VITO
ANTONIO LEUZZI |
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La tragedia italiana dalle foibe di Tito ai campi di Puglia
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Furono oltre 5mila i nostri connazionali dell'Istria e della Dalmazia brutalmente eliminati. Altri furono deportati dal governo jugoslavo o costretti a fuggire, dal 1945. Le ragioni di tanta ferocia? Le mire espansioniste comuniste, ma anche la reazione agli atti violenti del fascismo. Molti profughi vennero nella nostra regione: un dramma sul dramma
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Le prospettive di pace all'indomani della sconfitta del nazifascismo rischiarono di essere seriamente compromesse dopo l'occupazione dei territori giuliani da parte dell'esercito di liberazione jugoslavo. Dagli inizi del maggio 1945 per alcune settimane tutta quell'area (Istria e gran parte della Venezia Giulia) fu investita da una ondata di inaudita violenza politica scatenata dai partigiani di Tito contro gli italiani. Si calcola che almeno 5000 persone furono brutalmente eliminate e deportate nei campi di concentramento della Jugoslavia comunista. Le stragi contro gli italiani, commesse da esponenti del fronte di liberazione sloveno e croato, ebbero come scenario le cavità carsiche dell'entroterra istriano, note con il nome di «foibe», dove furono gettati i corpi anche con l'intento di cancellare i segni degli orrendi misfatti.
Vittime di questi eccidi di massa furono esponenti della Repubblica Sociale Italiana (RSI) e degli apparati dello
Stato fascista, ma anche comuni cittadini e perfino rappresentanti dei Comitati di liberazione italiani che non accettarono di sottostare agli ordini dei comunisti titini o di fondersi con il movimento partigiano iugoslavo. Tutti coloro che si opponevano all'annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia, dichiarati «nemici del popolo», furono perseguitati e deportati.
La radice di questa diffusa violenza contro gli italiani è in parte riconducibile all'odio accumulato da sloveni e croati al tempo del fascismo, che in quell'area adottò una politica di nazionalizzazione forzata e di persecuzione dell'etnia slava. In uno dei proclami fascisti si affermò che «di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica dello zuccherino, ma quella del bastone». Nel corso degli anni Venti e Trenta si devastarono i circoli culturali slavi e si obbligarono le popolazioni all'italianizzazione forzata, imponendo la modificazione dei cognomi e dei nomi di piazze, scuole e strade. Fu persino vietata durante le funzioni religiose l'uso della lingua slovena. Il fascismo nel corso del secondo conflitto mondiale deportò migliaia di intellettuali e studenti sloveni nei campi di concentramento diffusi nel Mezzogiorno, in particolare in Puglia e Basilicata (Tremiti, Manfredonia, Alberobello, Pisticci). Bisogna inoltre considerare che diversi eccidi furono compiuti nei confronti della popolazione civile in Slovenia e in Croazia nel corso dell'occupazione nazifascista. Infine nella fase finale della guerra, nella Risiera di San Sabba alle porte di Trieste, furono sterminate diverse migliaia di slavi, ebrei, oppositori politici (tra cui il sindacalista brindisino Antonio Vincenzo Gigante).
Il rancore e i propositi di vendetta jugoslavi, tra maggio e giugno 1945, scaturivano dunque dalla reazione al fascismo e al contempo da un progetto di controllo totale del territorio che si saldava a pieno con le tradizionali richieste del nazionalismo sloveno e croato. Non si considerò infatti l'apporto dei resistenti italiani alla lotta di liberazione e gli esponenti nazionalisti e comunisti jugoslavi considerarono gli antifascisti italiani «reazionari», perché in dissenso con il programma annessionista. L'esasperazione nazionalista e la radicalizzazione dello scontro politico non cessarono con gli accordi tra Tito e il comando alleato del Mediterraneo, rappresentato dal generale Alexander, che prevedevano la divisione del territorio giuliano in due parti: la zona «A», che includeva Trieste, Gorizia e Pola, sottoposta al controllo militare anglo-americano, mentre la zona «B», comprendente l'Istria e Fiume, rimase sotto l'amministrazione dell'autorità iugoslava.
Ma, pur dopo l'intesa raggiunta nell'estate del 1945 e dopo il trattato di pace del 1947, la crisi a Fiume e nell'Istria non si placò. La
«jugoslavizzazione accelerata» si saldò con il processo di cambiamento imposto dalle logiche del comunismo. Epurazione e misure economiche tese ad imporre scelte di classe colpirono proprietari e rappresentanti di imprese e società soprattutto fiumane. Si attuò «un processo di espropriazione degli espropriatori» che modificò radicalmente gli assetti economici e sociali di tutta quell'area. I più colpiti furono commercianti, artigiani, proprietari, come sostiene Raoul Puppo, in un denso e documentato volume,
Il lungo esodo. Istria, le persecuzioni, le foibe, l'esilio (Rizzoli ed.). In quest'ambito si manifestò il massiccio fenomeno dell'esodo che tra il 1946 ed i primi anni Cinquanta determinò l'abbandono da parte di oltre 250mila italiani di quei luoghi. Interi borghi costieri e molte aree agricole si spopolarono. Zara fu una delle città caratterizzata dalla fuga di larga parte della popolazione. La stessa situazione si determinò a Pola e nel resto dell'Istria dopo il ritiro delle truppe anglo-americane.
Alla paura della fuga si aggiunse anche «l'amara accoglienza» per l'impreparazione dello stato italiano a ricevere un numero così imponente di rifugiati. Diversi campi profughi furono allestiti anche in Puglia, tra cui Altamura, Santeramo, Barletta e Bari, utilizzando ex campi di concentramento militari. Nel capoluogo pugliese i giuliano-dalmati, assieme ai profughi italiani delle ex colonie, provenienti soprattutto dalla Grecia, prima del loro trasferimento definitivo al Villaggio Trieste (1956) vissero in condizioni di estrema precarietà. Nelle baracche di via Napoli (ex campo Badoglio) le condizioni igieniche (un solo bagno per circa cento individui) erano spaventose, denunciate a più riprese dai responsabili sanitari dei Crp (Centri raccolta profughi).
L'emigrazione rappresentò per gran parte degli esuli giuliani l'unica via d'uscita. L'abbandono dell'Italia per le Americhe e, in particolare, per l'Australia, dall'altra parte del pianeta, mise fine, nella metà degli anni Cinquanta, a una delle conseguenze più tragiche della guerra fascista e delle politiche nazionaliste del comunismo di Tito, contribuendo a coprire con il silenzio la storia della comunità italiana, «strappata a forza e cancellata quasi integralmente» dai territori
giuliano-dalmati.
Vito
Antonio Leuzzi
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