ANTONIO
CARIOTI
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«Meglio i Borbone dei Savoia»
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Risorgimento - Un saggio di Gigi Di Fiore sulla guerra al brigantaggio e
altri episodi oscuri. Nuove polemiche sui torti subiti dal Sud dopo l'unità d'Italia
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Non
parla male solo di Garibaldi, ma anche di Cavour
e di tutta la classe dirigente liberale
dell'epoca. Ma gli imputati principali sono i
Savoia. Lo dice già il titolo: la Controstoria
dell'Italia unita scritta per Rizzoli da
Gigi Di Fiore, inviato del «Mattino» e
sperimentato saggista, è una sorta di
requisitoria. Non una ricostruzione completa
delle vicende risorgimentali (mancano i moti
mazziniani, le Cinque giornate di Milano, la
Repubblica romana del 1849), ma una rassegna
degli intrighi, degli abusi e degli inganni che
accompagnarono il processo di unificazione. Lo
scopo dell'autore non è però puramente
dissacratorio o recriminatorio. A suo avviso,
proprio i vizi d'origine del Risorgimento si
riflettono sulle difficoltà dell'Italia di
oggi, perché i padri fondatori ci hanno
lasciato in eredità un Paese zoppicante e
sconnesso, ancora segnato dalle cicatrici di
quella che, secondo Di Fiore, fu un'operazione
chirurgica compiuta senza troppi riguardi.
Diversi
i capi d'accusa contenuti nel libro. In primo
luogo l'unità d'Italia non fu il prodotto di
una spinta dal basso, che c'era, ma riguardava
piccole minoranze, bensì di una conquista
militare compiuta dai Savoia annettendosi gli
Stati preunitari e appoggiandosi nei momenti
cruciali sulle armi straniere, francesi nel
1859, prussiane nel 1866.
C'è
di più: il Risorgimento, sostiene Di Fiore, non
fu soltanto lotta contro il dominio straniero,
ma ebbe anche caratteri di guerra civile,
italiani contro italiani, specie nella fase che
vide crollare il regno delle Due Sicilie.
L'annessione del Sud allo Stato sabaudo, incalza
l'autore, avvenne tramite «un'azione ben
organizzata» con l'avallo del governo di
Torino, la spedizione dei Mille, che poi sfociò
in «una guerra d'invasione» quando le truppe
di Vittorio Emanuele II penetrarono in
territorio Borbonico. Seguì un feroce conflitto
tra cafoni meridionali alla macchia ed esercito
italiano, denominato impropriamente «lotta al
brigantaggio»
, con eccessi cruenti su cui si soffermano le
pagine più impressionanti del libro.
Altra
scelta disastrosa, continua Di Fiore, fu
l'estensione delle leggi piemontesi a tutta la
penisola, accompagnata da un accentramento
amministrativo estremo, da cui derivarono i
tratti autoritari di una dinastia abituata a
governare con i prefetti, se non con gli stati
d'assedio. Viene quasi da pensare che l'autore
consideri i Borbone preferibili ai Savoia,
almeno dal punto di vista del Sud, che pagò per
l'unificazione il prezzo più alto.
La
conclusione è che siamo una nazione assemblata
male, come del resto studiosi delle più varie
tendenze (molti per nulla ostili al
Risorgimento) sottolinearono sin dai primi anni
dopo l'unità. Rispetto al loro giudizio, Di
Fiore aggiunge un'attenzione particolare per le
ragioni dei vinti, gli italiani rimasti fedeli
agli Stati preunitari, che videro crollare il
loro mondo davanti al corso inesorabile della
storia.
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Controcanto
- Alfonso Scirocco: «Ma
Francesco II era assolutista»
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Le
riabilitazioni postume dei Borbone non
convincono Alfonso Scirocco, biografo di
Garibaldi e autore di un pamphlet In difesa
del Risorgimento (Il Mulino): «Quando
Francesco II perse la corona nel 1860, la classe
dirigente del regno lo aveva già abbandonato da
tempo. I principali esponenti della cultura
napoletana erano in esilio o in carcere. E
Garibaldi non avrebbe vinto con tanta facilità,
se la borghesia meridionale non lo avesse
appoggiato». Il fatto è, prosegue lo storico,
che il re delle Due Sicilie prediligeva
l'assolutismo: «Non voleva concedere alcuna
forma di libertà politica, né era in grado di
stare al passo con la rivoluzione industriale in
corso nel resto d'Europa. Invece sotto i Savoia,
pur tra molte difficoltà, il Sud ebbe la
possibilità di partecipare ai progressi
dell'Italia, che si affermò come una potenza
europea. Se il Mezzogiorno fosse rimasto
isolato, non avrebbe conosciuto alcuna forma di
sviluppo».
Scirocco
critica chi sostiene che il regno di Napoli non
fosse poi così arretrato. «Su 800 chilometri
di ferrovie in Italia, nel 1860, solo 40 erano
al Sud. Le poche officine meridionali erano
assistite dallo Stato. I primati borbonici
decantati dai nostalgici erano pure illusioni».
Neppure
il brigantaggio postunitario dimostra il legame
tra popolo e dinastia: «Fu una ribellione di
disperati, che solo nei primi tempi, fino
all'autunno del 1861, ebbe una coloritura
politica. Il legittimista spagnolo José Borjés,
inviato dai Borbone tra i briganti, abbandonò
la partita quando capì che gli insorti non
volevano la restaurazione, ma erano contadini
fuorilegge, mossi dalla miseria, dall'odio per
la borghesia e dalla brama di saccheggio. Fu
creato a Roma un comitato per coordinare le
bande ribelli, ma nessun principe borbonico li
raggiunse per mettersi alla loro testa. Quando
poi il capo brigante Carmine Crocco si rifugiò
nello Stato pontificio, nessuno volle avere
rapporti con lui e venne chiuso in prigione.
Anche i legittimisti lo consideravano un predone».
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