Non di sole grotte dovrebbe vivere Castellana. La bella cittadina di Terra di Bari è da alcuni anni al centro di una riscoperta artistica, non eclatante eppure determinante a offrire ulteriori ragioni di interesse. Nuovi studi si soffermano sull'attività scultorea di Aurelio Persio, l'esponente più interessante di una famiglia d'artisti lucani del nostro Rinascimento, il quale dopo un tirocinio in Sicilia con i Gagini (come ha rilevato Clara Gelao) si stanziò in questo paese dominato dal «mostruoso» governo delle badesse «mitrate» di Conversano. Qui scolpì le tante statue che abbelliscono la Chiesa madre; alcune delle quali, poste successivamente all'esterno del tempio, meriterebbero di essere maggiormente tutelate. A due secoli di distanza dal Persio un altro scultore, Luca Principino, dedicò tutta la sua vita di fraticello a ornare la chiesa di S. Francesco con altari, colonne tortili, angioletti, statue di santi, acquasantiere, pulpiti, presepi... Era originario di Castellaneta, ma quasi tutta la sua arte plastica è conservata in questa chiesa stupefacente. A far luce su di lui, artista devozionale del Settecento, fu soprattutto Giacomo Lanzillotta.
Il giovane studioso - anch'egli di Castellana - si fa ora promotore di un'altra «riscoperta»: quella del pittore Vincenzo Fato. E per i duecento anni dalla nascita, avvenuta nel 1705, ha curato una mostra e un catalogo, intitolati «Vincenzo Fato nella pittura del Settecento in Puglia». La rassegna ha il suo nucleo centrale nella cappella del Purgatorio a Castellana (ma ulteriori opere si possono ammirare in altre chiese della cittadina); il catalogo ha invece l'ambizione di presentarsi come il primo completo censimento della longeva attività del pittore. In realtà, la mancanza di documenti lascerebbe credere che Vincenzo Fato, figlio di un castellanese e vissuto a Castellana a partire dagli anni '30 del Settecento, non fosse qui nato. Potrebbe essere Bari - come si arguisce da una firma su un quadro conservato a Napoli, in cui il pittore si autodefinisce «barensis» - ad avergli dato i natali e ad avergli fornito i rudimenti dell'arte pittorica (più che Lecce e Serafino Elmo, come ha proposto Mimma Pasculli Ferrara).
D'altronde a Bari svolse, con ogni probabilità, il suo tirocinio anche un altro pittore contemporaneo, il molfettese Corrado Giaquinto, con il maestro Porta. Certo la produzione di Vincenzo Fato, che poté esprimersi per oltre sessant'anni, non toccò mai i vertici della pittura dell'epoca, né il successo attribuito a Giaquinto. Benché al Fato non manchino capacità e creazioni di fattura più che lodevole. Ci si potrà confermare in questo giudizio, visitando le opere esposte in questi giorni nella chiesa del Purgatorio a Castellana, luogo che abbonda di quadri del Fato (ben diciotto) e costituisce già di per sé il nucleo portante per comprenderne l'attività (nella medesima cappella il Fato è ancora sepolto). Insieme a queste tele vengono presentati altri quadri, raccolti da collezioni private o da varie chiese di Castellana, soprattutto da San Francesco, in cui il Fato sicuramente condivise l'attività del più anziano Luca Principino (in un documento, il fraticello indica Fato come colui che dovrebbe colorare le sue statue, alla sua morte).
Di elevata esecuzione appare la «Madonna d'Ogni Bene», variamente datata, e meritoriamente salvata - benché in più parti compromessa - dallo studioso di Castellana M. Lanera, cui si deve la puntigliosa ricerca documentaria sul Fato e sugli altri artisti locali. La Vergine si libra su un trono di nuvole, trattenendo il paffuto Bambinello, che si slancia verso i santi adoranti, in basso: tra essi, un insolito san Giovanni Nepomuceno porge alla Madonna e al Figlio la sua lingua, in una mano; mentre san Filippo Neri indossa la identica pianeta con tulipani rossi che lo avvolge in un'altra bella tela presente in mostra. Si avverte l'influsso del de Matteis, non solo nella scelta del tema, ma anche nei colori della tavolozza. E non è un caso che il grande pittore del Cilento sia indicato come uno dei possibili maestri del Fato. Oscurati da una patina terrosa, e un po' raggrinziti, sono i pannelli dell'ambone. Si raccomandano, tuttavia, per la misteriosa sequenza di simboli connessi al «suffragio»: allegorie della preghiera, del digiuno, delle penitenze, del silenzio... necessarii a portare sollievo e refrigerio alle anime del Purgatorio.
E non meno «ammiccante», per il rimando biblico, appare la teletta che raffigura S. Giacomo il Minore (datata 1779, da collezione privata), in cui l'apostolo mostra le sue prerogative: la fiamma dello Spirito santo, il bastone del martirio e un inconsueto medaglione al collo, in cui è raffigurato il volto di Cristo. Difatti Giacomo il Minore veniva indicato nei testi sacri come «il fratello» di Gesù: da qui la esibita somiglianza gemellare tra i due visi. Madonne con Bambinelli, angeli, santi estatici (preferibilmente gesuiti: da Luigi Gonzaga a Francesco Saverio, a Francesco Borgia...), episodi del Vangelo: questo è il prontuario di Vincenzo Fato. Un artista che disseminò la sua arte in tutte le chiese di Terra di Bari e nelle contrade di Puglia (da Capurso a Conversano, da Mola a Monopoli, da Noci a Polignano, da Rutigliano a Santeramo e soprattutto a Putignano; nonché a Manfredonia, a Castellaneta e a Massafra).
Un pittore che oscillò tra l'eccellente e l'onesto devozionale. Forse vittima di una sempre incombente miseria, che lo costrinse ad abbandonare Napoli (dove sono conservate varie sue tele nel Tesoro di S. Gennaro) per concorrenza feroce; che lo fece morire nell'indigenza a Castellana, dove l'ignoranza di monaci e prelati di provincia - suoi naturali committenti - non fece altro che umiliarlo, sminuendo la sua arte e giocando al ribasso nei compensi.
Giacomo
Annibaldis
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