riduzione - o la
scomparsa tout court - del programma di
storia medievale nelle classi superiori della
scuola secondaria; la riduzione,
nell'ordinamento triennale, del carico di lavoro
previsto per i corsi di base.
La necessità di impostare un livello anche minimo di conoscenze
critiche aggiornate sull'intero programma di
base non permette di limitare i consigli dei
"libri di testo" al solo manuale
scolastico; i tempi ristretti per
l'apprendimento dei "fondamentali" nei
primi anni di corso rendono improponibile il
ricorso a volumi di mole sempre cospicua e ad
alta densità di informazione; l'assenza di un parterre
scolastico adeguato rende problematica
l'adozione di manuali universitari che
prescindono dalla presentazione di conoscenze di
base.
Questa nuova situazione impone la ricerca di una nuova formula per
il manuale, che sia capace di soddisfare
esigenze apparentemente inconciliabili di
sintesi quantitativa, di offerta nozionistica,
di riflessione critica e di aggiornamento.
Il manuale coordinato da M. Montanari per l'Editore Laterza, nel
rispondere a queste sollecitazioni provenienti
direttamente dalla pratica didattica, adotta la
scelta di mantenere la tradizionale struttura
cronologica e tematica - arricchita da
significativi riferimenti al dibattito
storiografico - procedendo ad una operazione di
sintesi quantitativa, in molti casi ben
riuscita, senza alterare lo schema consolidato
della manualistica, con le sue sottolineature
tematiche della prospettiva italiana e il suo
forte radicamento negli orientamenti propri
della medievistica del nostro paese a partire
dal suo consolidamento accademico.
Naturalmente, in base alle inclinazioni o alle preferenze tematiche
di ciascun docente e di ciascuno studioso, nel
volume possono rilevarsi assenze o carenze più
o meno significative; naturalmente, si può
discutere dell'efficacia di alcuni passaggi
eccessivamente sintetici; naturalmente si può
discutere dell'adeguatezza del livello di
generalità imposto dalla scelta della
concisione a costituire la base per il
proseguimento monografico degli studi medievali
dello studente. Va tuttavia ricordato che la
nuova organizzazione della didattica
universitaria (e - non è mai inopportuno
ripeterlo - della scuola secondaria) configura
il corso di base di storia medievale non
solamente come parte propedeutica ai
"veri" studi medievistici, ma spesso
come l'unico momento di approccio non banalmente
"éveneméntielle" al passato
medievale da parte di studenti destinati a
profili professionali molto diversi da quello
del tradizionale laureato in discipline
umanistiche.
Ritengo tuttavia, che si tratti di aspetti di importanza molto più
limitata rispetto all'esigenza di fornire a chi
è destinato ad esempio a lavorare nell'ambito
della comunicazione o del servizio sociale o dei
beni culturali, o a proseguire gli studi nel
campo delle scienze sociali, una cultura storica
relativa al medioevo che non abbia semplicemente
il carattere di banale introduzione ad altri
periodi della storia e che indirizzi le
conoscenze verso l'atteggiamento critico nei
confronti della cultura comune e del modello
medievistico di questa, sulla base di
impostazioni aggiornate e consonanti con i
risultati della ricerca specialistica.
Su questo metro - piuttosto che su quello delle presenze o delle
assenze, della riuscita o meno della narrazione
sintetica - vorrei dunque proseguire nel
considerare il volume laterziano. Tenendo
presente che non intendo ridurre gli obiettivi
degli studi di base di storia medievale al solo
scopo di "cultura generale", ritenendo
piuttosto che tale livello di conoscenza possa -
e debba - costituire il background comune
sia per studenti che non proseguono studi
medievistici o storici tout court, sia
per studenti che utilizzano il manuale (o
meglio, che seguono il corso di base) solamente
come primo gradino per altre specializzazioni in
campo storico o medievistico.
Su questo piano, mi pare sia da riproporre la domanda che formulavo
in apertura di queste note: si può cambiare il
manuale?
Stavolta, però, non intendo per cambiamento solamente
l'adeguamento all'esigenza di sintesi o alla
necessità di aggiornamento critico. Penso a
qualcosa di molto più radicale: alla
sostituzione del modello tradizionale di manuale
- cui il volume di Montanari aderisce pienamente
- con uno molto diverso, che parta dall'esigenza
di proporre quel parterre comune cui
accennavo, ma vada anche oltre, rispondendo alle
domande relative al contenuto che si ritiene
essenziale e necessario per gli studi medievali,
al senso che si vuole attribuire alla cultura
medievistica all'interno di una cultura
umanistica in trasformazione, alla necessità di
riformulare la fisionomia generale delle
conoscenze di base del passato medievale in
funzione della capacità di dialogare con altri
ambiti cronologici della storia e con altri
modelli di cultura medievistica presenti nella
cultura europea e mondiale.
Detto schematicamente, quasi con brutalità: riteniamo che sia
indispensabile - in queste prospettive -
conoscere sia pure sommariamente le vicende
della lotta per le investiture? Che la cultura
medievistica di base non possa prescindere dalla
conoscenza degli eventi istituzionali interni
degli stati regionali? Che abbia valore
essenziale l'apprendimento dettagliato delle
vicende del regno longobardo?
E, di contro, riteniamo che sia possibile trovare un senso e una
collocazione al proprio bagaglio medievistico
senza un'adeguata intuizione del ruolo
dell'elaborazione dei padri della Chiesa nel
definire il nuovo ambito culturale, ideologico,
"politologico", in cui si svolge la
vicenda occidentale dal VII-VIII secolo in poi?
O senza comprendere quali siano i momenti
fondanti della costruzione dello spazio
geopolitico e culturale europeo tra VIII e XIII
secolo? O ancora, senza possedere adeguati punti
di partenza per riflettere sulla progressiva
definizione in senso nobiliare delle élites
europee?
Quello che sto cercando di affermare, forse provocatoriamente, e
forse strumentalizzando un po' un volume del
quale credo tuttavia di avere abbastanza
rilevato i meriti, è che la riflessione sul
manuale, sulla sintesi, sull'efficacia, sulla
destinazione, è - deve essere - l'occasione per
ripensare un modello di "storia
medievale" che, a mio parere, presenta due
grandi debolezze: l'una è la forte
accentuazione della prospettiva italiana;
l'altra la scarsa attitudine a proiettarsi fuori
dall'ottica degli studi medievali in senso
stretto e specialistico.
Si tratta di debolezze costitutive, innanzitutto perché
caratterizzano una lettura del medioevo
subalterna ad una ormai obsoleta sottolineatura
dell'originalità italiana, che la allontanano
da quella dei contesti storiografici non
italiani; in secondo luogo perché costruiscono
una cultura medievistica che incontra molte
difficoltà a confrontarsi con le problematiche
degli altri storici, dagli antichisti ai
contemporaneisti.
Quanto al primo punto, proverò ad identificare il modello di cui
ho detto, confrontandolo implicitamente con
quello emerso in consonanza con la ricerca e la
riflessione medievistica degli ultimi decenni in
altre culture storiografiche europee.
Se un senso ha lo studio del medioevo, lo stesso concetto di
medioevo nella cultura moderna, è quello della
costruzione dei tratti dell'identità collettiva
europea. Si può discutere dei limiti da
assegnare al concetto di Europa, dell'esistenza
o meno di momenti fondativi dell'identità
europea che si collocano in altri momenti della
vicenda storica, ma ciò che non può essere
sottovalutato è che è nei grandi processi di
trasformazione e di sperimentazione che
costituiscono i motivi di fondo della vicenda
medievale che affondano le radici della civiltà
europea.
Ciascuna storia nazionale ha le proprie originalità e ciascuna
corrispondente storiografia le sue inclinazioni,
naturalmente. Ma è indubbio che la proposta
francese o inglese di medioevo europeo ha valore
molto più unificante di quella italiana.
Sarebbe allora, forse, il caso di differenziare
l'insegnamento della storia medievale in uno
generale, "universale" e uno
nazionale, come avviene, ad esempio, nella
didattica dell'università spagnola.
Quanto al secondo punto, l'incomunicabilità della cultura
medievistica con gli altri ambienti culturali
della storia, vorrei rilevare che il recente boom
della storia contemporanea non è che un
epifenomeno di un'impostazione culturale molto
più antica, che vede nel "moderno",
dunque in una malintesa "messa tra
parentesi" illuministica del medioevo la
radice fondamentale della civiltà attuale. Il
fatto che ogni "rivalutazione" (cioè
ogni riconsiderazione, anche se non ideologica)
del medioevo abbia avuto e abbia agli occhi
della cultura storiografica più
tradizionalmente legata alla tradizione laica e
illuministica, il sapore di una battaglia
antimodernista (e in realtà spesso lo sia stata
o lo sia ancora) non deve far dimenticare tutta
l'artificiosità del concetto stesso di
medioevo, sulla quale i medievisti stessi hanno
per primi a lungo e profondamente riflettuto e
non deve scoraggiare la fiducia nella possibilità
di una lettura meno ideologica della storia e
della cultura europea.
Restituire un senso alla vicenda dei secoli V-XV (chiedo venia per
la cronologia frustra, convenzionale e
contestabile) è possibile se si proietta lo
sguardo oltre l'artificioso discrimine della
"modernità", collocando il mondo, i
mondi, dei secoli precedenti in continuità con
lo sviluppo della civiltà europea.
Identificando il "patrimonio genetico"
di questa nella grande trasformazione in senso
romano-germanico e cristiano del mondo antico;
nella definizione di un Occidente in
competizione aperta con l'egemonia orientale
dell'ultima antichità; nella sperimentazione di
forme originali di organizzazione sociale; nella
definizione di diversi orizzonti culturali; nel
delinearsi dello spazio geopolitico dell'Europa.
è in questa prospettiva che la proposta di medioevo da fare a
livello di base trarrebbe giovamento
dall'abbandono del modello "nazionale"
italiano fondato sulla centralità dello schema
regno longobardo-Comune-Chiesa romana (lo schema
implicito anche nel manuale di Montanari).
Trasformandosi in un panorama in cui emerga ad
esempio la centralità dell'esperienza franca
come esito duraturo della sperimentazione
romano-germanica; in cui l'universo
ecclesiastico non sia definito prevalentemente
dalle pievi e dai grandi monasteri della
penisola, ma anche da esperienze monastiche
profondamente diverse da quelle italiane e
dall'acculturazione religiosa delle regioni
orientali dell'Europa; in cui la vicenda
monarchica del Mezzogiorno d'Italia sia parte di
un processo generale - e vincente sul lungo
periodo - di costruzione del nuovo ordine
politico postsignorile.
Mi rendo conto della parzialità di questi esempi, una parzialità
che rischia di essere fuorviante. Cerco allora
di chiarire in termini necessariamente più
generali: restituire le proporzioni alle diverse
originalità dei grandi processi dei secoli del
medioevo può avvenire riconsiderando lo schema
tradizionalmente cronologico dei "trenta
capitoli" dei manuali (e del manuale di
Montanari); proponendo un numero limitato di
temi molto comprensivi, all'interno di ciascuno
dei quali sviluppare l'intera cronologia
medievale, mettendo a confronto - ad esempio,
per l'ambito politico-istituzionale - l'emergere
e il definirsi dell'"ordine
signorile", della costellazione dei poteri
locali, con la ricomposizione politica e
territoriale operata dai Comuni italiani con
quella perseguita dalla monarchie. O
ricomprendendo la trascuratissima e fondamentale
vicenda della Chiesa del XIV e XV secolo
(incredibilmente assente, ad esempio, pure nel
recente, innovativo, ma già in parte inadeguato
manuale universitario Donzelli) in un lungo
percorso di costruzione della Chiesa cattolica
dalla "riforma gregoriana" al Concilio
tridentino, anche in relazione con il più
antico modello "vescovile" e monastico
dei secoli precedenti all'XI.
Ultimo punto, per ripercorrere il filo delle considerazioni
generate dal manuale di Montanari: la sintesi.
In un quadro come quello delineato sopra, che
amplia le tematiche e le ridistribuisce,
rendendole più complesse, più interrelate ad
altri campi disciplinari, come evitare la
necessità di proporre molto più materiale,
molte più nozioni e informazioni, molte più
tematiche e concetti? O come costringere tutto
questo materiale in uno spazio adeguato ai tempi
dello studio di base?
In primo luogo, si tratta di scegliere: aggregare e disaggregare
temi e problemi significa selezionare.
Certamente selezione significa sacrificio, ma
probabilmente ha molta più efficacia, nella
prospettiva che illustro, una sola frase ben
calibrata, adeguatamente evocativa e ben
collocata dal punto di vista dello schema
concettuale di una lunga digressione narrativa.
In secondo luogo: si può immaginare di adottare una pluralità di
strumenti, non necessariamente tradizionali, per
soddisfare esigenze diverse, di diversa natura,
di diversi tipi di studenti. Proporre, accanto
ad un manuale di base discorsivo, strutturato
secondo uno schema nuovo, strumenti di
consultazione e integrazione più secchi e
immediati non necessariamente a stampa. Il
modello del "companion" digitale in
rete del libro a stampa, che si va diffondendo
nell'editoria americana, può essere un valido
esempio, che ha a che fare con il "libro a
strati" proposto per altri contesti da R.
Darnton.
Si tratta di siti web che, in stretto collegamento con un testo a
stampa, offrono strumenti didattici e
integrativi strutturati per l'autoapprendimento.
Affiancare cronologie commentate, carte, test di
apprendimento, schemi e glossari on line
al manuale può risultare una scelta anche
pedagogicamente vincente, perfino sul piano
dell'attrattiva per lo studente.
Un ultimo punto: la più massiccia densità concettuale del manuale
che si ipotizza è incompatibile con le
condizioni e gli scopi didattici di base? Non lo
credo affatto.
Si tratta di non sottovalutare i destinatari: è vero che l'assenza
di background è sempre più drammatica;
è vero che l'intelaiatura nozionistica tende a
ridursi a zero; è vero che sempre più forti
sono le tendenze, anche istituzionali, ad
intendere la "formazione" in senso
meramente professionalizzante.
Ritengo però che lo studente medio dei nostri anni sia ben
disposto ad apprendere se si sente
intellettualmente sfidato: lo stimolo
"alto", l'invito a comprendere il
gusto del gioco intellettuale, la proposta della
complessità sono altrettanti catalizzatori di
elementi di vivacità e di aspirazioni alla
conoscenza sviluppati dalla caotica ma
potenzialmente ricca formazione dei giovani
della "società della comunicazione".
In sostanza: per ripensare il manuale, dobbiamo ripensare l'intera
identità intellettuale del medievista che
scrive e utilizza i manuali nella didattica.
Rivedere consolidate abitudini di scuola;
ridimensionare la tendenza allo specialismo (che
non significa rinunciare alla specializzazione,
ma essere consapevoli che lo studio di base è e
può essere un tipo di studio distinto da quello
propedeutico alla specializzazione); ripensare
il senso dei nostri studi; riformulare le nostre
capacità e inclinazioni didattiche.
è una sfida, che sarebbe banale e fuorviante vedere solamente nella
costrizione dei tempi indotta
dall'organizzazione degli studi universitari e
dalle esigenze editoriali. è una sfida che ha a che fare con il mutamento dell'intero modello
culturale dominante, verso quello che banalmente
e in maniera a volte insopportabilmente
superficiale, viene definito adatto alla
"società dell'informazione". Quale
sia il ruolo della cultura storica in questo
modello, e al suo interno, quale sia quello
della cultura medievistica, è un problema che
gli storici e i medievisti non possono lasciare
ai cantori della "nuova cultura",
arroccandosi su posizioni di sdegnoso pessimismo
e di conservazione "eroica" della
tradizione disciplinare così come si è
sedimentata. Perché la risposta a queste
domande da parte di chi storico non è tende ad
essere semplicissima e distruttiva: nessun
ruolo. Nessun ruolo perché le funzioni
essenziali della cultura storica -
legittimazione, costruzione delle identità - si
presume che vengano svolte meglio e più
organicamente da altri strumenti e processi
culturali.
Pietro
Corrao
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